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lunedì 8 giugno 2020

"IL CANE DI TERRACOTTA" E L'ATTUALITÀ DELLA CONVERGENZA


di
Mario Gaudio

Salvo Montalbano, figurato nell’immaginario collettivo con il volto di Luca Zingaretti, affronta ne Il cane di terracotta un’indagine «[…] in pantofole, in una casa d’altri tempi, davanti a una tazza di caffè».
Descritto in questi termini, il commissario nato dalla penna di Andrea Camilleri potrebbe sembrare prossimo al pensionamento ma, in realtà, l’ambientazione antiquata nasce dal fatto che il delitto sul quale lavorano le sue formidabili meningi risale a ben cinquant’anni prima.
Dopo il ritrovamento di un arsenale all’interno di una grotta ‒ usata in periodo di guerra a mo’ di deposito per il mercato nero ‒, in una sorta di doppio fondo, vengono rinvenuti due cadaveri uniti in un abbraccio eterno e disposti in maniera quasi rituale. Accanto ai corpi, a far da cornice alla scena macabra e romantica ad un tempo, ci sono una ciotola contenente delle monete, un “bummolo” (brocca di creta) e un cane di terracotta che sembra vegliare sulla coppia.
Il cane di terracotta
di Andrea Camilleri
Montalbano, «affatato» da quella scoperta, raccoglie la sfida di una vicenda che, sebbene non avrà conseguenze giuridiche, darà soddisfazione ai suoi meccanismi investigativi e pace ai due poveri defunti.
Tra il «nirbuso» provocato dalla sua meteoropatia, le pantagrueliche abbuffate di pesce presso l’osteria “San Calogero”, le «sciarriate» con l’eterna fidanzata Livia e il ferimento al fianco durante un attentato, il commissario si immerge in una truce storia di amore e violenza consumatasi nel luglio del 1943, proprio nei giorni dello sbarco delle truppe americane in Sicilia.
Facendosi strada tra gli annebbiati ricordi del preside Burgio e consorte e le stramberie dello spretato e colto Alcide Maraventano, Montalbano riuscirà a ricostruire le cause e le modalità dell’antico delitto, dando nome e memoria ai cadaveri dei due giovanissimi amanti.
Camilleri, con consumata esperienza di regista e sceneggiatore, imbastisce la narrazione a partire dal dramma La gente della caverna di Taufik al-Hakim ‒ come candidamente avverte in una nota ‒, ma costruisce il tutto tenendo conto della tradizione cristiana dei Sette dormienti di Efeso e di una leggenda similare raccontata nel Corano.
Insomma, il compianto scrittore siciliano fa della sua opera un punto di incontro tra Oriente e Occidente, richiamando con questo atteggiamento un gigante della cultura sudamericana ‒ Jorge Luis Borges ‒ e rendendo valido il concetto di letteratura come punto di convergenza e scambio tra culture diverse.
Lo scrittore siciliano Andrea Camilleri
(1925-2019)
Del resto, tale operazione non poteva non avvenire in terra sicula, crocevia, nel corso dei secoli, di diverse civiltà e popoli e spazio aperto di convivenza tra la tradizione autoctona, quella del “continente” e quella delle non lontane coste nordafricane.
In ultima analisi, sebbene il romanzo risalga al 1996, le sue pagine ci offrono uno spaccato storico sui tempi difficili della guerra e, soprattutto, un quadro di apertura e flessibilità culturale quanto mai necessarie nella nostra confusa e superficiale epoca.
«Le affinità elettive erano un gioco rozzo a paro degli insondabili giri del sangue, capace di dare peso, corpo, respiro alla memoria». Montalbano docet!
Spezzano Albanese (Spixana), 18/V/2020

"LE AVVENTURE DI PINOCCHIO": UNA FIABA PER BAMBINI?


di 
Mario Gaudio

Il fiorentino Carlo Lorenzini (1826-1890), meglio conosciuto con lo pseudonimo di Collodi, è stato autore di una mole di scritti essenzialmente mediocri ma, quasi miracolosamente, la sua penna ha partorito anche un capolavoro della letteratura per ragazzi ‒ e non solo ‒ universalmente noto con il titolo Le avventure di Pinocchio.
La fiaba del celebre burattino fu pubblicata a puntate sul “Giornale per i bambini” a partire dal 7 luglio 1881 e, in seguito, apparve in volume unico nel 1883.
Se ad un primo sguardo l’opera di Collodi sembra destinata essenzialmente alla fruizione dei giovinetti e alla loro educazione ‒ considerata la consistente presenza di massime pedagogiche ‒, un’analisi più accurata ci consente di capire i risvolti più impegnativi che essa nasconde tra le sue pagine.
Le avventure di Pinocchio
di Carlo Collodi
Le vicende del capriccioso protagonista assumono la valenza di un vero e proprio percorso iniziatico, che condurrà un semplice pezzo di legno ‒ misteriosamente dotato di spirito e di parola ‒ a diventare un burattino prima e un ragazzo dabbene in un secondo momento.
Questo passaggio, che ‒ ovviamente ‒ implica una sostanziale evoluzione ed una crescita esperienziale, porta con sé non poche prove e altrettanti sprazzi di dolore: ricordiamo, per inciso, che più volte Pinocchio sfugge alla morte, subisce inganni e affronta pericoli. Tutto questo avviene principalmente a causa del suo carattere bizzoso e irresponsabile, ma ciò non toglie una particolare sensibilità d’animo che lo connota.
L’itinerario percorso dal burattino è irto di ostacoli e costellato di incontri con personaggi straordinari ‒ per l’appunto fuori dall’ordinario ‒ quali la Fata dai capelli turchini, una sorta di guida nell’iniziazione, lo spaventoso Mangiafuoco, la cui commozione si esprime attraverso gli starnuti, e il Pescatore tutto verde che tenta di friggere il malcapitato Pinocchio.
Tali figure eccezionali fanno palesemente da contraltare alla profonda semplicità e umanità di Geppetto che incarna appieno l’amorevolezza di una figura paterna ancora valida e, pertanto, decisamente lontana e diversa rispetto a quella dei nostri tempi.
Non manca, come da antica tradizione favolistica, il complesso di animali parlanti che incarnano le varie e contrastanti passioni dell’essere umano: il Grillo pungola la coscienza dello scapestrato burattino con buoni consigli, il Gatto e la Volpe si mostrano maestri nel raggiro, il cane Alidoro assurge a simbolo della riconoscenza e il Tonno diventa il provvidenziale soccorso dinanzi al pericolo del mare.
Tuttavia, il tema di fondo che alimenta la fiaba di Collodi è quello della metamorfosi. Pinocchio subisce per ben quattro volte un mutamento della sua natura: l’iniziale pezzo di legno diventa un burattino che, nel Paese dei Balocchi, assume sembianze di asino per ritornare, successivamente, allo stato di marionetta ed assumere, infine, i connotati di un grazioso fanciullo.
Lo scrittore Carlo Lorenzini (Collodi)
(1826-1890)
L’autore gioca dunque con il topos della trasmutazione che affonda le sue radici nella proverbiale notte dei tempi e trova significativi esempi nella Bibbia ‒ la moglie di Lot è trasformata in una statua di sale durante la fuga da Sodoma (Gen 19, 26) ‒ nell’Odissea ‒ basta ricordare, in proposito, l’episodio della maga Circe che tramuta in porci i compagni di Ulisse ‒ e nella letteratura latina con le celebri Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio.
Non manca un significativo tocco cristiano che ci consente di leggere la fiaba di Pinocchio come doloroso quanto necessario cammino verso una redenzione e se, come accennavamo poc’anzi, Collodi richiama un episodio della Genesi, non dobbiamo dimenticare che il passaggio in cui si narra la permanenza del burattino e di Geppetto nel ventre del grosso Pescecane è modulato sicuramente sul racconto biblico di Giona inghiottito dalla balena.
Insomma, Le avventure di Pinocchio trascendono la riduttiva qualifica di fiaba per ragazzi ambientata in una Toscana agricola e senza tempo: Collodi, con semplicità e intuizione, si rivolge, per mezzo del suo burattino, anche a noi lettori adulti e distratti, invitandoci a comprendere i valori della trasformazione e del continuo miglioramento.
Come direbbe il saggio Apuleio: «Lector intende: laetaberis!» (Attento, lettore: ti divertirai!).
Spezzano Albanese (Spixana), 20/V/2020

sabato 6 giugno 2020

"SE LA SPOSA È UN FIORE D'APRILE", IL MATRIMONIO SPEZZANESE NEL FUMETTO DI JANÙ


di 
Mario Gaudio

Il genere del fumetto è di per sé fluido, di difficile inquadratura, sfuggente alle osservazioni del critico al pari dell’antico dio Proteo che, secondo tradizione, mutava inaspettatamente forma per sottrarsi a coloro che ne ricercavano il vaticinio.
Sulla scorta di questa oggettiva difficoltà, Iannuzzi si interroga sulla definizione della sua opera, proponendo tutta una serie di ipotesi convincenti ma parziali, e arrivando − quasi con rassegnazione − a condensare il senso del suo lavoro nell’immagine di «una semplice storia d’amore a lieto fine».
Senza presuntuose aspirazioni interpretative, cercheremo di oltrepassare questa definizione fornendo qualche chiave di lettura ulteriore, capace di completare un quadro grafico-narrativo sicuramente complesso.
Se la sposa è un fiore d’aprile prende il nome da un verso di un vecchio canto popolare e racchiude in sé una storia che, come tale, non può sfuggire alle ineluttabili catene del tempo e dello spazio: la vicenda si sviluppa, in effetti, negli anni Trenta del Novecento nel piccolo e accogliente borgo di Spezzano Albanese, terra natia dell’autore.
I personaggi principali dei fatti narrati sono Antonio ed Elena, rispettivamente padre e madre di Janù, ma un’analisi minuziosa fa emergere la presenza di un altro imponente protagonista: la gjitonia (il vicinato, per intenderci), vero cuore pulsante e possente motore di questa sequenza narrativa.
Sebbene sia presente un forte protagonismo corale, di matrice marcatamente popolare, la tematica centrale resta quella dell’amore tra due figure differenti per estrazione sociale e per origine (Antonio proveniente da una famiglia arbëreshë orgogliosamente legata alle tradizioni ed Elena, al contrario, di rito latino e residente nella limitrofa San Lorenzo del Vallo).  Tuttavia, come da consuetudine letteraria, gli ostacoli vengono surclassati dalla sincerità delle emozioni e dalla caparbietà dei personaggi, consentendo la celebrazione delle tanto agognate nozze.
Il matrimonio campeggia come evento centrale della narrativa di Iannuzzi che, in tal modo, focalizza la sua attenzione su uno degli eventi cardine della società contadina spezzanese di inizio Novecento e colma di significato quella serie di riti, tradizioni, formule e simboli che connota l’unione sponsale nel variegato mondo arbëresh.
Se la sposa è un fiore d'aprile
di Vincenzo Iannuzzi (Janù)
Ecco affacciarsi, dunque, tra le pagine del fumetto, lo spirito, semplice e vigoroso allo stesso tempo, di uomini e donne legati alla terra e alla saggezza agreste che formulano i loro canti augurali nei confronti degli sposi auspicando raccolti abbondanti e floride vendemmie.
Con fare volutamente antistorico, Janù colloca in pieno Novecento riti e tradizioni prettamente bizantine: gli sponsali sono celebrati da un papàs, figura emblematica della religiosità di origine orientale, esempio di sacerdote e marito per cui, come scriveva Nicola Misasi, «[…] la religione non  comincia […] da Dio per finire a Dio, ma sale dalla famiglia al cielo e amalgama in un solo culto l’amore per la creatura e l’adorazione per il creatore»; seguono il triplice scambio delle corone di fiori sul capo degli sposi, da parte dei testimoni – segno della grazia e dell’esigenza di comunione tra i coniugi −, la rottura augurale del bicchiere nel quale i nubendi hanno bevuto – rituale che richiama l’episodio evangelico del banchetto delle nozze di Cana – e, infine, il triplice giro attorno all’altare, simbolo di “gioia ed esultanza” per la felice occasione.
Prende corpo, pertanto, nelle pagine dell’opera, quella triade costituita da lingua arbëreshë, tradizioni e rito bizantino di cui la nostra Spezzano è stata gradualmente menomata: in passato con la soppressione violenta del rito greco − avvenuta definitivamente nel 1668 −, l’imposizione del rito latino per meri motivi politico-economici e il conseguente e oggettivo impoverimento spirituale e identitario; nel presente con la riduzione drastica, soprattutto tra le giovani generazioni, del numero di parlanti l’antica lingua arbëreshë.
Il potere della parola e la suggestione delle immagini riportano in vita le ancestrali usanze di un popolo fiero e solidale. Fanno capolino nel testo di Iannuzzi la bambola quaresimale nota con il nome di Kreshmeza, la straordinaria bellezza delle danze popolari (le valle) e i suggestivi colori dei costumi llambadhor, preziosi quanto vistosi abiti di gala indossati dalle donne della nostra terra.
Tuttavia, non manca una sottile e penetrante venatura malinconica che trova espressione nel commosso accenno ai numerosi spezzanesi morti eroicamente sui diversi fronti del primo conflitto mondiale. A ciò si aggiunge anche la presenza del tema dell’emigrazione, particolarmente sentito dal nostro autore che, in tenera età, è stato costretto ad abbandonare il proprio borgo natio.
La tematica migratoria pesa sulla narrazione attraverso due figure caratterizzate da una ossimorica presenza-assenza: il padre dello sposo − che si ammala sul piroscafo che lo sta riportando in Italia e, una volta giunto a Spezzano, rende l’anima a Dio − e il padre di Elena, che vive per necessità in Argentina e, a causa dell’enorme distanza, non riesce a partecipare neppure alle nozze della sua adorata figlia.
La nostalgia si affaccia con prepotenza tra le vicende narrate e ricorda al lettore le difficoltà di vita dei propri avi, richiamando a gran voce quello spirito di sacrificio che la nostra società, tecnocratica e superficiale, sta gradatamente dimenticando.
I canti tradizionali accompagnano i vari momenti di vita e di lavoro descritti e graficamente rappresentati nell’opera di Iannuzzi, evidenziando uno spirito di comunione che, attraverso il canto, rinsalda l’identità e alleggerisce gli animi dinanzi alla fatica quotidiana.
Il quadro che affiora dal fumetto è quello di una società travagliata, ma unita, carica di speranza nonostante le difficoltà, capace di assaporare i momenti e di comprendere l’inestimabile preziosità del tempo vissuto nella concordia e nell’operosità. Un ritratto ben lontano dal “liquido” postmodernismo, ma capace di insegnare ancora grandi e durevoli valori.
Iannuzzi gioca con la memoria, riconoscendo in essa un valido rimedio contro lo scriteriato fluire delle mode, in una visione in cui la cronaca diventa Storia e questa, a sua volta, fecondata dalla tradizione, diventa poesia.
Ritornando al quesito iniziale circa la possibilità di dare una definizione al fumetto di Janù, stando a quanto detto, possiamo circoscrivere l’opera adottando almeno tre immagini: il dono, lo scrigno e il prisma: il dono riconoscente dell’emigrante verso la sua terra d’origine, nel tentativo di riscoprire le proprie radici e i suoni con cui da bambino articolò le prime parole; lo scrigno della memoria che racchiude le preziose perle della tradizione, patrimonio inestimabile per chi vi si accosta con curiosità e spirito di conoscenza; il prisma dell’arte che è capace di scomporre la bianca luce della Storia nella policromia della narrazione, delle immagini e dei sentimenti.
Ernest Koliqi, nei suoi rinomati Saggi di letteratura albanese, descrisse Skanderbeg come «[…] il creatore di un’idea di fratellanza, colui che aveva acceso un sacro fuoco nel grande focolare della stirpe, che aveva insegnato alla gente legata dallo stesso sangue e dalla stessa lingua a considerarsi figli della stessa madre», Iannuzzi, attraverso il suo fumetto, con l’armonica fusione tra immagini e parole, ricorda a tutti noi l’importanza delle radici e del passato, unico ed efficace antidoto contro la narcosi delle coscienze e la negazione del bello, unico argine contro la disgregazione delle identità e il disinteresse generale.
Il compianto filosofo francese Paul Ricoeur scrisse: «[…] La memoria è tutto ciò che abbiamo per assicurarci che qualcosa è effettivamente accaduto un tempo». È esattamente questo lo spirito che impregna il gradevolissimo lavoro di Iannuzzi.

Spezzano Albanese (Spixana), 2/VIII/2018

"MILLE PROVERBI A TERRANOVA DA SIBARI", PAGINE DI RICORDI E DI SAGGEZZA


 di
Mario Gaudio

Un’antichissima leggenda ebraica narra che l’essere umano, dal momento del concepimento nel grembo materno sino alla sua venuta alla luce, sia dotato di onniscienza: dispone, cioè, di tutta la sapienza del mondo in quanto l’alito di vita, ricevuto in dono, discende direttamente dall’alto dei cieli. Al momento della nascita − e, dunque, dell’ingresso nel mondo − questa straordinaria capacità viene meno, lasciando l’Uomo nella necessità di apprendere e di acquisire conoscenze tramite un faticoso quanto essenziale percorso a ritroso in grado di richiamare alla memoria un frammento di quella portentosa sapienza originaria.
È evidente in questa credenza rabbinica la stretta correlazione tra conoscenza e memoria, binomio inscindibile anche per la tradizione occidentale: non a caso, Socrate fu considerato l’inventore dell’arte maieutica attraverso cui riusciva a condurre il dialogante a prendere coscienza di determinate verità che, in realtà, albergavano già nel proprio mondo interiore.
Il fortunato connubio memoria e conoscenza domina, come tema centrale, la nuova fatica letteraria di Eduardo Apa: un lavoro multiforme che parla di antico, sa di nuovo e contiene addirittura tratti avveniristici.   
Dopo una lunga e riuscita esperienza nel campo della narrazione, della ricerca storica e artistica, l’autore ha deciso di cimentarsi con una nuova sfida intellettuale, dando vita al volume intitolato Mille proverbi a Terranova da Sibari, una certosina raccolta di massime – tanto della tradizione locale, quanto di quella nazionale – in uso nella sua ridente cittadina.
La genesi dell’opera, a discapito del brillante risultato raggiunto, è quasi casuale: Apa, nella Premessa, confessa candidamente di aver iniziato a raccogliere proverbi con lo spirito rilassato di chi compila le caselle di un cruciverba. Tuttavia, il susseguirsi dei motti, come era prevedibile, ha alimentato l’interesse di un intellettuale dinamico, che non poteva rimanere indifferente dinanzi ad una materia così stimolante per chi, da sempre, ha cercato di far emergere, attraverso i propri scritti, l’essenza schietta dei costumi dell’amato territorio natìo.
Ecco, pertanto, che massima dopo massima, riemerge il ricordo dell’infanzia, di episodi, strade, volti, voci e azioni che non esistono più, in quanto logorati dal tempo, ma le cui tracce continuano a vivere e fermentare nella memoria e negli insegnamenti.
Lo scrittore Eduardo Apa nel suo studio
Mille proverbi a Terranova da Sibari diventa per il lettore una miniera di inesauribile conoscenza del mondo che ci ha preceduto e del bagaglio di esperienze donateci in eredità. Il genere stesso del proverbio, per definizione, si presta agevolmente a tale scopo, cristallizzando il tempo e custodendo l’essenziale.
Alle spalle del lavoro di Apa, vive un’ampia tradizione letteraria costituita da sillogi di proverbi capaci di attraversare con coraggio molte epoche e altrettante latitudini. Nel primo millennio a.C., il faraone Amenemope raccolse detti di saggezza dei suoi contemporanei (ne ricordiamo, per la cronaca, uno estremamente celebre che recita: «Meglio il pane con un cuore felice, che la ricchezza con l’afflizione»); secoli dopo, la Bibbia stessa annoverò tra i suoi testi costituenti il libro dei Proverbi, attribuito a Salomone, il re sapiente per eccellenza, a cui la Sacra Scrittura assegna la paternità di ben tremila proverbi (cfr. 1Re 5, 12).
In epoche a noi più vicine, anche Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536) subì il fascino dei proverbi e compilò un’opera intitolata Adagia, condensando tra le sue pagine le massime di saggezza del mondo greco e latino.
La produzione letteraria successiva non fu esente dall’utilizzo di motti di sapienza popolare che, molto spesso, facevano capolino tra le righe di scritti di ben altro tenore: ricordiamo, a tal proposito, almeno le inserzioni proverbiali presenti nella Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena (1470-1520), nel Cortegiano di Baldassar Castiglione (1478-1529) e nelle gustose opere di Pietro Aretino (1492-1556).
Da questo excursus emerge con chiarezza l’antichità del filone letterario a cui appartiene il libro di Apa ma, nello stesso tempo, non possiamo esimerci dal riconoscere al nostro autore una certa originalità che si concretizza nel coraggio di presentare il vigore di insegnamenti popolari – da lui vissuti in prima persona – ad una società sempre meno attenta, incapace di assaporare il valore del tempo e priva di adeguati spazi di meditazione.
Un momento della presentazione del libro
di Apa a Terranova da Sibari (7-11-2018)
Mille proverbi a Terranova da Sibari abbraccia la vita del tempo che fu in tutte le sue sfaccettature: attraverso i proverbi, rivivono i rapporti umani – nello specifico, quelli non sempre facili tra parenti e quelli spinosi ma interessanti tra uomini e donne −, riprendono corpo lucide considerazioni sulla fortuna, l’amore, la giustizia, la risolutezza, la prepotenza e il legame tra Dio e gli uomini. Ogni sezione del libro ci presenta uno spaccato di vita che ha come denominatore comune il fondamento agreste di una società in cui il fluire dei giorni è scandito dall’amore viscerale per la terra e dalle faticose azioni utili a farla fruttificare (nella fattispecie: la vendemmia, la potatura, la semina e la mietitura).
Ne affiora un quadro in cui lunghe serate, trascorse alla tremolante luce delle candele o dei lumi ad olio, si alternano a paesaggi idilliaci in cui una Natura provvida e armoniosa fa da sfondo a segni inconfondibili che la sapienza popolare, attraverso i proverbi, interpretava per pronosticare le condizioni atmosferiche a breve termine.
Gli eventi climatici, previsti per mezzo di particolari segni, rappresentano, nella società descritta da Apa, la salvezza o la distruzione di un raccolto, determinando, di conseguenza, il benestare o la malasorte di una famiglia.
Se queste pagine ricordano con vivacità la durezza e la precarietà della vita contadina, l’attento lettore non può che scorgervi in filigrana quella atavica sapienza che già era stata racchiusa ne Le opere e i giorni di Esiodo di Ascra (VIII secolo a.C.), nei Fenomeni di Aràto di Soli (310 a.C.) e nelle delicate pagine delle Georgiche virgiliane.
Nella società di Apa, come in quella dei classici appena citati, campeggia un legame simpatetico con la terra e quanto in essa contenuto, un rapporto filiale tra l’Uomo e l’elemento naturale che conduce inevitabilmente, quasi per una sorta di arcana proprietà transitiva, ad una fraternità tra ogni singolo uomo e i propri simili.
I proverbi raccolti hanno una funzione fortemente rasserenante e la loro ambivalenza − o, molto spesso, la difficoltà interpretativa − li rende adatti ad ogni circostanza, per quanto avversa possa essere. Il rumore di fondo è comunque un costante invito alla moderazione, a quell’aurea mediocritas di oraziana memoria di cui tanto necessiterebbe la nostra epoca convulsa.
Alla valenza storica e didascalica, il libro di Apa affianca anche un forte insegnamento linguistico. I proverbi sono riportati fedelmente in dialetto terranovese – con relativa traduzione e spiegazione – al fine di far assaporare meglio l’atmosfera in cui queste perle di saggezza venivano pronunciate. Tuttavia, l’uso del dialetto è indubbiamente un efficace strumento per valorizzare l’antica parlata dei nostri avi, oggi sempre meno conosciuta in quanto sopraffatta da un massificante italiano standard regolamentato dalla televisione e dagli altri moderni mezzi di comunicazione di massa.
La lettura dell’opera di Apa risulta avvincente, istruttiva e coraggiosa ma – è bene precisare – che da questo piccolo mondo antico, fatto di terra e semplicità, non possiamo che limitarci a trarre insegnamenti e valori. Una esegesi errata potrebbe indurre a pensare alla necessità di un ritorno a quel genere di società contadina marchiata dalla frugalità, ma è evidente l’impossibilità di una tale prospettiva dacché occorre ammettere, senza ipocriti infingimenti, che, benché afflitto da enormi problemi, l’Uomo contemporaneo non può prescindere dalle imponenti innovazioni in campo tecnologico, dalle evoluzioni della medicina e dagli elementi caratterizzanti la moderna globalizzazione.
Del resto, lo stesso Apa, per evitare antistorici desideri di ritorno al passato, dichiara di avere come obbiettivo del suo libro semplicemente il «prospettare le conoscenze e le esperienze fatte nell’arco di una lunga vita».
Ne affiora un messaggio di straordinario equilibrio, un invito a contemperare − senza stravolgimenti − il tempo presente con i valori di solidarietà, condivisione, semplicità e laboriosità, che furono il cardine della generazione precedente.
È proprio a partire da questa armonizzazione tra antico e moderno che Mille proverbi a Terranova da Sibari presenta, come dicevamo all’inizio, addirittura dei tratti avveniristici.
Negli anni Novanta del secolo scorso, Chris Langton – eminente fisico dell’Istituto di Santa Fe, nel New Mexico – elaborò una teoria, applicabile ai sistemi complessi, nota con il termine di “margine del caos”. Langton notò che sistemi molto grandi – quali una popolazione, una grossa società finanziaria, un numeroso branco di animali, l’insieme dei neuroni cerebrali ecc. – prosperano soltanto in un punto-limite definito “margine del caos” in cui convivono indistintamente vecchio e nuovo, stasi e movimento, conservazione e innovazione. Insomma, avvicinarsi troppo al margine significherebbe cadere nell’anarchia, ritrarsene eccessivamente implicherebbe il più rigido totalitarismo: ne consegue che «l’eccessivo mutamento diventa letale quanto l’eccessivo immobilismo».
La ricetta vincente è, pertanto, quella della saggia moderazione che, applicata al nostro caso, ci induce a riflettere sul fatto che, sebbene tecnologizzati e veloci, abbiamo disperato bisogno degli ideali di semplicità, racchiusi da Apa nei suoi proverbi, per poter ritornare a prosperare.
Spixana (Spezzano Albanese), 6/XI/2018

venerdì 5 giugno 2020

"IL CAMMINO DEGLI ELETTI - DECIMUS": ROMANZO DI PASSIONI E MAGIA


 di
Mario Gaudio

Il cammino degli eletti – Decimus, romanzo d’esordio di Ilina Sancineti, appare nelle vesti di uno scritto coinvolgente, in cui si miscelano temi estremamente diversi tra loro ma che, in maniera sapiente, creano quel giusto contesto in grado di rendere scorrevole la lettura e particolarmente gradevole la narrazione.
Le vicende raccontate dall’autrice sembrano farsi beffa del tempo: Medioevo e modernità si intrecciano attraverso una storia che parte dal concetto di immortalità, si spalma lungo un millennio e si condensa nel breve lasso di tempo dei primi dieci giorni di novembre del 2018.
Ma, se il tempo è relativo, lo spazio non è da meno: nel romanzo della Sancineti tanto gli scenari geografici quanto quelli dell’anima mutano repentinamente e grandi distanze vengono percorse con il potere del ricordo o quello della magia, tematica rilevante su cui ci soffermeremo tra poco.
La mancanza di punti fissi rende la narrazione policentrica ma, con accortezza, l’autrice distribuisce tra le pagine alcune tematiche che fanno da sicura bussola per il lettore e ne saziano il suo naturale bisogno di ordine e di comprensione.
Il primo di questi temi è il contrasto costante tra la luce e il buio, con tutte le implicazioni reali e simboliche che tale dicotomia porta con sé. Il chiarore diventa vita, calore, sentimento positivo – da notare, in proposito, il riferimento duplice, nei capitoli iniziali e finali della narrazione, alla santa martire Lucia −, mentre le tenebre nascondono oppressione, paure e tutto ciò che sfugge alla limitata ma importante razionalità umana. Questi ritratti chiaroscurali, di marca quasi caravaggesca, costellano molte pagine del romanzo della Sancineti e rendono visibile, e dunque sensibile, la vera lotta che si consuma tanto nei fatti narrati quanto nella vita quotidiana: quella tra il Bene e il Male.
L’altro tema rilevante è l’amore. Il più nobile dei sentimenti è declinato dall’autrice in tutte le sue molteplici sfaccettature: dall’affetto familiare che vincola teneramente il vecchio nonno Antonio alla giovane nipote Laura, all’irresistibile attrazione tra quest’ultima e Layamon, passando per il legame cavalleresco che, al di là dei secoli, unisce Logan alla sua evanescente Phillis.
Tuttavia, se il sentimento amoroso pervade e santifica le esistenze di alcuni personaggi, anche l’odio si ritaglia il proprio spazio nella narrazione e assume le forme della vendetta che, attraverso i millenni e le generazioni umane, cerca di consumare la sua macabra esistenza con il compimento di una oscura maledizione.
La magia, a cui si accennava in precedenza, è una delle tematiche centrali del libro della Sancineti e coinvolge uomini insospettabili come l’inquisitore Achille Portos e il suo lontanissimo discendente padre Grey. Gli incantesimi sconvolgono le vite di due innocenti soldati (i già citati Logan e Layamon) che, puniti per la loro curiositas, si ritrovano − dopo mille anni − a lottare strenuamente per la salvezza delle proprie anime in un tempo che non è il loro e con un corpo marchiato dalle cicatrici derivanti da indicibili sofferenze.
Il cammino degli eletti  - Decimus
di Ilina Sancineti
Un’analisi attenta dello scritto della Sancineti ci consente di notare l’assoluta preminenza del ruolo della parola. Essa, come nella creazione raccontata dalla Genesi, ha il potere di dare la vita e la libertà, ma un intento malvagio la può trasformare in strumento di tormento e di morte, come nel caso del maleficio a cui sono sottoposti i due protagonisti.
Tuttavia, paradossalmente, il male legato alle parole si combatte con un antidoto formato da altre parole, custodite gelosamente in due libri – chiamati rispettivamente Vires e Maleficium – che costituiscono l’unico strumento in grado di liberare la coppia di malcapitati dal perfido sortilegio.
Ilina Sancineti ci offre, pertanto, una mistione di eventi guidati dalla concezione secondo cui generosità e malvagità non possono essere mai assolutizzate ma possiedono, al loro interno, una minima ma significativa particella del loro opposto. Ne è un esempio tangibile il personaggio di Rufus, la Sentinella Bianca, un povero contadino divenuto vittima accidentale del maleficio, costretto a servire brutalmente il potere delle tenebre, ma con in cuore il ricordo degli affetti più cari: non a caso, nel momento in cui il suo corpo sarà distrutto, accanto alle ceneri e ai sogni infranti rimarrà, quasi nostalgicamente, un piccolo ciondolo d’argento con incisi i nomi di una donna e di un bambino.
Il cammino degli eletti - Decimus è popolato di creature oltremondane, a volte mostruose, guidate da istinti animaleschi e costrette a interagire con uomini appartenenti ad un’altra epoca, ma che conoscono appieno l’importanza e l’immortalità dei sentimenti e subiscono, quasi stoicamente, l’agghiacciante necessità delle scelte. Logan e Layamon si ritrovano dinanzi alla realtà dopo aver affrontato prove dolorosissime e battaglie fisiche e spirituali ma, al netto di tutte le loro avventure, vengono condotti dinanzi al più terrificante dei dilemmi: rinunciare completamente al passato o rinunciare completamente al futuro.
Il finale pare atroce agli occhi del lettore ma, senza scendere nei dettagli, ogni cosa ritorna al suo posto e asseconda quelli che sono i disegni stabiliti ineluttabilmente da una forza superiore. L’apparente quiete raggiunta viene però turbata dalla comparsa di un nuovo e misterioso personaggio – un certo Marcus Mèvelo – che, sebbene appena accennato nelle ultime battute del romanzo, diventa l’originale trait d’union con le vicende degli altri due volumi della trilogia di cui Il cammino degli eletti – Decimus fa parte.
Dal punto di vista stilistico, il romanzo di Ilina Sancineti si compone di una prosa semplice e fluida, mai retorica, a tratti carica della giusta dose di pathos, ricca di similitudini e, soprattutto, colma di dotti riferimenti letterari che il lettore più o meno esperto è in grado di cogliere, in filigrana, tra le righe del testo.
È evidente il richiamo al grande romanzo Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco: gli elementi della biblioteca e dell’abbazia, che tanto peso ebbero nell’opera dello scrittore piemontese, ritornano nel lavoro della Sancineti e costituiscono i luoghi privilegiati per celare un secolare mistero, ma si ammantano di ulteriore fascino grazie al tema della magia.
Palesi sono anche i rimandi alla scrittura di Valerio Massimo Manfredi, con cui la Sancineti condivide il senso dell’avventura, dell’enigma e della ricerca di arcane verità.
Inoltre, aleggiano tra le pagine elementi della tradizione letteraria classica: l’episodio in cui Layamon riconosce padre Innocenzo dal fatto che il vecchio religioso si ricordi di una sua antica cicatrice non può non richiamare il passo omerico in cui l’anziana nutrice Euriclea individua Ulisse, ritornato ad Itaca sotto le mentite spoglie di un mendicante, da una lacerazione provocatagli anni addietro da un cinghiale.
In ultima analisi, Il cammino degli eletti - Decimus si presenta come un romanzo affascinante e delicato allo stesso tempo, in cui i vari temi si mescolano con armonia, consentendo al lettore di seguire senza fatica i percorsi narrativi e di apprezzare splendidi quadretti paesaggistici o delicati cammei sentimentali e permettendo di evadere mentalmente attraverso gli scenari fantastici che solo la magia è in grado di assicurare.
Spezzano Albanese (Spixana), 14/VII/2019



"LA RIVOLTA DELLE PULCI": IL ROMANZO, LA REALTÀ E L'OSSIMORO

di
Mario Gaudio


“Castigat, ridendo, mores” recita un antichissimo adagio latino che, a ben vedere, condensa egregiamente il significato de La rivolta delle pulci.
La fluidità delle categorie letterarie ci consente di etichettare questo scritto come un romanzo breve o, in alternativa, sotto la dicitura di racconto lungo ma, a prescindere dalla scelta formale – questione sicuramente interessante per gli addetti ai lavori, ma tediosa per il lettore comune –, il testo di Damiano Guagliardi manifesta un’armonica mistione di freschezza, cronaca, finzione e ironia.
La vicenda verte attorno all’inaugurazione della nuova sede del Consiglio Regionale della Calabria, nel territorio di Maida di Catanzaro, e si caratterizza per la presenza di personaggi variegati e complessi. Essi, fissati sulla pagina, ma vivi e palpitanti nell’azione, abbracciano curiosamente – con tratti quasi pirandelliani − una vasta fetta dei vizi e delle virtù umane, di cui è opportuno fare cenno: l’anziano e accorto consigliere Carmine Loricchio – protagonista del racconto/romanzo – incarna il prototipo del politico d’esperienza, in grado di muoversi con saggezza tra le mille insidie della vita amministrativa e di nutrire cautele e dubbi lì dove gli altri intravedono solo certezze (palese è la sua fondata preoccupazione circa la protesta dei lavoratori precari che si concretizzerà in quella pomposa circostanza); vanesio, femmineo, verboso e mellifluo è, invece, il capogabinetto Ignazio Sculli, figura comica e drammatica ad un tempo, essere intermedio tra il pavido don Abbondio di manzoniana memoria, il depravato efebo Gitone del Satyricon petroniano e il freddo e distaccato burocrate; il Presidente del Consiglio regionale Armando Pesce si configura come politico appariscente, a tratti anche dinamico, ma alle prese con la sua traballante dentiera e i curiosi muggiti legati all’eccitazione e al nervosismo; alticcio, comico e anticonvenzionale è Beppe Praticò, amico di Loricchio; figura diafana, ma gerarchicamente imponente è quella di Ermenegildo Pancrazio, Presidente della regione.
A questi, l’autore accosta una serie di avvenenti presenze femminili (la giornalista Lidia Malagrinò e le consigliere Paola Minisci e Demetrina Barillà) e il particolare personaggio di Mimmo Licordari che, sebbene assente fisicamente, aleggia di continuo − tanto nel racconto quanto nelle preoccupazioni dei politici regionali − in qualità di bizzarro leader del movimento di protesta dei precari.
Al netto delle dinamiche narrative, il testo di Guagliardi mostra addirittura tratti curiosamente “profetici”: il romanzo è stato pubblicato nel 2010 e già si accenna alla caduta di Silvio Berlusconi (che si concretizzerà nel novembre 2011), così come si imbastisce l’intera trama sull’inaugurazione – descritta in maniera particolareggiata – della nuova Cittadella regionale calabrese che, a rigor di cronaca, avverrà soltanto nel 2016. Lungi dall’attribuire queste anticipazioni storiche al caso o a qualsivoglia ispirazione divina, possiamo agevolmente giustificarle evidenziando la grande capacità di analisi e previsione maturata dall’autore durante la sua pluriennale esperienza politico-amministrativa.
Tuttavia, La rivolta delle pulci non è uno scritto asettico o un prodotto letterario condizionato negativamente dai protocolli e dalle austere liturgie di palazzo; al contrario, emergono sprazzi interessanti legati alla natura, all’erotismo e alla comicità, tre aspetti che meritano qualche approfondimento.
La rivolta delle pulci
di Damiano Guagliardi
Il paesaggio calabrese, gradevole e inconfondibile, appare tra «le acque scintillanti del fiume dei briganti» (il Savuto) riscaldate dal sole mattutino e nei centenari tronchi degli ulivi che contornano il parco della Cittadella regionale. Si tratta di una natura forte, antica, testarda e viva come l’anima delle popolazioni calabresi, colorata e ridente, quasi una sorta di contraltare al grigiore delle stanze del potere.
La componente erotica si materializza in donne seducenti e in dialoghi – reali o confinati alla dimensione dello sguardo – ammiccanti e carichi di passione, cui non si sottrae neppure l’ormai saggio settantenne Loricchio, perennemente accompagnato da borsalino e bastone.
Non bisogna tralasciare la vis comica di alcune pagine che giocano sugli effetti di fraintendimenti boccacceschi – si veda in proposito l’esilarante equivoco tra il cardinale Martirano e la bella Demetrina – o sugli sproloqui legati alla sbornia (spassose sono le declamazioni pseudopoetiche di Beppe Praticò).
La narrazione di Guagliardi ci offre, se sottoposta ad una lettura attenta, altri elementi degni di nota.
In primis, affiora una impalcatura circolare delle vicende: tutto inizia sulla strada, in viaggio, e si conclude esattamente allo stesso modo; in secundis, è da notare la struttura multilivello degli eventi, con una inaspettata quanto interessante confusione tra il piano della realtà e quello onirico, cosa che ricorda, molto da vicino, la narrazione del grande Jorge Luis Borges e del già citato Luigi Pirandello; in terzo luogo, campeggia l’istanza sociale che trova piena attuazione nella singolare forma di protesta conclusasi con la fastidiosa invasione delle pulci.
Sull’intero racconto si libra costantemente un’atmosfera di attesa: si aspetta un’azione dimostrativa da parte dei precari, si freme per l’arrivo delle alte cariche politiche per la cerimonia di inaugurazione, ci si prepara lentamente a quello che sarà il finale paradossale che investirà inaspettatamente il lettore.
Non è da tralasciare anche una finezza strutturale che connota l’opera di Guagliardi. Essa rispetta alla perfezione le tre antiche unità aristoteliche (di luogo, tempo e azione) che, sebbene elaborate per la tragedia, rendono ordinata e fluente anche la trama del romanzo in questione.
Infine, al di là di ogni finzione, fuoriesce con potenza quella che è la vera necessità dello scritto, ovvero l’esigenza storica di uniformare la sede del Consiglio e della Giunta regionale allo scopo di rendere più produttivo ed efficiente l’andamento istituzionale della nostra amata Calabria.
Damiano Guagliardi compare nel romanzo in duplice veste: quella del politico – attraverso alcuni tratti infusi al suo protagonista Carmine Loricchio – e quella dello scrittore, la cui indole, appassionata di letteratura, si cela in maniera quasi evanescente nello sfuggente nome del romanziere Jan Gramishi, il quale si materializza in una modalità apparentemente marginale − come i volti dei grandi pittori cinquecenteschi celati tra la folla dei personaggi di una loro tela − ma fondamentalmente essenziale.
Insomma, irriverente, istituzionale ma anche anticonformista (Loricchio e Praticò sono gli unici personaggi a non indossare il gessato all’interno del romanzo), visionario e realista ad un tempo, in una parola: ossimorico. Questo è il giudizio che vien fuori dalle pagine de La rivolta delle pulci, uno scritto interessante e, senza alcun dubbio, degno di essere letto.
Spixana (Spezzano Albanese), 5/VI/2019

DROGA E DISILLUSIONE RACCONTATE DA CHRISTIANE F.


di 
Mario Gaudio

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino è un romanzo scomodo, inquietante sotto molti aspetti, ma capace, a distanza di anni, di far interrogare e riflettere il lettore che vi si accosta senza pregiudizio e con adeguato spirito critico.
Il libro nasce da un colloquio con Christiane Vera Felscherinow, la protagonista delle vicende, la quale racconta realisticamente la sua triste storia a due importanti giornalisti − Kai Hermann e Horst Rieck – che, ben presto, smetteranno i panni degli intervistatori per vestire quelli, stretti ma necessari, degli ascoltatori.
Le pagine scorrono con una certa rapidità, ma la bruttura e il degrado di cui è intrisa l’esistenza di una tossicomane appena adolescente inducono a lunghe e sofferte pause di riflessione.
Il tema centrale è ovviamente quello della droga, approdo velenoso e illusorio di un’esistenza sventurata che inizia per la giovane Christiane con l’incomprensione familiare e il disagio di un trasferimento. Nella Berlino ovest di fine anni Settanta, la protagonista si ritrova a vivere gli ultimi sprazzi d’infanzia tra i casermoni del quartiere popolare di Gropiusstadt e a subire le angherie di un padre prima violento e poi totalmente indifferente e anaffettivo, tipico esempio di fallimento di una figura genitoriale incapace di instaurare un dialogo costruttivo e rinchiusa in un mutismo orgoglioso e deleterio.
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino
di Christiane F.
Dinanzi a questa squallida situazione quotidiana, Christiane, benché tredicenne, non trova il coraggio e l’occasione di sfogare la sua rabbia e rimane coinvolta in un circolo vizioso di amicizie che la condurranno gradualmente alla degenerazione totale attraverso l’uso di sostanze stupefacenti.
Ovviamente, una volta imboccato il mortifero tunnel dell’eroina, la giovane è costretta a confrontarsi con un mondo − parallelo a quello borghese − fatto di spaccio, furto e prostituzione con la costante ansia di sfuggire alle retate della polizia e l’onnipresente pericolo dell’overdose.
Soltanto dopo numerosi e vani tentativi di disintossicazione, falliti a causa di un ambiente sociale poco comprensivo e di una scarsa conoscenza del problema della tossicodipendenza, Christiane riuscirà, grazie alla caparbietà di sua madre, ad allontanarsi dal mondo della droga e da una Berlino − divisa e imbruttita − capace di riempire il vuoto delle coscienze soltanto attraverso gli illusori paradisi artificiali dello sballo.
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino narra vicende di vite mancate e di esistenze stroncate negli aberranti cessi della metropolitana da iniezioni fatali considerate l’unico antidoto contro i mostri di una realtà divenuta troppo opprimente. Un libro dunque datato, ma estremamente attuale, capace di dare un impulso nuovo alle coscienze ormai assuefatte davanti al problema della droga non più considerata come distruttiva via di fuga per giovani insoddisfatti ma diventata, nel contesto della nostra società tecnocratica e globalizzata, vizio più o meno noto di calciatori strapagati, vip e rampolli di storiche famiglie italiane.
12/08/2017

SHOKU SINDK: L'APPASSIONANTE VICENDA DI UN SINDACO CONTADINO


di
Mario Gaudio

Shoku Sindk (Il compagno sindaco) nasce, nell’intento dello scrittore Damiano Guagliardi, come libro-intervista sulla figura di Damiano Bua, classe 1930, sindaco di San Cosmo Albanese (Strigari) dal 1971 al 1988 ed esponente di spicco della vita politica e delle lotte sociali del piccolo borgo arbëresh nel secondo dopoguerra.
Tuttavia, come accade spesso nell’alchemico fluire della parola letteraria, l’opera trascende l’idea originaria dell’autore per imboccare nuove strade interpretative, le quali si trasmutano in piacevole sorpresa per il lettore e diventano – al contempo − croce e delizia per il critico.
In virtù di questo processo, l’apparentemente semplice testo redatto da Guagliardi oltrepassa il livello dell’amabile conversazione assumendo, di volta in volta, le sembianze del volume storico, del saggio sociologico e del pamphlet politico. 
La natura camaleontica del libro non comporta comunque alcun appesantimento della lettura: ne sortisce piuttosto un effetto contrario che meglio focalizza la figura di questo sindaco-contadino ed evidenzia l’incisività delle sue scelte amministrative.
Al centro della narrazione c’è il piccolo abitato arbëresh di San Cosmo Albanese, località a vocazione agraria, ma priva di sviluppo per diversi decenni a causa della piaga del latifondo.
Shoku Sindk
di Damiano Guagliardi
In un simile contesto di estrema difficoltà economica, si inserisce l’operato di Damiano Bua, la cui tempra umana e politica si forma, con costanza e sana testardaggine, in mezzo alle asperità di vita presenti in queste contrade.
Sebbene abbia frequentato soltanto le scuole elementari – a causa della guerra che l’Italia si ritrovò a combattere in seguito alle scellerate ambizioni mussoliniane –, Bua ha approfondito da autodidatta i suoi semplici studi e, spinto da inappagabile curiosità, ha costruito la propria formazione leggendo con bramosia i romanzi dell’epoca mentre ritornava, a dorso d’asino, dai campi e dalle estenuanti giornate di lavoro agricolo, esempio edificante – senza intento polemico – per numerosi studenti ipertecnologizzati dei nostri giorni, incapaci di godere appieno degli enormi benefici dell’istruzione scolastica.
Questa tenacia caratteriale è stata poi incanalata nell’attività politica e sindacale attraverso l’impegno presso la Camera del Lavoro e l’appassionata militanza nel Pci.
Le pagine di Shoku Sindk mostrano con chiarezza una forma di politica ormai scomparsa, ignara dei sondaggi e lontana dai grafici e dalle statistiche, ma vicina ai bisogni concreti della gente e di una comunità che, a conti fatti, ha usufruito delle brillanti intuizioni di Damiano Bua. A tal proposito, basta citare, a mo’ di esempio, quel compromesso storico ante litteram – ricordiamo, per inciso, che tale processo politico si verificò, a livello nazionale, solo a partire dagli anni Settanta – che riunì, in occasione delle elezioni municipali del 1962, i comunisti e i democristiani più progressisti di San Cosmo Albanese sotto il comune simbolo civico del Campanile.
Il libro-intervista di Guagliardi diventa occasione per presentare una galleria di personaggi che, con le loro microstorie, hanno contribuito a lasciare una traccia nella macrostoria meridionale. Compaiono, nello scritto dell’autore e nelle parole dell’intervistato, figure come quelle del poeta Zef Serembe, del politico Terenzio Tocci, del cantautore Cosmo Rocco e della pasionaria Adelina Visciglia che, negli anni Sessanta, capeggiò la protesta delle raccoglitrici di olive al fine di ottenere una remunerazione più equa dai proprietari terrieri.
Damiano Bua, sindaco di San Cosmo
Albanese dal 1971 al 1988
Un velo di tristezza affiora dalla lettura della vicenda di Cosmo Azzinari che, eletto sindaco durante la tornata elettorale del 1962, subito dopo aver prestato giuramento presso la Prefettura di Cosenza, trovò la morte in un tragico incidente automobilistico sulla strada di Apollinara.
Non mancano i resoconti delle esperienze culturali, politiche e umanitarie che videro impegnato Damiano Bua in Albania e un’ampia parentesi in cui sfilano gli illustri personaggi da lui ospitati a San Cosmo Albanese nel corso degli anni.
Una nota a parte, carica di tenerezza, merita l’inseparabile moglie di Bua, Maria Giuseppa Elmo (Marxhuzepa), recentemente scomparsa, che, stando alla narrazione, ha rappresentato per l’anziano sindaco-contadino il fidato e discreto sostegno nelle più disparate occasioni.
In ultima analisi, Shoku Sindk sintetizza accuratamente la vita di un uomo politico incardinato profondamente nella realtà di un piccolo centro arbëresh che diviene, con le sue problematiche, l’emblema stesso di una regione bella e sventurata come quella calabrese.
Al suo autore, Damiano Guagliardi, va il merito di aver raccontato una storia d’altri tempi con punte di marcato realismo pasoliniano e un linguaggio gradevole alla lettura e significativo nelle immagini.
Spezzano Albanese (Spixana), 17/IX/2019

MARX - MARXISMO: BREVE RILETTURA POLITICO-FILOSOFICA


di
Mario Gaudio

Marx – Marxismo è il personale tributo di Aldo Pugliese in occasione del bicentenario della nascita del filosofo tedesco Karl Marx (1818-1883).
Si tratta, in realtà, della ristampa di un volumetto pubblicato, in prima edizione, a Napoli nel 1977, con il titolo di Alienazione e riscatto dell’uomo nel pensiero del giovane Marx.
Al di là della ricorrenza storica, la riproposizione dello scritto si colloca in un processo necessario di rilettura e reinterpretazione del pensiero marxista, alla luce delle attuali problematiche socio-politiche e dei molteplici fraintendimenti a cui tale dottrina è andata incontro nel corso degli anni.
Il nucleo centrale del libro è, paradossalmente, contenuto nell’introduzione, lì dove lo stesso Pugliese, per dissolvere definitivamente le ambiguità esegetiche – a nostro avviso non sempre frutto di sana onestà intellettuale –, precisa, con chiarezza e vigore, che la prospettiva marxista era stata concepita come indissolubilmente legata ai Paesi a “capitalismo avanzato” (Inghilterra e Stati Uniti) in quanto realtà in cui la classe operaia avrebbe trovato le condizioni utili per costruire una identità strutturata e acquisire consapevolezza del proprio ruolo nel processo produttivo.
Marx - Marxismo
di Aldo Pugliese
Ne consegue, a rigor di logica, che gli esperimenti socialisti della Russia della servitù della gleba e dei restanti Paesi oltrecortina furono, indiscutibilmente, fallimentari.
Precisato questo dato storico essenziale, Pugliese procede ad una accurata disamina delle premesse teoriche e delle condizioni storiche del marxismo. Si analizzano le disumane condizioni di vita del proletariato industriale, i primi tentativi di lotta per il miglioramento delle situazioni lavorative e salariali e, infine, l’influenza delle teorie di Marx che, a conti fatti, furono capaci di incanalare la spontanea irrequietezza del movimento operaio per condurlo a forme di rivendicazione organizzata e finalizzata, con determinazione, alla distruzione dell’asservimento capitalistico.
Molto interessanti sono anche le pagine in cui Pugliese descrive il rapporto tra il filosofo tedesco e le teorie di Feuerbach, che costituirono un punto di partenza imprescindibile per il progressivo passaggio dall’idealismo al materialismo storico e dialettico.
Non mancano riflessioni sulla costituzione della cosiddetta “estetica marxista”, con attente precisazioni sul ruolo dell’arte, considerata come sovrastruttura in rapporto dialettico – e non meccanico – con la base economica che, nel pensiero del filosofo di Treviri, rappresentava il principio direttivo in grado di determinare lo sviluppo sociale.
Il libro di Pugliese si conclude con un ricordo di Giovanni Rinaldi (1883-1960), protagonista di primissimo piano del socialismo e della politica calabrese, nonché mentore dell’autore.
In ultima analisi, con la scorrevolezza dello stile e la concretezza delle argomentazioni, Marx – Marxismo si offre ai lettori come strumento essenziale per comprendere gli elementi fondamentali che continuano ad ispirare una determinata visione politica operante in un contesto sempre più difficile in cui – molto spesso e a detrimento di tutti – la rivendicazione è divenuta rissa e la dialettica si è trasformata in vuota logomachia.
Spezzano Albanese (Spixana), 29/IX/2019

giovedì 4 giugno 2020

IL PATRIMONIO ARTISTICO DI TREBISACCE NEL LIBRO DI LUDOVICO NOIA


di 
Mario Gaudio

Trebisacce. Studi sul patrimonio artistico (secoli XV – XVIII) è la prima pubblicazione del giovane e valente storico dell’arte Ludovico Noia, emblema di chi, attraverso lo studio e la valorizzazione dei legami con la propria terra e le tradizioni, non si arrende e, a differenza di coloro che propongono soluzioni sbrigative ‒ quali il lasciar deperire antichi affreschi sotto le infiltrazioni dell’umidità e la mannaia del disinteresse (come nel caso della chiesa matrice di Spezzano Albanese) o il ricoprirli di un umiliante strato di vernice bianca (come è accaduto ai dipinti della storica chiesa dei cappuccini del comune abruzzese di Montorio) ‒,  indaga il passato per continuare a dar voce ad antiche opere capaci di trasmettere, oggi più che mai, attualissimi insegnamenti.
Trebisacce. 
Studi sul patrimonio artistico 
(secoli XV-XVIII) di Ludovico Noia
Noia, a partire da contributi precedenti di appassionati studiosi (Ezio Aletti, padre Francesco Russo, Piero De Vita, i fratelli Leonardo e Luigi Odoguardi) e sulla scia degli scritti e delle ipotesi di Giorgio Leone, si abbandona ad un’attenta analisi delle opere scultoree custodite nell’antica chiesa madre di Trebisacce che, scorrendo le pagine di questo libro, appare simile ad uno scrigno in grado di racchiudere  una consistente parte delle bellezze artistiche della cittadina dell’Alto Jonio.
L’autore, scrupoloso nell’utilizzo delle fonti e appassionato di ricerca d’archivio, ricostruisce innanzitutto l’annosa questione relativa alla datazione dell’edificio sacro, legata alla diversa e, spesso maldestra, interpretazione di un’iscrizione - rinvenuta sul campanile - che ha fatto oscillare la data di fondazione all’interno di un ventaglio di possibilità comprese tra il 1004 e il 1544.
In seguito, Noia procede ad una attenta disamina delle sculture presenti nella chiesa di san Nicola di Mira proponendo e argomentando, documenti alla mano, attribuzioni e datazioni, soffermandosi in particolar modo sull’operato della bottega dei Cerchiaro (intagliatori e scultori dell’area del Pollino attivi dalla seconda metà del XVII secolo agli albori del XIX) e di Agostino Pierri (artista di Lagonegro). A ciò si aggiunge l’analisi di opere sostanzialmente inedite per la critica: una coppia di mostre di stipiti di porta del XVIII secolo, un confessionale e una serie di elementi decorativi floreali riemersi dopo i lavori conservativi del 2003.
Crocifisso rinvenuto nel 1994
 durante i lavori di restauro della
chiesa matrice
di Trebisacce
(prima metà del XV secolo) 
Non manca un interessante accenno alle vicende di restauro che hanno riguardato l’edificio ecclesiastico nel 1994, episodio importante dal punto di vista storico-artistico, dal momento che sono state rinvenute ventotto fosse tombali con resti umani, la scultura rappresentante Sant’Antonio abate, il simulacro di un santo monaco, il manichino della Madonna Addolorata e, soprattutto, un pregevole Cristo che, adeguatamente ripulito e sistemato, campeggia oggi trionfante sul muro dell’abside.
Noia sposta poi l’attenzione sulla pittura, esaminando una tela raffigurante la Santissima Trinità realizzata da Francesco Antonio Algaria, pittore cassanese poco conosciuto, autore di opere sparse in diverse realtà della diocesi di Cassano allo Ionio e di un pregevole dipinto rappresentante la Trinità con i santi Pietro e Paolo (firmato e datato 1769 ma, stranamente, non schedato dalla Soprintendenza della Calabria) custodito, dietro il coro ligneo, sulla parete absidale della chiesa matrice di Spezzano Albanese.
Trebisacce. Studi sul patrimonio artistico (secoli XV – XVIII) si presenta dunque come un testo di pregevole fattura, corredato da un imponente apparato iconografico e contenente interessanti spunti di ricerca; il tutto offerto in un linguaggio semplice e concreto, con i tecnicismi del caso, ma scevro di pedanteria.
Chiesa matrice di
san Nicola di Mira
(Trebisacce - centro storico)
Insomma, siamo dinanzi ad un libro che merita di essere letto, risultato di impegno e passione di uno storico dell’arte che, come auspicato, è riuscito a raggiungere quell’equilibrio tra emozioni e obiettività scientifica, sopravvivendo allo sterile campanilismo e al querulo sentimentalismo di tanta pseudocultura della nostra martoriata terra calabrese.

"IL GRANDE GATSBY": UN ROMANZO DELL'ETÀ DEL JAZZ

di
Mario Gaudio

Long Island, 1922. Il giovane e rampante Jay Gatsby allieta centinaia di persone con sontuose feste capaci di attirare nel suo giardino una variegata umanità amante della vita e dei più stravaganti divertimenti. Lo stesso padrone di casa − elegante, ricco e misterioso − sembra godere di queste atmosfere che si consumano tra luminarie, note di jazz e il fruscio degli appariscenti abiti femminili. C’è, tuttavia, una ruga che offusca impercettibilmente la fronte serena del giovane milionario e ne condiziona l’esistenza. Si tratta di un antico e mai sopito amore conclusosi, cinque anni prima, a causa della sua non florida situazione economica.
Una volta ascesa con rapidità la scala sociale e conquistato un ragguardevole tenore di vita, il protagonista prova a far rivivere la passione per Daisy che, nel frattempo, si è congiunta in matrimonio con l’arrogante Tom Buchanan. Il tutto è favorito da Nick Carraway, unico amico di Gatsby e cugino della sua innamorata.
Nonostante ciò, il destino è in agguato e un incidente stradale, causato dalla donna, provoca la morte di Myrtle (amante di Tom) e innesca la vendetta del marito della defunta che culminerà con l’omicidio di Gatsby.
Insomma, Fitzgerald ci propone la più classica delle vicende umane, con l’utilizzo del sicuro binomio amore/morte, ma lo fa attribuendo al protagonista le caratteristiche di un’intera epoca storica.
Il grande Gatsby 
di Francis Scott Fitzgerald
Gatsby è, senza dubbio, il simbolo perfetto dei “ruggenti anni Venti”, figlio di giorni spensierati, resi tali dai soldi facili, dal progresso e dalla spericolata speculazione finanziaria.
L’autore americano mette in scena uno stile di vita destinato, ben presto, ad essere spazzato via da un brusco ritorno alla realtà: ricordiamo, per inciso, che Il grande Gatsby fu pubblicato nel 1925, esattamente quattro anni prima del tracollo economico noto come “crisi del ‘29” che pose fine alla superficialità della cosiddetta “età del jazz”.
A rendere ancora più dolorosi gli avvenimenti contribuisce la solitudine di Gatsby che, amato anfitrione da vivo, diviene scomoda amicizia da morto, al punto che i suoi funerali sono disertati dalla massa chiassosa e godereccia degli antichi ospiti.
Nonostante ciò, il giovane protagonista del romanzo emana un indiscutibile fascino da attribuire, senza esitazione, alla caparbietà con cui persegue il suo sogno. Sebbene spiantato e privo di mestiere, continua a coltivare la segreta passione amorosa al punto che, messosi in affari con il losco ebreo Meyer Wolfsheim, costruisce una personale fortuna basata sul contrabbando di alcol in piena età proibizionista.
Insomma, al di là degli innegabili meriti narrativi di Fitzgerald e del successo delle molteplici trasposizioni cinematografiche, Il grande Gatsby ammalia le nostre coscienze di lettori che, dinanzi alla determinazione di un tale personaggio e alla forza del sentimento, mostriamo sicura clemenza verso i suoi non proprio leciti guadagni.
In fondo, ognuno di noi è un piccolo Gatsby, sicuramente con meno dollari in tasca, ma con la consapevolezza che, durante le nostre giornate, «remiamo […] risospinti senza sosta nel passato» pur inseguendo chimere e sogni di futuro.