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lunedì 20 dicembre 2021

I BAMBINI INVECCHIATI DI DON LISANDER

 di

Mario Gaudio

Nonostante il ministro Cingolani ‒ degno erede, su questo tema, del famigerato collega Poletti ‒ dia lustro al suo dicastero abbandonandosi a sproloqui che demoliscono imprudentemente la già fragile cultura umanistica nazionale e benché in gran parte degli atenei italiani ‒ salvo rare e valide eccezioni ‒ si presti il fianco a tali critiche, riducendo lo studio della letteratura a sequela di futili e pedanti questioni filologiche, noi, disinteressandoci altamente delle situazioni poc’anzi elencate, abbiam deciso di scrivere una noterella sul Manzoni che, senza pretesa alcuna, si propone di far focalizzare l’attenzione del benevolo lettore su personaggi e casi rimasti lontani, o comunque marginalizzati, dagli studi principali e imprescindibili sull’esegesi dei Promessi sposi.

La critica militante ‒ oggi sempre più latitante dal dibattito culturale del Paese e trasformata, molto spesso e semplicisticamente, in dotta discussione tra soggetti interessati e disillusi ‒ ha giustamente concentrato i suoi forzi sui vari Renzo, Lucia, don Rodrigo, don Abbondio e fra’ Cristoforo, estromettendo da un’analisi completa e complessa quella parte di folla o popolo ‒ scegliete voi il termine che più v’aggrada, secondando il vostro concetto di “politicamente corretto” ‒ identificabile con la gioventù.

Tanti sono i bambini, gli adolescenti e i giovani che vivono, soffrono e muoiono nel capolavoro manzoniano, assimilando nelle proprie esistenze le stravaganze del destino e gli oscuri e contorti sentieri della Storia e rientrando, pertanto, in quel vasto, provvidenziale e imperscrutabile disegno divino che l’autore fa brillantemente apparire, in filigrana, dietro le vicende narrate. 

Lì dove non esiste un diritto all’infanzia ‒ siamo nella Lombardia spagnola del Seicento ‒, la sopravvivenza dell’individuo è legata alla crescita forzata e subitanea e, di conseguenza, alla compartecipazione ai sacrifici e alle privazioni degli adulti di un contado povero e analfabeta, costantemente angariato da prepotenti tirannelli di provincia e falcidiato dalla fame e dalla malattia.

Già nel quarto capitolo, Manzoni inquadra lo spettacolo pietoso che si para davanti agli occhi di un mattiniero fra’ Cristoforo e che fa da triste contrappunto alla dolcezza del paesaggio autunnale inondato da splendidi colori. Sebbene non si parli ancora di carestia, appaiono qua e là gli indizi di un raccolto scarso che innesca una ancestrale volontà di sopravvivenza e la conseguente istintiva competizione tra i singoli e tra le specie: «La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere»[1].

Poco oltre, la scena si ripete, ma in un ambiente prettamente domestico che rende ancor più drammatica la lotta ‒ tacita o effettiva, simbolica o reale ‒ finalizzata a riempire lo stomaco. Siamo in casa di Tonio, giovane contadino scelto da Renzo come testimone per il suo tentativo di matrimonio a sorpresa. Il Manzoni coglie la miseria del contesto nella magra polenta «bigia, di gran saraceno» ‒ e pertanto di scarso valore nutritivo ‒ che vien cotta nel paiolo e, in misura più significativa, nello sguardo quasi famelico con cui i bimbi attendono il sospirato pasto.[2] Ma, l’azione determinante, capace di far comprendere l’astuzia che la fame induce a sviluppare pur nell’età dell’innocenza, si svolge nel momento in cui il capofamiglia è invitato dal promesso sposo a sbocconcellar qualcosa all’osteria. L’inaspettata assenza del commensale acuisce il senso di competizione di cui si accennava in precedenza e l’autore, con fare bonario, rileva come «[…] le donne, e anche i bambini (giacché, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente e il più formidabile».[3]

L’infanzia manzoniana è impaludata in una società violenta che, inevitabilmente, imprime le proprie stimmate nella fisionomia stessa dei soggetti. È il caso dei figli dei coloni che custodiscono e lavorano le terre adiacenti al palazzotto di don Rodrigo. Nel villaggio abitato da «omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella» e «donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute» non mancano neppure strani bambini, il cui aspetto inquieta e interroga, dal momento che, pur nella banalità del gioco di strada, nelle loro mosse si intravede «un non so che di petulante e di provocativo».[4]

Nel capitolo settimo, compare un’altra rappresentanza della prole contadina che mostra tratti sicuramente più gentili, ma che vive comunque nelle medesime condizioni di stenti e rinunce. Manzoni pone davanti ai nostri occhi una nidiata di bambini per i quali il tempo dello svago e dei giochi è sostituito da quello del lavoro agricolo. Sul far del tramonto, con malinconiche movenze impresse su tela da diversi artisti ottocenteschi, intere famiglie rientrano al villaggio e, allo scoccar del vespro, nonostante la fatica, non si tralascia la recita di antiche e salutari orazioni: «Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle».[5]

Da quanto detto, occorre trarre tuttavia una doverosa precisazione: sarebbe ingenuo credere che le gioie della fanciullezza vengano annichilite soltanto dalle dure necessità di vita della società rurale. Anche i rampolli delle case altolocate sono condannati a non godere, in tutto o in parte, i frutti dell’innocenza: la vicenda della piccola Gertrude ‒ la futura monaca di Monza ‒ ne è lampante esempio. Figlia cadetta di nobilissima famiglia, il suo destino claustrale è già stato tracciato prima di venire al mondo («La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita»[6]) e fin dai primissimi mesi ‒ seppur ancora lontana dall’età del giudizio ‒ le si impongono attenzioni, gesti e parole che richiamano palesemente il chiostro e la vita religiosa: «Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache»;[7] e ancora: «Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: “che madre badessa!”».[8]

Tale coercizione fa di Gertrude una vittima e costituisce, al cospetto del tribunale della critica, una minima attenuante utile a comprendere ‒ non certamente a giustificare ‒ la genesi degli scellerati delitti di cui si macchierà in età adulta.

L’infanzia violata dagli uomini e dagli eventi diventa occasione per praticare la carità, cardine del cristianesimo manzoniano, soccorso insperato per i poveri e strumento di manifestazione della Provvidenza nel tempo e nella Storia. È fondamentale citare, a tal proposito, due scene di dolore che si stagliano nitide tra i capitoli del romanzo: la prima si concentra sulle madri che «[…] alzavano e facevan vedere da lontano i bambini piangenti, mal rivoltati nelle fasce cenciose e ripiegati per languore nelle loro mani»[9] ai bordi delle strade milanesi rese spettrali dalla paura e dalla pestilenza; la seconda costituisce quasi una sorta di commovente quadro plastico che da un lato induce Renzo, da poco arrivato in terra bergamasca, a dare in elemosina gli ultimi spiccioli rimasti in tasca, dall’altro ispira all’autore un frammento di rara bellezza narrativa che non guasta rammentare: «Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l’una e l’altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d’un’antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt’e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l’aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?».[10]

Tuttavia, se l’inedia aggiunge mali su mali alla già travagliata fanciullezza, la peste le darà il colpo di grazia, facendo indiscriminata strage di creature inermi o privandole di affetti e risorse.

La mente del lettore corre immediatamente alla sublime pagina manzoniana in cui si racconta la triste vicenda di Cecilia, giovinetta di circa nove anni uccisa dal terribile morbo, il cui corpicino vestito con l’abito della festa è deposto dall’afflitta madre ‒ a sua volta appestata ‒ sul carro dei monatti con un misto di premura e tenerezza che non può non richiamare il medesimo sentimento fissato eternamente nel marmo da Michelangelo nella sua maestosa Pietà. Ma, ancor più dolorose son le marce forzate che conducono i fanciulli malati verso il lazzaretto e che prefigurano, quasi profeticamente, altre tragiche sfilate di esseri umani condotti a ben più ignobili ghetti dal torpore della ragione verificatosi in pieno Novecento. 

Manzoni descrive con cura questi episodi, costruendoli con la freschezza di un dipinto che tuttora indigna o interroga, ma non lascia in alcun modo indifferenti: «Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de’ monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co’ bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d’aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s’era buttata, sorpresa tutt’a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per essere portata sur un carro al lazzaretto, o alla fossa, se il carro veniva più tardi».[11]

In questo clima di caos, malattia e follia generalizzata, per molti fanciulli la strada diventa spietatamente tomba («Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste»)[12], ma per altri ‒ i più fortunati, se così possiam dire, viste le circostanze ‒ si spalancano le porte della carità, solerte braccio operativo della Provvidenza, e si ravvivano vigorose fiammelle di vita ch’eran state, sino a qualche istante prima, fumiganti e prossime alla fine: «Qua e là eran sedute balie con bambini al petto; alcune in tal atto d’amore, da far nascere dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo dalla paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de’ bisogni e de’ dolori».[13]

Si evince con chiarezza che per il Manzoni la gioventù diventa strumento privilegiato per far leva sulla compassione e sugli affettuosi sentimenti del lettore, ma anche e soprattutto luogo deputato all’azione di forze divine che, servendosi del buon cuore umano, agiscono nella Storia per tutelare i germogli della società e garantirne, in un certo qual modo, la futura esistenza.

È evidente, inoltre, che l’autore faccia uso di personaggi adolescenti per dare una svolta alla narrazione, investendoli del ruolo di messaggeri di notizie essenziali: è il caso di Bettina, a cui Renzo affida il compito di avvisar Lucia dopo il tumultuoso colloquio con don Abbondio, e di Menico, «ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte», che, inviato al convento di Pescarenico per ricevere informazioni da padre Cristoforo, sfugge casualmente dalle mani dei bravi di don Rodrigo e intima ai promessi sposi di non far ritorno a casa dopo la “notte degli imbrogli” per non incappare nella squadraccia di malfattori capeggiata dal temibile Griso.

La giovinezza ispira anche ad un saggio vegliardo del calibro del Manzoni l’occasione per incappare in un veniale abbandono alla vanità, dacché, nel capitolo XI, lo scrittore milanese non resiste alla tentazione di inserire una breve descrizione del suo amatissimo figlio Enrico: «Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po' impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi […]».[14]

Tirando le fila del discorso, possiam dire che gli esempi elencati dimostrano con precisione che il vecchio don Lisander Manzoni ha costruito l’architettura del suo romanzo attingendo ampiamente alla categoria paradossale e ossimorica del puer senex: il bambino manzoniano, pur giovane anagraficamente, sperimenta le vicissitudini dell’esperienza precoce e fuori tempo, inizia a confrontarsi ben presto con le angosce, i dolori e le improvvisazioni dell’esistenza.

Tutto ciò potrebbe indurci erroneamente a pensare che si tratti di espedienti e situazioni ormai lontane e prive di riflesso sulla nostra contraddittoria società in cui è di moda il puer aeternus con il suo carico di superficialità, ma il buon senso ci risveglia e indirizza la nostra attenzione sulla retta via interpretativa che, lontana tanto dalle affermazioni culturalmente asfittiche d’un Cingolani quanto dal «sibaritismo intellettuale» di certi ambienti accademici autoreferenziali, ci consente di recuperare quel senso di profonda umanità che il Manzoni ha inteso trasmetterci attraverso i suoi innocenti personaggi.

Spezzano Albanese (Spixana), 20/XII/2021


[1] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, a cura di Vittorio Spinazzola, Garzanti, Milano, 2004 (1966), cap. IV, p. 47.

Da questo momento, citeremo, per comodità, soltanto capitolo e pagina dell’edizione di riferimento.

[2] «[…] tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare» (cap. VI, p. 81).

[3] Cap. VI, p. 82.

[4] Cap. V, p. 62.

[5] Cap. VII, p. 98.

[6] Cap. IX, p. 126.

[7] Ibidem.

[8] Cap. IX, pp. 126-127.

[9] Cap. XXVIII, p. 391.

[10] Cap. XVII, p. 242.

[11] Cap. XXXIV, p. 482.

[12] Cap. XXXII, pp. 446-447. Ancor più efficaci le parole del Ripamonti riportate dallo stesso Manzoni al cap. XXVIII, p. 390: «Vidi io, nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna… Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso… Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa… Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno».

[13] Cap. XXXV, p. 491.

[14] Cap. XI, p. 163.