di
Mario Gaudio
Il genere del fumetto è di per sé fluido, di difficile
inquadratura, sfuggente alle osservazioni del critico al pari dell’antico dio
Proteo che, secondo tradizione, mutava inaspettatamente forma per sottrarsi a
coloro che ne ricercavano il vaticinio.
Sulla scorta di questa oggettiva difficoltà, Iannuzzi si
interroga sulla definizione della sua opera, proponendo tutta una serie di
ipotesi convincenti ma parziali, e arrivando − quasi con rassegnazione − a
condensare il senso del suo lavoro nell’immagine di «una semplice storia
d’amore a lieto fine».
Senza presuntuose aspirazioni interpretative, cercheremo di
oltrepassare questa definizione fornendo qualche chiave di lettura ulteriore,
capace di completare un quadro grafico-narrativo sicuramente complesso.
Se la sposa è un fiore d’aprile prende il nome da un verso
di un vecchio canto popolare e racchiude in sé una storia che, come tale, non
può sfuggire alle ineluttabili catene del tempo e dello spazio: la vicenda si
sviluppa, in effetti, negli anni Trenta del Novecento nel piccolo e accogliente
borgo di Spezzano Albanese, terra natia dell’autore.
I personaggi principali dei fatti narrati sono Antonio ed
Elena, rispettivamente padre e madre di Janù, ma un’analisi minuziosa fa
emergere la presenza di un altro imponente protagonista: la gjitonia (il vicinato,
per intenderci), vero cuore pulsante e possente motore di questa sequenza
narrativa.
Sebbene sia presente un forte protagonismo corale, di
matrice marcatamente popolare, la tematica centrale resta quella dell’amore tra
due figure differenti per estrazione sociale e per origine (Antonio proveniente
da una famiglia arbëreshë orgogliosamente legata alle tradizioni ed Elena, al
contrario, di rito latino e residente nella limitrofa San Lorenzo del Vallo). Tuttavia, come da consuetudine letteraria, gli
ostacoli vengono surclassati dalla sincerità delle emozioni e dalla caparbietà
dei personaggi, consentendo la celebrazione delle tanto agognate nozze.
Il matrimonio campeggia come evento centrale della narrativa
di Iannuzzi che, in tal modo, focalizza la sua attenzione su uno degli eventi
cardine della società contadina spezzanese di inizio Novecento e colma di
significato quella serie di riti, tradizioni, formule e simboli che connota
l’unione sponsale nel variegato mondo arbëresh.
Se la sposa è un fiore d'aprile di Vincenzo Iannuzzi (Janù) |
Ecco affacciarsi, dunque, tra le pagine del fumetto, lo
spirito, semplice e vigoroso allo stesso tempo, di uomini e donne legati alla
terra e alla saggezza agreste che formulano i loro canti augurali nei
confronti degli sposi auspicando raccolti abbondanti e floride vendemmie.
Con fare volutamente antistorico, Janù colloca in pieno
Novecento riti e tradizioni prettamente bizantine: gli sponsali sono celebrati
da un papàs, figura emblematica della religiosità di origine orientale, esempio
di sacerdote e marito per cui, come scriveva Nicola Misasi, «[…] la religione
non comincia […] da Dio per finire a
Dio, ma sale dalla famiglia al cielo e amalgama in un solo culto l’amore per la
creatura e l’adorazione per il creatore»; seguono il triplice scambio delle
corone di fiori sul capo degli sposi, da parte dei testimoni – segno della
grazia e dell’esigenza di comunione tra i coniugi −, la rottura augurale del
bicchiere nel quale i nubendi hanno bevuto – rituale che richiama l’episodio
evangelico del banchetto delle nozze di Cana – e, infine, il triplice giro
attorno all’altare, simbolo di “gioia ed esultanza” per la felice occasione.
Prende corpo, pertanto, nelle pagine dell’opera, quella
triade costituita da lingua arbëreshë, tradizioni e rito bizantino di cui la
nostra Spezzano è stata gradualmente menomata: in passato con la soppressione
violenta del rito greco − avvenuta definitivamente nel 1668 −, l’imposizione
del rito latino per meri motivi politico-economici e il conseguente e oggettivo
impoverimento spirituale e identitario; nel presente con la riduzione drastica,
soprattutto tra le giovani generazioni, del numero di parlanti l’antica lingua
arbëreshë.
Il potere della parola e la suggestione delle immagini
riportano in vita le ancestrali usanze di un popolo fiero e solidale. Fanno
capolino nel testo di Iannuzzi la bambola quaresimale nota con il nome di Kreshmeza,
la straordinaria bellezza delle danze popolari (le valle) e i suggestivi colori
dei costumi llambadhor, preziosi quanto vistosi abiti di gala indossati dalle
donne della nostra terra.
Tuttavia, non manca una sottile e penetrante venatura malinconica che trova espressione nel commosso accenno ai numerosi spezzanesi morti eroicamente
sui diversi fronti del primo conflitto mondiale. A ciò si aggiunge anche la
presenza del tema dell’emigrazione, particolarmente sentito dal nostro autore
che, in tenera età, è stato costretto ad abbandonare il proprio borgo natio.
La tematica migratoria pesa sulla narrazione attraverso due
figure caratterizzate da una ossimorica presenza-assenza: il padre dello sposo
− che si ammala sul piroscafo che lo sta riportando in Italia e, una volta
giunto a Spezzano, rende l’anima a Dio − e il padre di Elena, che vive per necessità
in Argentina e, a causa dell’enorme distanza, non riesce a partecipare neppure alle
nozze della sua adorata figlia.
La nostalgia si affaccia con prepotenza tra le vicende
narrate e ricorda al lettore le difficoltà di vita dei propri avi, richiamando
a gran voce quello spirito di sacrificio che la nostra società, tecnocratica e
superficiale, sta gradatamente dimenticando.
I canti tradizionali accompagnano i vari momenti di vita e
di lavoro descritti e graficamente rappresentati nell’opera di Iannuzzi,
evidenziando uno spirito di comunione che, attraverso il canto, rinsalda
l’identità e alleggerisce gli animi dinanzi alla fatica quotidiana.
Il quadro che affiora dal fumetto è quello di una società
travagliata, ma unita, carica di speranza nonostante le difficoltà, capace di
assaporare i momenti e di comprendere l’inestimabile preziosità del tempo
vissuto nella concordia e nell’operosità. Un ritratto ben lontano dal “liquido”
postmodernismo, ma capace di insegnare ancora grandi e durevoli valori.
Iannuzzi gioca con la memoria, riconoscendo in essa un
valido rimedio contro lo scriteriato fluire delle mode, in una visione in cui
la cronaca diventa Storia e questa, a sua volta, fecondata dalla tradizione,
diventa poesia.
Ritornando al quesito iniziale circa la possibilità di dare
una definizione al fumetto di Janù, stando a quanto detto, possiamo
circoscrivere l’opera adottando almeno tre immagini: il dono, lo scrigno e il
prisma: il dono riconoscente dell’emigrante verso la sua terra d’origine, nel
tentativo di riscoprire le proprie radici e i suoni con cui da bambino articolò
le prime parole; lo scrigno della memoria che racchiude le preziose perle della
tradizione, patrimonio inestimabile per chi vi si accosta con curiosità e
spirito di conoscenza; il prisma dell’arte che è capace di scomporre la bianca
luce della Storia nella policromia della narrazione, delle immagini e dei
sentimenti.
Ernest Koliqi, nei suoi rinomati Saggi di letteratura
albanese, descrisse Skanderbeg come «[…] il creatore di un’idea di fratellanza,
colui che aveva acceso un sacro fuoco nel grande focolare della stirpe, che
aveva insegnato alla gente legata dallo stesso sangue e dalla stessa lingua a
considerarsi figli della stessa madre», Iannuzzi, attraverso il suo fumetto,
con l’armonica fusione tra immagini e parole, ricorda a tutti noi l’importanza
delle radici e del passato, unico ed efficace antidoto contro la narcosi delle
coscienze e la negazione del bello, unico argine contro la disgregazione delle
identità e il disinteresse generale.
Il compianto filosofo francese Paul Ricoeur scrisse: «[…] La
memoria è tutto ciò che abbiamo per assicurarci che qualcosa è effettivamente
accaduto un tempo». È esattamente questo lo spirito che impregna il
gradevolissimo lavoro di Iannuzzi.
Spezzano Albanese (Spixana), 2/VIII/2018
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