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venerdì 12 novembre 2021

RIFLESSIONI E ASSERZIONI PER UN CONTRIBUTO SULLA MADONNA DEL PILERIO DI COSENZA

 di

Cesare De Rosis

Ogni popolo ebbe il suo culto, ogni città ebbe la sua venerazione a Maria, onorata specialmente sotto qualche particolare denominazione. Tra le icone mariane della Calabria emerge la Madonna del Pilerio conservata nella cappella omonima presso la Cattedrale di Cosenza. La fortuna critica di questa vetusta e miracolosa immagine inizia negli anni Settanta, quando è stata sottoposta ad un accurato restauro su iniziativa della prof.ssa Maria Pia Di Dario Guida.

La studiosa proponeva una lettura critica in chiave di ascendenze siciliane e di connessioni con l’area campana e toscana della seconda metà del ’200. 

Questa asserzione, datata 1978, superò il riduttivo giudizio, tuttavia non errato, di Giovanni Musolino che, nel 1966, definiva l’icona della Madonna del Pilerio “di puro gusto bizantino”.

Altri significativi studi sono stati condotti negli anni a seguire. È una Galaktotrophusa che si avvicina, per lo stile, alla Madonna col Bambino in trono (Maestro meridionale – XIII sec.) della Chiesa di S. Francesco ad Aversa. La Di Dario Guida pensa sia giusto attribuire la Madonna del Duomo di Cosenza al Maestro Tommaso De’ Stefani (n. Napoli 1231, + 1310), collegandola così alla Madonna della Chiesa di S. Maria a Piazza (Aversa).

Coeva all’icona del Pilerio è l’immagine (tempera su tavola) della Madonna col Bambino realizzata da Giovanni da Taranto e conservata nella Chiesa di Santa Maria delle Vergini a Cosenza.

Il velo rosso che dalla testa scende con eleganza sulla spalla sinistra caratterizza il manto della Vergine del Pilerio.

Questo particolare la avvicina alla Madonna del monastero di Kikko a Cipro, detta la Kikkotissa.

Verrebbe, dunque, naturale ipotizzare una possibile provenienza dall’area del Mediterraneo.

Entrambe queste piste non vanno escluse, anzi vanno ritenute basilari per la costruzione di questo testo.

Cronologicamente, avendo parlato del XIII secolo, precisiamo che ci riferiamo ad un momento che segna una fase di tramonto della pittura bizantina in Italia meridionale fra gli ultimi tempi svevi e la prima età angioina.

L’avvento della dinastia angioina determina un isterilimento della tradizione locale che, alla metà del 13° secolo, aveva prodotto, fra le altre cose, l’interessante icona della Madonna del Pilerio, la cui cultura “bizantina” di base mostra delle consonanze con quanto contemporaneamente si andava affermando in Toscana per opera di Giunta Pisano e Coppo di Marcovaldo. Questo elemento va sottolineato perché l’accostamento alla tradizione pittorica “aulica” di Coppo di Marcovaldo evita qualsiasi tipo di banalizzazione dell’opera d’arte qual è la Madonna del Pilerio di Cosenza.

Come Coppo di Marcovaldo, l’artista che ha scritto l’icona del Duomo cosentino recupera il motivo della Madonna Galaktotrophousa secondo i canoni della tradizione bizantina, ma lo rinnova cercando effetti di più robusto modellato. Egli pone la figura di tre quarti, attribuendogli una gestualità più naturale e, pur conservando lo smaltato cromatismo e gli schemi lineari della pittura bizantina, tenta di sfumare i colori approdando ad un violento chiaroscuro.

I panneggi mostrano un andamento spezzato e analogo, ma non si fanno pesanti, sebbene convenzionalmente intessuti dall’ossessivo gioco lineare delle lumeggiature.

Un elemento particolarmente degno di nota è un retaggio dell’età classica e della mitologia che ha influenzato in qualche modo l’arte cristiana. Per il tema che stiamo trattando è da tenere conto quanto segue: il culto della Madre e dell’infante era molto diffuso in Egitto. Si rappresenta spesso la dea madre Iside che indossa la corona della Regina del Cielo e tiene Horus sulle ginocchia.  Questa immagine ricorda quella della Vergine e del Bambino del mondo cristiano. 

Nell’arte, si evince senza dubbio la grande somiglianza tra la figura di Iside che allatta Horus e la Madonna con bambino.

Più recentemente, Vittorio Sgarbi, in visita a Cosenza, leggendo l'icona della Madonna del Pilerio, ha proposto un parallelismo con “un dipinto straordinario, lontanissimo da questo di Cosenza, che è la Madonna del Collo Lungo di Parmigianino, che ha alle spalle un pilerio, una colonna che è l’inizio di un tempio che indica l’integrità della colonna intera e che corrisponde all’integrità della Vergine”. Interessante è anche la scultura della Madonna del Pilerio, ma questa è un’altra storia.

mercoledì 10 novembre 2021

IL MITO DI COPPI E LA PENNA DI BRERA

 di

Mario Gaudio

Coppi e il diavolo non poteva che venir fuori dalla penna di Gianni Brera, uomo e giornalista d’altri tempi di cui, nel marasma attuale di svergognata mediocrità elevata a sistema, si sente l’evidente mancanza.

Con prosa che fluisce al pari dei nastri d’asfalto divorati da Coppi, lo scrittore lombardo racconta ‒ senza retorica o nefaste finalità agiografiche ‒ le vicende umane e sportive del Campionissimo, non impantanandosi nelle paludi del genere biografico, ma ricorrendo alla forma schietta di un romanzo non romanzato ‒ il lettore mi perdoni la cacofonia e il bizzarro accostamento di termini ‒ che, a conti fatti, pare essere lo strumento più idoneo a tramandare le imprese di un protagonista assoluto dell’epoca d’oro del ciclismo italiano. 

Tuttavia, Brera ‒ che di umane debolezze e vini generosi era fine intenditore ‒ ci presenta un Coppi non patinato, diverso da quello ospitato di frequente sulle rosee pagine della Gazzetta dello Sport, e con tratti che racchiudono una complessità caratteriale fortemente segnata dai luoghi e dalle condizioni d’origine.

Insomma, scomodando Foscolo, potremmo dire che Brera «gli allor ne sfronda», offrendoci un mito demitizzato, ma reso grandioso proprio dalle sue fragilità profondamente umane.

Tutto parte da un borgo, Castellania, in cui si stenta a campare tra quotidiano sacrificio, terre ingenerose e fame atavica. La durezza delle zolle pare proiettarsi sui caratteri introversi di abitanti taciturni e ostinati che stemprano la fatica dell’aratro e i pesi dell’esistenza in rustiche e fumiganti osterie che diventan punto di ritrovo ‒ l’unico ‒ per strologare sui raccolti venturi, menare in corpo pinte di stordente barbera e crear rumorose e alticce fazioni in sostegno dei propri beniamini del ciclismo e del calcio.

Esattamente in questo contesto, nel 1919, nasce Fausto Coppi che ‒ superfluo dirlo ‒ appartiene ad una famiglia contadina la quale, benché non pianga miseria, non può certo definirsi ricca.

Superando pappine, primi passi e marachelle ‒ di cui poco ci importa e che il benevolo lettore potrà approfondir sua sponte ‒, ritroviamo il giovane Fausto a Novi Ligure nei panni del garzone di salumeria che, per accelerar consegne e intascare poche e sudate lire, salta in groppa ad un catorcio ‒ difficilmente definibile bicicletta ‒ su cui le sue sottili e sproporzionate gambe cominciano a muovere le prime energiche pedalate.

Poco tempo dopo, con una Maino nuova di zecca in dotazione ‒ costoso dono di uno zio marinaio ‒ e parecchi chilometri già macinati in gare dilettantistiche, avviene l’incontro destinato a cambiare definitivamente la vita del futuro campione: quello con Biagio Cavanna.

Vecchia conoscenza del ciclismo, scopritore e mentore di Costante Girardengo e Learco Guerra, l’«orbo veggente» ‒ com’era stato poco simpaticamente ribattezzato dalla stampa, a causa della sua inguaribile cecità ‒ ha la dote di riconoscere il valore degli atleti, tastandone i muscoli con la medesima perizia con cui, nel comune e immutabile buio, si dice che il greco Omero sfiorasse, in epoche remote, le tombe degli eroi al fin di trarre ispirazione per i suoi immortali versi.

Cavanna, massaggiatore esperto e psicologo improvvisato, analizza con i suoi sensibilissimi polpastrelli le lunghe leve di Coppi, intuendo nel giovane piemontese la stoffa del fenomeno e la fragilità di uno «scheletro di vetro» ‒ son parole di Brera ‒ che, più e più volte, sarà ammaccato da infortuni.

Inizia da qui la parabola inarrestabile del Campionissimo nel mondo del ciclismo professionistico, con l’inevitabile pausa bellica di mezzo ‒ durante la quale Coppi, spedito sul fronte africano, sarà prigioniero degli inglesi ‒ e l’invidiabile sfilza di primati tra cui è doveroso ricordare almeno le cinque vittorie al Giro d’Italia e i due trionfi al Tour de France.

Sono anni di ciclismo epico in cui i corridori scalano le vette più impervie tra schizzi di fango, sbuffi di polvere e folate improvvise di vento. Non esistono divise in tessuto tecnico, ma rozzi calzoncini e maglioni inadeguati; ci si protegge con semplici caschi di cuoio imbottito; si utilizzano biciclette dal peso notevole e non perfettamente stabili; ci si ricarica ‒ per buona pace degli attuali salutisti e sfegatati sostenitori di bevande e barrette energetiche ‒ ingurgitando di fretta acqua, uova, pane e salame. In poche parole: sulla strada si combatte.

Non mancano i duelli tra squadre rivali ‒ particolarmente accaniti quelli tra la Bianchi e la Legnano ‒, così come non si contano gli antagonismi tra singoli corridori e, ovviamente, la memoria torna alle leggendarie battaglie tra il piemontese Coppi e il toscanaccio Gino Bartali.

Tanto ardimento si accompagna a cadute e infortuni che tormenteranno il cagionevole corpo di Fausto ‒ già minato da una febbre tifoidea contratta in anni passati ‒ e porteranno lutto alla sua famiglia con la tragica morte del fratello Serse ‒ anch’egli ciclista ‒, calato nella tomba per i postumi di un incidente al Giro del Piemonte del 1951.

Ben presto, il mondo delle antiche corse ‒ drammatico e romantico al tempo stesso ‒ subisce un mutamento di stile e l’alleanza tra chimica e medicina irrompe tra le fatiche agonistiche in modo funesto attraverso quelle pillole di simpamina (primitiva sostanza dopante) che lo stesso Coppi non esiterà ad utilizzare.

Ciononostante, il Campionissimo continua ad apparir su strada e su pista con sembiante e autorità di creatura quasi mitologica, logorandosi le ginocchia e affrontando le sue ultime corse con la proverbiale coriacea volontà di contadino che subentra alla scemante resistenza fisica.

L’astro del corridore è ormai al tramonto e il destino beffardo lo fredda, appena quarantenne, inoculandogli una malaria curabilissima con qualche dose di chinino, ma non diagnosticata per tempo da spocchiosi medici italiani incapaci di accogliere il suggerimento del fratello di Raphaël Geminiani, ciclista francese partecipante allo stesso safari africano dal quale Coppi era tornato febbricitante.

Il mito del campione di Castellania resiste, come prevedibile, alla sua dipartita e rende ammirevole un eroe dello sport che, nonostante gli infortuni, le fragilità umane, lo scandalo della relazione adulterina con la conturbante “Dama Bianca” (Giulia Occhini Locatelli) ‒ episodio narrato da Brera con rara delicatezza e umana comprensione ‒, resta un modello e un esempio per le generazioni successive. 

Coppi e il diavolo racchiude in sé l’ambizione della meta, il dolore dello sforzo, la iattura delle forature e l’onnipresente odore di mastice delle antiche competizioni ciclistiche ma, senza dubbio alcuno, il merito principale dell’autore è quello di aver compreso il motivo profondo che ha spinto il Campionissimo a consumare convulsamente la propria vita sui pedali. Coppi ha portato le stigmate della sua origine, ha corso sempre più veloce per non farsi agguantare dalla fame ancestrale della terra natia, «ha sofferto l’esistenza dei poveri e le si è ribellato con sacrifici di epica imponenza».

Sono anni torbidi e di pandemia: ci mancano gli eroi come Coppi e gli uomini come Brera in grado di raccontarceli.

Spezzano Albanese (Spixana), 10/XI/2021