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domenica 19 giugno 2022

SE IL CARDINALE SI CONFESSA

 di

Ettore Marino

Se ciò che va taciuto viene messo su carta; e se sui medesimi fogli viene enunciata, e con forza, la necessità di tacere ciò che va taciuto, il dispettoso folletto dell’incongruenza si mette a farti le boccacce, e te la cavi come puoi.

Del cardinale Mazzarino, Jules Raymond Mazarin pei francesi, chi s’appresta a leggere codesto articoletto non è tenuto a esser nato già edotto. Ricordi perciò che: nacque egli in Abruzzo, nel 1602, da un nobiluomo siciliano al servizio dei Colonna; che, già scolaro dei Gesuiti, studiò in Ispagna e s’addottorò in utroque iure a Roma; che fu in gioventù uomo d’arme e diplomatico. Richelieu e, per lui, Luigi XIII, prendono a stimarlo. Da semplice diacono, ottiene il cappello cardinalizio. Richelieu muore nel Dicembre del 1642: Jules Mazarin è primo ministro. Nel Maggio seguente si spegne anche il sovrano. La minorità di Luigi XIV innalza alla reggenza la di lui madre Anna d’Asburgo. Il giovane sovrano s’innamorerà un giorno di Maria Mancini, nipote del Mazzarino stesso, e la vorrà sposare. Reputando le nozze svantaggiose alla Francia, il cardinale le ostacolò fino a impedirle. Mazzarino siculoabruzzese… Quando si parla di origini e di etnie, il pacchiano è lì a un passo. Evitiamo di compierlo chiedendoci: quale stentato nobilotto italomeridionale avrebbe resistito alla venere d’imparentarsi al re di Francia? E ceselliamo la digressioncella col dire che sifilide antica e inguarita dell’Italia australe è l’onniavvolgente mistura di sentenziante invadenza, adiposa vanità e assai giulivo vittimismo che la inchioda a una perenne eco di sé. Torniamo in Francia. Devoto ad essa e alla corona, il cardinale perseguì, con agile costanza, due scopi: umiliare gli Asburgo sì che la Francia dei Borbone primeggiasse in Europa; distruggere, all’interno, le fazioni perché il re fosse tale davvero. Fortuna arrise a entrambi. Alle cose d’Italia il cardinale non cessò mai d’interessarsi, come ministro e come uomo. Accumulare terre, oro, benefici ecclesiastici, libri, pezzi d’arte, fu, più che intento, passione: che soddisfece appieno. Morrà nel Marzo del 1661. 

Nel 1684 venne dato alle stampe un curioso libretto: Breviarium Politicorum secundum Rubricas Mazarinicas. Del 1698 la versione italiana, intitolata Epilogo de’ Dogmi Politici secondo i dettami rimastine dal Cardinale Mazzarino. Nel Novecento s’interesseranno al testo Giovanni Macchia, Pietro Citati, Salvatore Veca, Umberto Eco, Francesco Perfetti. Il libro s’inserisce in un genere. La sua stranezza non è pertanto in questo. Conseguire, mantenere, accrescere il potere: chi vive a tale scopo non va descrivendo i ferri del mestiere nemmeno in fogli destinati a stamparsi dopo la sua morte; o, se lo fa, mostra il lato diurno della cosa, e non, come qui, la tenebra che lo sottende. A scrivere fu perciò chissà chi, e lo fece esemplando i concetti secondo il modello Mazzarino: il più grandioso, in quell’ora della Storia, fra tanti altri modelli siffatti.

Non francese, potente, ricchissimo, Mazzarino fu odiato, specie dai nobili che andava umiliando perché il sole di Luigi splendesse più certo. I dispacci d’Ambasciata e la letteratura memorialistica lo tratteggiano freddo, inalterabile, amabile d’una amabilità tenera e flessibile, forte d’una doppiezza potentemente dominata che gli permette di radicalmente dominare il prossimo. Il cardinale è il padrone del discorso: sua è la tua verità, lui ti sfuggirà sempre. La decisione di un sovrano sommuove mille cose; quella d’un padre di famiglia, di una comare intrigante, di un allenatore di football sortiscono effetti, è ovvio, ben più minuti. Ma il gioco è lo stesso. Quella cosa chiamata potere investe la realtà umana tutta: dalla frotta dei bimbi festanti al consesso dei grandi che deliberano. Se patisce scissioni al suo interno, il soggetto stesso è attraversato e manomesso dal potere. L’amore, la fraternità, la contemplazione d’una scena, l’entusiasmo, l’ebbrezza, la lealtà sono le piccole grandi diastoli nel moto delle cose umane. Il libretto ci insegna quello che già sappiamo: elastica prudenza e necessità di sporcarsi le mani. Bene è infatti sporcarsele, se si vuole che non ci venga insozzata l’anima. Di anima, però, il libretto mai parla. Parla, per contro, di maneggi; e soprattutto di segreti: i tuoi, da custodire se vuoi continuare a vivere; gli altrui, da divinare con l’adeguato grimaldello. Un po’ di esempi, che riportiamo modernizzando solo l’uso di apostrofi e virgole: “Incoraggia quel tale a narrarti la sua vita, il che sortirà se tu gli narri sotto finta la tua; e quali inganni egli usò ad altri; e di qui avrai ben agio di arguir qual ei sia presentemente: sia però tu avvertito a non iscuoprirgli la tua”; “Architetta nella tua fantasia de’ segreti, e come tali confidali a lui”; “Se ti occorrerà scrivere in un luogo frequentato da molti, appoggia a un lettorino [= leggio] qualche foglio già scritto, come se avessi a ricopiarlo. Egli sia patente, e in prospettiva; ma la carta dove realmente scrivi stia distesa ugualmente sul tavolino, e talmente cautelata, che non comparisca se non la sola riga della trascrizione, che possa leggersi da chi vi si accosta. Quello però che hai scritto, riparalo con qualche libro o altro pezzo di carta, ovvero con altra carta sostenuta, come la prima, ma più appressata allo scritto”; “Se t’avvedi che altri vuol ripescare dal tuo cuore qualche sincero arcano, e s’infinga saperlo, non lo correggere, se falla”. Tutto è riassunto in quanto segue: “Affaticati di avere un’intera notizia degli altri; non isvelare ad alcuno i tuoi segreti; procura bensì indagar tu gli altrui”. Il naturale, il semplice pessimismo che informa ogni cosa è enunciato con le semplici e naturali parole con le quali chiudiamo le nostre citazioni: “Non presumere di trovar benigni interpetri de’ tuoi operati, poiché nel mondo ognun la prende nel senso peggiore.”

È un mondo privo d’aria. Il convito è momento di diastole. L’autore inchioda sulla pagina la grande macchina d’un banchetto in cui la parola gareggia con la cosa e ne trionfa: barocchissima scena d’una profusione di crome corpi e forme, tutta volta a stupire; cioè a incantare gli astanti, a possederne e dominarne il cuore per stordimento della vista, prima che del palato: cioè, di nuovo e per sempre, un momento senz’aria.

 Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 19/VI/2022


mercoledì 15 giugno 2022

L’ENIGMA MAJORANA: VECCHIE TESI E NUOVE IPOTESI

 di

Mario Gaudio

25 marzo 1938. Ettore Majorana, giovanissimo, silenzioso, schivo e geniale fisico teorico, si imbarca dal porto di Napoli su un piroscafo diretto a Palermo. Da quel preciso istante, si perdono le sue tracce e ha inizio uno tra i più affascinanti, discussi e controversi misteri italiani.[1]

Non si tratta di un ordinario caso di scomparsa, ma della sparizione di una delle menti più brillanti del tempo[2] che aveva mostrato impressionanti capacità di calcolo e di deduzione, lavorando ‒ tra il 1929 e il 1937 ‒ nel famoso staff di scienziati del Regio Istituto di fisica dell’Università di Roma, guidato da Enrico Fermi e passato alle cronache con l’appellativo di “Gruppo dei Ragazzi di via Panisperna”.[3]

Se a ciò si aggiunge l’appartenenza di Majorana ad una delle famiglie di notabili più influenti del catanese ‒ che aveva dato i natali ad un ministro, a diversi statisti e accademici di valore ‒ si comprende l’ampia risonanza che il caso ha avuto sin da principio, costringendo lo stesso Mussolini ad esercitare forti pressioni sugli inquirenti affinché Ettore fosse ritrovato.[4]

Tuttavia, nonostante la puntigliosa attività investigativa della polizia fascista, i cui metodi ‒ com’è noto ‒ erano spesso poco ortodossi, e l’utilizzo di una fitta rete di collaboratori e informatori, le ricerche risultano vane e portano alla luce soltanto labili indizi dei presunti spostamenti del giovane fisico.

Nel corso degli anni, sono state formulate numerosissime ipotesi sulla sorte di Majorana, ma nessuno, sino ad ora, è pervenuto alla risoluzione di questo spinoso enigma italiano. 

Accanto all'idea del suicidio e a quella della caduta accidentale dal piroscafo durante la navigazione, c’è chi ha ipotizzato una volontaria fuga in Germania ‒ dettata da una discutibile simpatia verso il Terzo Reich ‒ e chi, come lo storico della matematica Umberto Bartocci, ha addirittura teorizzato una segreta congiura di fisici per eliminare il temibile e talentuoso collega.[5]

Non sono mancate ricostruzioni che hanno fatto di Majorana un esule italiano in Sud America: Erasmo Recami ha parlato, ad esempio, di una sua seconda vita a Buenos Aires, in Argentina,[6] mentre altri hanno identificato lo scienziato scomparso con un certo signor Bini, residente in Venezuela.[7]

A tutto ciò si sommano le molteplici testimonianze che, di volta in volta, hanno identificato Ettore Majorana con umili senzatetto particolarmente dotati nel calcolo e nella risoluzione di problemi matematici. Si ricordano, a tal proposito, almeno due segnalazioni: la prima riguardava un clochard di Mazara del Vallo, Tommaso Lipari, morto nel 1973; la seconda fu la dichiarazione di un anonimo testimone che affermava di aver riconosciuto Majorana in un uomo senza fissa dimora incontrato a Roma, nel 1981, in compagnia di monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana.[8]

Dinanzi a questo ginepraio di ipotesi, il libro di Giovanni Forte si presenta come un testo prezioso, dal momento che non ha la pretesa di raccontare a tutti i costi una verità definitiva sul caso Majorana, ma fornisce, attraverso una scrupolosa quanto corretta indagine archivistica e documentale, una nuova pista di lavoro. L’autore è un medico e, confortato dalle sue conoscenze sanitarie e dalla trentennale esperienza nell’ambito della professione, cerca di leggere quelli che sono piccoli, ma interessanti indizi sulle condizioni di salute del geniale fisico siciliano.

Sommando con pazienza e analizzando con acume una serie di sparsi riferimenti, Forte arriva a concludere che Majorana, prima della scomparsa, fosse affetto da una malattia polmonare, nello specifico la famigerata tubercolosi, contratta o comunque aggravatasi durante il soggiorno estero del 1933. In quell’anno, il giovane scienziato trascorse sei mesi di studio in Germania al fianco di Werner Heisenberg ‒ uno dei fondatori della meccanica quantistica ‒, e in Danimarca al seguito di Niels Bohr, autore di contributi essenziali per la comprensione della moderna teoria atomica.

Dalle lettere di questo periodo, in cui sono presenti vaghe allusioni a disturbi influenzali e digestivi, Giovanni Forte trae materiale per elaborare la sua diagnosi: i sintomi genericamente descritti, uniti ad una costituzione fisica alquanto debole ‒ Majorana era stato esonerato dal servizio militare per «insufficienza toracica» ‒, il vizio del fumo ‒ il giovane scienziato era noto come accanito fumatore delle famose sigarette “Macedonia” ‒, gli accenni all’assistenza di un’infermiera e un insieme di prescrizioni comportamentali relative all’astensione dai bagni consentono al nostro autore di ricostruire un quadro clinico abbastanza preciso.

Questa lettura medica del caso Majorana, pertinente e inedita ‒ ricordo, per inciso, che solo Emilio Segrè, nel 1965, aveva sommariamente parlato di una presunta sifilide del suo collega ‒, non è fine a se stessa, ma diventa una chiave di lettura essenziale per comprendere il prosieguo della vicenda e le motivazioni della scomparsa.

Forte ricostruisce, alla luce di quanto appena detto, lo scopo del viaggio a Palermo affrontato dal giovane Ettore: nel capoluogo siciliano esercitava il professor Maurizio Ascoli, amico della famiglia Majorana, che, proprio in quegli anni, stava sperimentando una particolare procedura per il trattamento della TBC. 

La permanenza a Palermo, confermata dall’invio di una lettera e un telegramma spediti da Majorana al collega Antonio Carrelli,[9] esclude pertanto le ipotesi del suicidio e dell’accidentale caduta in mare, aprendo, di fatto, gli interrogativi su quelli che sono stati i successivi spostamenti del fisico.

Tra fine marzo e aprile, si segnalano diversi avvistamenti nel capoluogo partenopeo: Majorana è riconosciuto per strada da un’infermiera, dal gesuita padre De Francesco del convento annesso alla Chiesa del Gesù ‒ presso cui si sarebbe recato per chiedere l’ammissione all’ordine monastico ‒ e dai frati di san Pasquale di Portici a cui si sarebbe rivolto, con lo stesso scopo, il 12 aprile.[10]

Seguirono, tra luglio e agosto 1938, alcune segnalazioni nel Cilento, in particolare a Perdifumo e a Celle di Bulgheria, una piccola frazione di Roccagloriosa, dove, stando agli atti della Questura di Salerno, furono inviati anche dei cani poliziotto.

A questo punto, Giovanni Forte, partendo dal libro di Stefano Roncoroni[11] ‒ figlio di una cugina di Ettore ‒, che cita alcune annotazioni del diario di suo nonno (Oliviero Savini Ricci, marito di Elvira, zia di Majorana), elabora una sua ipotesi basata sull’analisi di un presunto messaggio criptico celato dietro il riferimento ad un «vallone boscoso della provincia di Catanzaro» in cui il fuggitivo dimorava «ospite di pastori».

Secondo l’autore, il «vallone boscoso» indicherebbe, per i parenti del Majorana, la permanenza di Ettore presso il sanatorio antitubercolare di Chiaravalle Centrale, fondato e diretto ‒ negli anni Trenta ‒ dal dottor Mario Ceravolo e intitolato a san Giovanni Bosco. Quanto ai «pastori» di cui parla Roncoroni, sarebbero da intendersi in senso spirituale e, dunque, si alluderebbe ad un gruppo di religiosi, nella fattispecie ai Padri Cappuccini, che assistevano spiritualmente i malati della casa di cura.

La ricostruzione di Giovanni Forte sembra reggere, considerando che lo stesso Roncoroni ammette un incontro tra Ettore Majorana e alcuni emissari della sua famiglia, avvenuto proprio in quelle zone tra il 27 e il 29 ottobre 1938, cui seguì la decisione irrevocabile di non rientrare e la morte del giovane sopraggiunta, sempre a detta di Roncoroni, nell’estate del 1939.[12]

Infine, bisogna tener conto del fatto che Chiaravalle dista pochi chilometri dalla Certosa di Serra San Bruno, dove, secondo Leonardo Sciascia ‒ autore, nel 1975, del libro intitolato La scomparsa di Ettore Majorana[13] il giovane scienziato si sarebbe ritirato per fuggire dal mondo e abbandonare gli studi di fisica atomica di cui aveva intuito il potenziale distruttivo.[14]

Insomma, Giovanni Forte fornisce con il suo libro una chiave di interpretazione originale e interessante dei fatti, senza la presunzione di voler arrivare a soluzioni conclusive.

Nel caso Majorana, molto spesso, il caos ha preso il sopravvento sulla ragione, confondendo ancora di più le già tumultuose strade della ricerca. L’unico dato certo dell’intera faccenda è la scomparsa di un giovane talentuoso che aveva scritto pochissimo ‒ la sua produzione consiste soltanto in nove articoli scientifici ‒,[15] ma aveva teorizzato, nel lontano 1937, l’esistenza dei cosiddetti fermioni di Majorana, particelle stravaganti capaci di essere, al contempo, antiparticelle la cui presenza è stata verificata sperimentalmente soltanto nell’ottobre 2014.

Il genio siciliano dalla mente razionale e calcolatrice, ma dall’animo sensibile e portato verso la filosofia e la riflessione, scomparve alla maniera dei personaggi di Pirandello in una intricata vicenda che può essere sintetizzabile con le parole della Favola del figlio cambiato di pirandelliana memoria: «Niente è vero / e vero può essere tutto. / Basta crederlo per un momento / […]». In questo groviglio di ombre e di illusioni Giovanni Forte ha provato a gettare un po’ di luce.

Spezzano Albanese (Spixana), 15/VI/2022



[1] La mattina del 25 marzo 1938, Majorana si accomiatò in maniera strana da studenti e colleghi. Prima di andare via, consegnò alla studentessa Gilda Senatore un plico di fogli e appunti, con la preghiera di custodirli.

[2] Majorana si laureò in Fisica (1929) con Enrico Fermi, scrivendo una tesi sulla “Teoria quantistica dei nuclei radioattivi”. Nel 1937, fu nominato, per chiara fama, professore di Fisica teorica presso l’Università di Napoli.

[3] L’équipe di scienziati di via Panisperna era composta da fisici teorici (Enrico Fermi, Ettore Majorana, Gian Carlo Wick, Giulio Racah, Giovanni Gentile jr., Ugo Fano, Bruno Ferretti e Piero Caldirola), fisici sperimentali (Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Bruno Pontecorvo, Eugenio Fubini, Mario Ageno e Giuseppe Cocconi) e un unico chimico (Oscar D’Agostino).

[4] Ettore Majorana era nato a Catania il 5 agosto 1906 da una famiglia di costumi severi ma, al contempo, influente e benestante, che aveva ricoperto importanti posizioni politiche e culturali in ambito nazionale: il nonno di Ettore fu, per ben due volte, Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio; il padre Fabio era un noto ingegnere; lo zio Giuseppe fu giurista, rettore e deputato; lo zio Angelo uno statista; lo zio Quirino un brillante fisico, mentre lo zio Dante fu giurista e rettore. (cfr. Francesco La Teana, La scomparsa di Ettore Majorana, un caso che appassiona da 80 anni, in www.nationalgeographic.it/popoli-culture/ritratti/2018/03/27/news/80_anni_scomparsa_ettore_majorana-3918362/ [Consultazione del 2/12/2019]).

[5] Si veda in proposito Umberto Bartocci, La scomparsa di Ettore Majorana: un affare di Stato?, Società Editrice Andromeda, Roma, 1999.

[6] Cfr. Erasmo Recami, Il vero Ettore Majorana, Di Renzo Editore, Roma, 2017.

[7] Cfr. Andrea Sceresini, Giuseppe Borrello, Lorenzo Giroffi, La seconda vita di Majorana, Chiarelettere, Milano, 2016.

[8] Il senzatetto in questione sarebbe poi deceduto nel 1997.

[9] Il fisico Antonio Carrelli ricevette due lettere e un telegramma da Ettore Majorana. La prima missiva, spedita da Napoli, conteneva propositi vagamente suicidi, il telegramma (inviato da Palermo) smentiva queste intenzioni, mentre il secondo messaggio (anch’esso proveniente dal capoluogo siciliano) sintetizzava la volontà del giovane scienziato di ritirarsi dall’insegnamento. Tuttavia, la figura di Carrelli è alquanto ambigua: egli non restituì alla famiglia il telegramma, mentre consegnò le lettere prive delle relative buste. Tale comportamento ci consente di ipotizzare un suo ruolo di complicità nella volontaria scomparsa del collega. (Cfr. Giovanni Forte, Ettore Majorana, malato non immaginario. Indagini di un medico, La Rondine, Catanzaro, 2017).

[10] Cfr. Giovanni Forte, Ettore Majorana, malato non immaginario, op. cit., p. 78.

[11] Il libro cui si fa riferimento è il seguente: Stefano Roncoroni, Ettore Majorana, lo scomparso e la decisione irrevocabile, EIR, Trento, 2013.

[12] Stefano Roncoroni, in una recente intervista apparsa su «Nuova Storia Contemporanea» (a. XIX, n. 6 novembre-dicembre 2015, pp. 81-106), ha supposto una presunta omosessualità del fisico e ha altresì ipotizzato che Ettore Majorana fosse affetto dalla sindrome di Asperger, una variante dell’autismo.

[13] Il libro di Sciascia raccoglieva, in realtà, sette articoli che lo scrittore siciliano aveva pubblicato precedentemente sul quotidiano La Stampa.

[14] Recentemente, tale ipotesi è stata ribadita da: Alfredo Ravelli, Il dito di Dio. Parte prima. Il fatto (1958-1989), Print Service Pavia, Pavia, 2013.

[15] Cfr. Francesco La Teana, La scomparsa di Ettore Majorana, un caso che appassiona da 80 anni, in www.nationalgeographic.it/popoli-culture/ritratti/2018/03/27/news/80_anni_scomparsa_ettore_majorana-3918362/ [Consultazione del 2/12/2019].

domenica 12 giugno 2022

VAGABONDANDO IN UN EPISTOLARIO

 di

Ettore Marino

Come pochi, e con rabbiosa inconcussa certezza, Gustave Flaubert sapeva che l’Arte è un altro mondo. Non è la Verità. Non è la Vita. Deve perciò giustificarsi da sé sola. Sognò un libro sur rien (“su nulla”), privo di ogni ancoraggio, bello soltanto del suo stile. Mai lo tentò. Tenne degno di stampa soltanto ciò che scrisse da Madame Bovary in poi, e cioè quattro romanzi, compreso l’incompiuto Bouvard et Pécuchet, tre racconti, un poema in prosa, tre pièces teatrali. Postuma conoscerà la stampa l’opera giovanile. Postuma, è ovvio, la sterminata Correspondance. Il padiglione in cui scriveva fu il luogo del supplizio. Le frasi, ebbe a un di presso a dire, erano avventure. La solitudine, un’amica fedele. Una donna tentò, per amore, di violare il sacrario: Louise Colet. La amò pur egli, ma le vietò di varcarne la soglia. La vita suppurava oltre le sbarre dei cancelli, nei suoi nervi visitati dall’epilessia, nel suo corpo d’atleta nel quale la sifilide aveva deposto spore e piaghe, mentre la Senna andava, a un passo dalle sue finestre, illuminate a notte, faro fraterno ai battellieri. Sacrificare sé a chi amava davvero (madre amici nipote) e tutto al libro, lo scopo prefisso. Da qui, la sua leggenda. Cuore tenero, sognò immensità e lontananze; disgustato del mondo, notomizzò e disseccò sulla pagina esistenze destini velleità. Velleità e inanità segnano sempre il loro trionfo, pallido o sanguigno. Il sognatore e l’uomo di intelletto, due reami dell’uomo Flaubert. A colori (fu Alberto Savinio a notarlo) è il Flaubert di Salammbô, della Tentazione di sant’Antonio, di Erodiade, de La leggenda di san Giuliano ospitaliere; in bianco e nero quello della Bovary, de L’Educazione sentimentale, di Un cuore semplice, di Bouvard et Pécuchet. Statuì un rigidissimo canone d’impersonalità, e vi si attenne. Sulla pagina d’arte, Monsieur Flaubert, omaccione normanno, calvo e crinito insieme, dai biondi e poi grigi baffoni spioventi, si sente sempre e mai lo vedi. S’accampa invece tutto nella scrittura epistolare: tenero, sospiroso, anelante all’immenso, fragile, generoso, egoista, sonoro, frastornante, leale, disgustato, iracondo, dagli appetiti giganteschi: cibo vino nuoto viaggi tabacco puttane... Contingenza e destinatario marcano una differenza di statuto tra l’epistola e l’opera che si pretende d’arte - arte l’epistola stessa, quando lo è, se lo è, per quanto arte significhi. Nelle epistole sue, Flaubert è maestro comunque: di parola di frase di ritmo; soltanto, ci fu rottura d’argine, e il magma deborda, pur se rappreso e dominato. Lo spazio è poco. 

Coglieremo qua e là qualche petalo riportando destinatari e date soltanto se occorre, e traducendo per come ci riesce. Per lui la pipa “va agguantata”, e quando in un trasloco gliene smarriscono una, rimpiange quella “leggiadra canna nera portata da Costantinopoli nella quale ho fumato per sette anni. Ho trascorso con lei le ore più belle della mia vita. Spaventoso tormento saperla perduta, profanata!” A Esneh, in Egitto, copula con la famosa cortigiana Kuchuk-Hanem: “Cinque scopate e tre pompini. [...] Ripensavo alle notti nei bordelli di Parigi, ricordi antichi risalivano a mucchi. [...] Alle tre mi levai per andare a pisciare per strada. Le stelle brillavano. Chiaro e altissimo il cielo.” Ciò scriveva all’amico Bouilhet, rimasto in Francia, il 13 Marzo del 1850. Lo prende nostalgia di casa, del terrazzo, dei tigli, delle primule che vanno a spuntare, e consola la madre scrivendole (15 Aprile 1850): “Tu forse adesso piangi, volgendo i poveri occhi che amo lungo un foglio che per te rappresenta soltanto lo spazio vuoto in cui tuo figlio si è smarrito. Oh no, va’ là, ritornerò!” A Louise Colet seppe inviare perle quali: “La pioggia cade, nere sono le vele delle barche oltre le mie finestre, passano contadine col parapioggia, i battellieri urlano, io mi annoio! Mi paiono scorsi dieci anni dacché ti ho lasciata. La mia esistenza, acquitrinio che dorme, è placida al punto che il minimo evento che vi cada cagiona cerchi innumeri, e occorre tempo prima che fondo e superficie ritornino sereni! I ricordi che qui incontro a ogni passo paiono ciottoli che rotolano, lungo una china dolce, verso un abisso d’amarezza che porto in me. Il limo è smosso, e tutte le specie di malinconia, simili a rospi interrotti nel sonno, levano il capo fuor d’acqua e danno vita a una musica strana; io ascolto. Ah, come, come son vecchio, povera cara Louise!”; oppure: “Tu mi hai amato molto, povera cara donna, e adesso mi ammiri tanto e m’ami ancora. Grazie di tutto ciò. Mi hai dato più di quanto io t’abbia dato, giacché ciò che vi è di più alto nell’anima, è l’entusiasmo ch’essa effonde.”; o ancora... Passiamo però ad altro! Bourgeois dalla punta dei baffi alle cartilagini dell’anima, e spregiatore dei bourgeois, opulenti o cenciosi che fossero, in quanto sordi al Bello, le contingenze politiche lo esasperano, sicché borbonici, orleanisti, repubblicani, bonapartisti, socialisti, beccano ognuno, di volta in volta, la sua zampata ràbida; a guida dell’umanità auspicava un governo di saggi, di “mandarini” - ingenuissima idea da bambinone un po’ viziato. Chiama la Francia grassa stupida e inetta, ma reagisce da fiero francese quando il Prussiano la vìola. Salvare sé e il suo mondo dalla profanazione... Ma la Vita t’invade; è invasione, la Vita: è contagio. Eterna e mediocre, arriva a minacciare la pagina stessa, o addirittura a sporcarla: “Al solo pensiero che Lévy [un suo editore] mette le zampe sulle pagine mie, mi sento rivoltare.”; ovvero: “Il manoscritto andava respinto: non ci si doveva cacare sopra!”; oppure: “Strano è il piacere che gli imbecilli provano a sguazzare nell’opera altrui: a tagliare, a correggere, a far da istitutore.”; o ancora... Ma chiudiamo così, lasciando che la Vita vada a spargere altrove le sue mortifere muffe.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 12/VI/2022



domenica 5 giugno 2022

MA CHI FU IL PIÙ CATTIVO?

 di

Ettore Marino

Al tavolino d’un Caffè, un pomeriggio che rantolando moriva nella stessa sua afa, una giovane amica mi chiese, quasi dal nulla, quale fosse per me lo scrittore più sadico. Risposi: Thomas Mann. Le righe che seguono motiveranno la risposta.

Legami antichi e portentosi affratellano Letteratura e Male. Fuori luogo riandarne gli snodi. All’aspra fratellanza, Georges Bataille dedicò un libro (La Littérature et le Mal, appunto) del quale qui nulla direi nemmeno se lo avessi letto; né dirò del marchese donde il sadismo prese il nome, pur avendolo letto anche troppo. Ricorderò Virgilio, non certo perché sadico, ma perché chiuse il Male in un distico vibrante di dolorosa grazia: Qui legitis flores et humi nascentia fraga, / frigidus, o pueri, fugite hinc: latet anguis in herba. Lo rattrappisco come segue: “Ragazzi che cogliete fiori e fragole, / fuggite: l’erba cela un freddo serpe.” Confidando nel perdono di chi ha letto, passo a Manzoni. Padre Cristoforo si è speso nel vano tentativo di toccare il cuore a don Rodrigo. Renzo, Lucia e Agnese lo attendono in ambascia. Il frate giunge con l’amara scontata notizia, e a Renzo che lo pressa a ripetere la risposta di don Rodrigo dice che “l’iniquo che è forte [...] può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile.” La realtà umana è fatta di ciurmatori e di ciurmati, derisori e derisi, bastonatori e bastonati, né le parti son fisse così come sembra. La linea del tempo è fatta di istanti, ma la linea ha più forza d’ogni singolo istante; il tutto è fatto di parti, ma il tutto è più potente d’ogni singola parte. Il moto delle cose travolge, ma solo in ultimo, ognuno. Di momento in momento, se c’è guerra, c’è un vincitore e un vinto. A chi offre al mondo una storia non tocca parteggiare né per il momentaneo vincitore né per il momentaneo vinto; né per i tutti destinati ognuno alla sconfitta ultima, né per il tutto che costantemente trionfa su ogni singolo. Può parteggiare per chi vince, può parteggiare per chi perde. Se con atroce compostezza parteggia per l’intero moto delle cose e squaderna il dolore dell’afflitto con una voluttà che non si mostra mai ma che si avverte in ogni sillaba, è allora il più sadico dei sadici. Artista sommo, se lo è; però, ripeto, sadicissimo. 

Artista sommo fu, e senz’aura di dubbio, Thomas Mann. Ne ripercorro due racconti. Ne Il piccolo signor Friedemann egli narra il destino di Johannes Friedemann che, neonato, per colpa di una balia ubriaca, rovina in terra, e rimarrà piccolo e gobbo. A sedici anni s’innamora. Lei ama un altro, e Friedemann si dà pace. Vive con tre sorelle nubili, lavora, legge ottimi libri, fuma eccellenti sigari, ama la musica, adora il teatro, suona bene il violino, e il giorno del suo trentesimo compleanno ringrazia il triste ma grato crepuscolo in cui è consistita tutta la sua esistenza. Ma una novità irrompe. Ricco, atletico, forte, sicuro di sé, nella pacata cittadina arriva il nuovo comandante del presidio militare. Acquista una villa bellissima. Bella è pure sua moglie. Si chiama Gerda, e ha modi spicci, va a cavallo, fuma. Friedemann ne è turbato. S’incontrano una volta a teatro e una volta a casa di lei. Gerda gli confessa di patire di nervi: un’infelicità che potrebbe avvicinarli. Suona il piano, e potrebbero fare musica insieme. Con la potenza del tuono e il veleno d’un frutto ignoto, l’amore si impossessa dell’infelice Friedemann. Glielo confesserà, dopo un ricevimento nella villa, mentre, su richiesta di lei, si sono appartati in fondo al giardino, su una panca a due passi dal fiume. Le piange in grembo. Gerda, di colpo, esplode in una breve risata di orgoglioso sprezzo, lo afferra per un braccio, lo getta a terra, torna tra gli invitati. Friedemann si lascia morire nel fiume.

Luisella narra di una strana coppia: Amra e l’avvocato Jacoby. Lei è bellina bruna sciocca lussuriosetta furba; lui è un omone quarantenne, adiposo, di chioma rada e di ancor più rada barba, ispide e biondastre. Vile al punto da chiedere perdono ad ogni torto che subisce, ama la moglie, che lo chiama bestione, lo umilia ad ogni passo, lo tradisce (lo sanno tutti ma Jacoby lo ignora) con il giovane Läutner, uomo felice amabile spregiudicato presuntuoso, nonché compositore di canzoncine graziose e banalissime, che ogni volta, però, per poche brevi ma significative battute, palesano estro e genio. Amra ha la bella idea di dare una grande festa in onore della birra novella. Tanti saranno gli invitati, e vi saranno canti e danze, e imitatori di grandi personaggi. Furoreggia in quei giorni una canzone assai pacchiana, Luisella, il cui ritornello recita: “Polca, valzer e stiriana / niuna danza al par di me. / Son Luisella popolana, / più d’un cor giurommi fè” (racconto e versi tradotti da Emilio Castellani in Thomas Mann, Racconti, Mondadori 1984, pp. 151-166). A offrire il clou della serata, l’avvocato Jacoby dovrà cantare Luisella, rimusicata da Läutner; e la dovrà cantare vestito d’una vermiglia veste femminile, con il volto incipriato, e con in capo una parrucca tutta boccoli. L’avvocato rifiuta. Cederà al primo rimprovero di Amra che, mentre fanno l’amore, suggerisce a Läutner di scrivere una musica da suonarsi a quattro mani. Il grande giorno arriva. La festa è al colmo. Amra e l’amante siedono al pianoforte, iniziano a suonare, il sipario si schiude, e il pingue avvocato quarantenne compare in veste di Luisella, e canta e danza fino a che, nel solo passaggio geniale della melodia, da cantarsi sulle sillabe di “Luisella”, il dolore, l’orrore, lo sconcerto fulminano il poveraccio uccidendolo.

Mann grande, grandissimo scrittore. Antifrancese e reazionario durante la grande guerra, poi nemico di Hitler e democratico (obliquamente) convinto… L’Arte è oltre, e Thomas Mann è nell’Arte. La compostezza con la quale trama gli orrori che narra (è un suo diritto) lo rendono inscalfibile. Mai mostra ribellione al Fato. È alleato del Male, e non puoi muovergli rimprovero. Di ogni autore in quanto uomo, nulla deve importarmi. Nulla perciò m’importa del signor Mann. È morto nel 1955 e, pure se avessi una sorella, e questa fosse nubile, mai correrei il rischio di ritrovarmelo cognato. Il suo diario è stato pubblicato da un pezzo. Mai volli leggerne una pagina. Sono certo che abbia compiuto personali nefandezze e che le abbia trascritte con la sua eterna sfacciata irreprensibilità, con eleganza d’acciaio e di smalto. Ch’io abbia indovinato o no, nulla rileva.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 05/VI/2022