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mercoledì 29 marzo 2023

MICHEL FINGESTEN, LA STORIA E LE STORIE

 di

Mario Gaudio

Nel gennaio 2020, quando ancora le consolidate abitudini sociali si consumavano ignare dell’imminente minaccia pandemica che di lì a qualche mese avrebbe sconvolto le nostre esistenze, durante uno dei miei brevi soggiorni romani, decisi di ritornare ad ammirare i capolavori dei Musei Vaticani.

Tra le sale gremite di opere d’arte e l’immancabile cicaleccio di sottofondo che accompagnava più o meno organizzate frotte di visitatori, mi accorsi della presenza di un cartoncino ingiallito su cui una mano raffinata e nervosa aveva impresso a sanguigna le sconvolte espressioni di alcuni cadaveri ai quali «sorella Morte» non era riuscita a restituir la pace. 

Rimasi temporaneamente interdetto dinanzi a quello spettacolo drammatico e possente, cercando di coglierne qualche altro particolare e ignorando totalmente l’identità dell’autore dell’insolito disegno, sebbene il mio astigmatismo ne avesse identificato una poco leggibile firma.

Indugiai quasi preda di una strana voluttà, prima di fissare lo sguardo su una didascalia che, stampata su un orribile sfondo nero, svelava l’arcano, riportando il nome dell’artista ‒ Anton Zoran Mušič ‒ e la seguente citazione: «Disegnavo tutto il tempo, non appena potevo. Avevo trovato dei pezzi di carta nell’ufficio degli architetti e mi sono chiuso dentro l’infermeria, la baracca dove si stipavano i malati, durante un’epidemia di tifo. Le SS avevano paura di entrare e quindi ho potuto disegnare liberamente per la prima volta».

Non conoscendo affatto le vicende dello sventurato disegnatore, ma carpendone da quelle poche righe l’immane sofferenza, mi limitai a scattare una malferma foto con l’inseparabile smartphone, in barba ai cartelli di divieto ‒ fossero sol queste le uniche illegalità italiane! ‒, proponendomi di far le debite ricerche una volta ritornato tra le accoglienti mura del bed and breakfast che mi ospitava.

Quella sera stessa, scoprii che Mušič era stato artista sloveno e che l’opera su cui il mio interesse si era soffermato aveva titolo Dachau.

Tuttavia, soddisfatta l’iniziale curiositas, un pungolo insistente continuava a picchiettare i miei pensieri, benché non riuscissi a focalizzare con precisione la causa di quella sgradevole sensazione.

Soltanto riguardando la scadente fotografia furtivamente scattata al mattino, mi accorsi che l’autore del disegno aveva assaporato la libertà grazie all’arte, pur essendo all’interno di un campo di concentramento e in balìa delle sadiche Schutzstaffel.

Ebbi una momentanea epifania, riuscendo, per il breve lasso di un istante, ad intravedere la luce di speranza che consentì a Mušič di restare in vita tra le tenebre di una delle pagine più vergognose della Storia. Ne scaturì una sensazione di profonda riconoscenza nei confronti dei valori universali trasmessi dalle arti e dalle lettere alle generazioni umane di ogni tempo e latitudine.

La medesima impressione mi si è riproposta al termine della lettura del volumetto dedicato alla figura di Michel Fingesten curato da Teresina Ciliberti, direttrice del Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia, per le Edizioni Expressiva. 

Con ampia documentazione e gradevolissimo apparato iconografico, ci viene offerto un florilegio di testi ‒ differenti nella sostanza e nella sensibilità, ma coerenti nella struttura generale dell’opera ‒ che ricostruiscono la vicenda biografica e artistica di un uomo poliedrico che, pur nelle ristrettezze dei tempi e negli inevitabili disagi del regime concentrazionario al quale era sottoposto, riuscì a costruire un proprio universo artistico, lasciando una significativa testimonianza di cultura e spiritualità.

Nato nella Slesia austroungarica, dopo un lungo e avventuroso peregrinare per il mondo, Fingesten maturò in Germania visioni e capacità tecniche che lo condussero ben presto a far parte del gotha artistico degli anni Trenta del Novecento.

Costretto ad emigrare a causa delle sue origini ebraiche, si trasferì a Milano (1935) iniziando un percorso creativo particolarmente prolifico che approderà alla produzione di ex libris ‒ ricercatissimi dai collezionisti ‒ a cui Fingesten riuscì a conferire dignità e autonomia artistica.

La molteplicità dei temi e la duttilità delle forme sfociarono nel fantasioso mondo del grottesco e ciò innescò l’azione della mannaia censoria fascista che ricadde pesantemente sul capo di Fingesten sotto forma di bizzarra accusa di «arte degenerata». Ne conseguì l’arresto e l’internamento a Civitella del Tronto (9 ottobre 1940) e a Ferramonti di Tarsia (13 novembre 1941).

Proprio durante la prigionia calabrese ‒ lontana e diversa dalle mostruosità della Dachau di Mušič ‒, l’artista visse uno dei periodi più fecondi, compensando la mancanza di libertà con la fedele devozione verso il disegno e i colori e rinvigorendo lo spirito con affollate lezioni di pittura e un senile quanto commovente invaghimento nei confronti di una giovane internata ungherese.

La morte lo colse l’8 ottobre 1943 in seguito ad una infezione postoperatoria. Il suo corpo fu affidato alla terra nel cimitero di Cerisano, in quella Calabria più volte magnificata dall’artista e scelta come dimora per i venturi tempi di pace. 

Come Mušič, anche Fingesten trovò nella produzione artistica la via maestra per costruire la libertà dietro le sbarre, in un contesto in cui persino i piccoli oggetti quotidiani divennero faticosa conquista per tentare di immaginare un domani migliore e soddisfare, al contempo, un imperioso desiderio di memoria e comunicazione. Il pittore sloveno provò in cuor suo segreto diletto nell’aver trovato frammenti di vietatissima carta nell’inferno di Dachau. Ci piace immaginare che la stessa ebbrezza animò Fingesten quando affidò ad un milite le poche lire in suo possesso, affinché acquistasse per lui qualche tubetto di colore.

La scarsità dei mezzi ‒ o forse la semplice sciatteria del soldato ‒ si tradusse in un pigmento verdognolo con cui l’artista dipinse due vigorosi cavalli impegnati nel gioco, simbolo di un’energia scalpitante liberata dalle speranze di un vecchio carico di esperienze e ancor fiducioso nel futuro.

Può darsi che l’arte abbia in sé qualche seme divino o, molto più banalmente, è probabile che uomini posti in simili condizioni reagiscano con medesime emozioni. Ciò non è dato sapere, ma storie come quelle di Fingesten e Mušič son degne di esser rivissute, affinché la memoria indirizzi il nostro agire verso strade meno errate.

Spixana (Spezzano Albanese), 28/03/2023

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009) 

domenica 19 marzo 2023

SCARPE, FOTO, PENNELLI E COSE ULTIME

 di

Ettore Marino

Un mio amico, che ha nome di Giorgio Godino, mi mostrò un giorno alcune foto. Ritraevano un paio di scarpe da lavoro della più che nonagenaria sua madre Lauretta, confezionate per lei dal maestro calzolaio Vincenzo Candreva di Vaccarizzo Albanese in sul finire degli anni Sessanta. Intendendo esporle su Facebook, Giorgio mi chiese che le corredassi di una nota esplicativa. Se ne nacque qualcosa di più di una semplice nota, fu perché, oltre all’amor filiale e alla chiara finalità comunicativa, l’intento suo contemplava una precisa finalità espressiva: aveva egli ritratto quello e non un altro oggetto, e lo aveva ritratto in quel modo, immediato e violento, e non in altri. Fatalità poi volle che un assai più famoso paio di calzature, non già fotografato ma dipinto, avesse funto da stimolo a riflessioni ben più puntute e ghiotte di ogni mia possibile, sì da forzarmi a sposare il mio ruscelletto alle loro acque poderose. 

Vincent van Gogh dipinse più volte scarpe assai vissute. A uno di questi suoi quadri Martin Heidegger dedicò una conferenza, poi sviluppata e raccolta in Sentieri interrotti (titolo originale Holzwege, 1950). Sfilzerò al massimo, sperando di non involgarire. L’essenza di ogni manufatto giace nel suo essere-mezzo: una penna serve per scrivere, un maglione serve a proteggerci dal freddo, e così via. Appunto, servono e, finché funzionano, nulla ci chiediamo di essi. Circa ogni strumento ci poniamo domande, e otteniamo risposte, proprio cessando di viverlo come strumento. Altro sono le scarpe, altro un quadro che le rappresenti. La verità dell’esser scarpa della scarpa è proprio il quadro a schiuderla. Non mimèsi, non fabrilità, ma, appunto, aspirazione della verità a farsi opera. Heidegger scrive: “Nell’orificio oscuro dell’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e del turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. [...] Ma forse tutto ciò non lo vediamo che noi nel quadro. La contadina, invece, porta semplicemente le sue scarpe.” (L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, 1968.) Ci importi solo quanto segue: la verità del manufatto è svelata e dischiusa dal quadro. 

Non la pensava così Meyer Schapiro, che contro Heidegger sostenne (La natura morta come oggetto personale, 1968) essere quelle ritratte non già scarpe da contadino, ma scarpe di van Gogh stesso, uomo di città, che le avrebbe dipinte come una parte importante di sé, specchiandosi in esse. Non la verità della cosa, ma quella dell’autore fiorirebbe dal quadro e nel quadro. Soggetto contro Oggetto e vice versa, dunque: uragano più vasto dell’articolo cui devo limitarmi.

Che non può chiudersi così, poiché nel 1978, in La vérité en peinture, Jacques Derrida ripigliò il filo della disputa, complicandola di ricchezze destinate anche qui a venire taciute. Dirò solo una cosa. Decostruire è per Derrida tutt’altro che distruggere. Quando parla del demoltiplicarsi della cornice protocollare, o quando chiama il parergon (ciò che sta accanto all’opera) “accessorio che si è forzati ad accogliere sul bordo e a bordo”, poiché esso è “né solo fuori né solo dentro” (traduzione mia, qui e sotto), intende egli fluidificare due confini: quello che isola il quadro; quello che separa la lingua del pittore da quella dello scrittore. Quanto alle scarpe del quadro, Derrida dedica loro un “polilogo”, cioè un rincorrersi di voci intitolato Restitutions. A una di esse fa dire: “Semplicemente, queste scarpe non appartengono, non sono né presenti né assenti, ci sono delle scarpe, punto e basta.” Le voci séguitano però a prodursi in un discorso che s’assottiglierà senza chiudersi mai. 

A chi mi chiedesse la mia, dirò che nulla a me rileva se le scarpe dipinte abbian premuto solchi o acciottolati urbani; che lo prèdico di ogni referente, individuato o meno; che l’anima dell’autore può parlarmi e mi parla solo in quanto diventata opera; che ciò vale anche per il critico, opera essendo il suo lavoro. Solidale e nient’altro di più al referente e all’autore, l’opera sola ci arricchisce; e la arricchiamo (o impoveriamo) a nostra volta giusta le irritazioni i valori i saperi le sbarre dell’anima nostra. Quanto all’istanza derridiana di fluidificare i confini dei territori real-mentali irrigiditi in coppie inadeguatamente antinomiche, balbetterò che la nebbia e una piccola sfera d’acciaio (l’amorfo e la forma, il ribollio e l’identità) sono gli estremi tra i quali si gioca ogni gioco, e tutti i giochi convergono in uno e tornano a divergerne, e giocare si deve, come di fatto gioca ognuno, e il frutteto è uno a tutti, una a tutti la siepe. Non la varchi. L’Oltre irrompe se vuole. L’Oltre è irruzione che non scegli: che è vano perfino invocare.

Ogni frammento di realtà riconduce, indagato, alle cose ultime. Fotografate e ostense, le scarpe che il maestro Candreva fornì alla signora Godino un giorno ignoto e lontanissimo ce ne hanno appena offerto un assai grato esempio.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 19/ III/2023

 

Nota biobibliografica

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni ilfilorosso, una sua raccolta di liriche intitolata Patibolo; che nel 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con Terre Letterarie come lo è di farlo con L’Eco dello Jonio e con Le nuove ere; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.