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lunedì 31 agosto 2020

LA LEZIONE DI RASMUSSEN


 di
Mario Gaudio

Sebbene passato a miglior vita nel 2009, l’etnologo Holger Rasmussen (classe 1915) continua ad offrirci una lezione importantissima: una visione schietta e oggettiva della realtà del Meridione.
Paesi e campagne del Sud
di Holger Rasmussen
Lo studioso danese, visitando a più riprese la Calabria e la Basilicata nel biennio 1953-1955, ci ha lasciato un quadro estremamente significativo delle condizioni di vita delle popolazioni locali, raccontando situazioni – vagliate scientificamente e scevre da qualsivoglia condizionamento politico o ideologico – la cui rilettura polverizzerebbe all’istante due fastidiose forme di meridionalismo contemporaneo: quello neoborbonico e commerciale di Pino Aprile, basato su una esposizione acritica e non obiettiva dei fatti storici; quello ideale ed inefficace di Franco Arminio che, per quanto espresso in uno stile gradevolissimo, pecca di ingenuità, additando la poesia come unica soluzione per l’eventuale resurrezione dei nostri borghi ed ignorando incautamente l’endemica carenza di strutture ed infrastrutture su cui il buon senso consiglierebbe di agire. 
L'etnologo Holger Rasmussen
(1915-2009)
Rasmussen ci insegna cosa è stato il Meridione pochi decenni addietro e porta avanti la sua competente narrazione attraverso lo sguardo acuto del ricercatore e l’animo stupito del viandante.
Paesi e campagne del Sud ci dona uno spaccato di vita quotidiana fatto di immensi sacrifici compiuti da gente silenziosa e tenace, ignorata dalle istituzioni, incapace di concepire una visione di mondo al di là dei confini del paesello natio e costretta a legare il proprio destino alla terra e al duro e incerto lavoro dei campi.
Tra le pagine si susseguono scene di solidarietà nate dalla necessità: il forno comune diventa non solo strumento di panificazione, ma anche di amicizia; il comparaggio rituale – simboleggiato dallo scambio di un bambolotto (Puleju nel dialetto di Sartano, località presso cui l’etnologo registra tale cerimonia) costruito con erba e ricoperto di cenci ‒ si trasforma in impegno di vicinanza e di reciproca assistenza; l’utilizzo di un’unica aia per la battitura delle spighe diviene una sorta di festa rusticana.
Tuttavia, oltre questi legami, regna la miseria: mulattiere pietrose e dissestate, condizioni igienico-sanitarie spaventose, analfabetismo, superstizione e pregiudizio.
Abitazione rurale a Sartano (Cs)
Difficili da metabolizzare sono le descrizioni dei Sassi di Matera – all’epoca non certo Capitale Europea della Cultura – e delle famiglie ammassate all’interno di ambienti malsani adibiti al contempo ad abitazione e stalla.
Rasmussen fa riflettere. Ci conduce in un mondo che, fortunatamente, non c’è più, ma di cui qualcuno sente stranamente nostalgia e qualche altro pensa addirittura di riproporre come antidoto contro l’imperante tecnologia pur sapendo che le regressioni, nell’inarrestabile corso storico, non hanno partorito mai nulla di positivo.
Paesi e campagne del Sud è un libro che fa male, poiché ci costringe a guardare una realtà priva di filtri, tratteggiata in maniera verista ‒ ovviamente senza nessuna velleità letteraria –, le cui tracce sono tuttora visibili tanto nel paesaggio quanto nella rassegnazione serpeggiante negli occhi della gente.
Focolare senza canna fumaria a
San Martino di Finita (Cs)
L’ascoltare in pubblici consessi le sempre più avvelenate invettive contro l’Unità d’Italia, l’antistorica esaltazione del malgoverno borbonico e la santificazione delle masnade brigantesche ‒ trasformatesi, senza alcun criterio razionale, da torme di pericolosi criminali armati in truppe patriottiche di combattenti per un non meglio precisato concetto di libertà ‒ è diventato ormai un fenomeno frequente, ma ciò equivale al negare spregiudicatamente le testimonianze di Rasmussen e dei tanti viaggiatori (Henry Swinburne, Alexandre Dumas, Horace de Rilliet, Norman Douglas) ‒ che, a differenza degli storici, non possono certo essere ritenuti di parte ‒ i cui scritti hanno impietosamente fotografato l’arretratezza del Mezzogiorno.
Pertanto, per buona pace di quanti abbracciano raffazzonati meridionalismi, Paesi e campagne del Sud può essere un ottimo punto di partenza per acquisire la consapevolezza necessaria ad identificare con onestà intellettuale e coraggio i veri obiettivi da raggiungere per superare l’annosa “questione meridionale”.
La Storia ci insegna che, al di là dello sventolìo di bandiere e stemmi, i territori si valorizzano con cultura, legalità, investimenti ed infrastrutture: facciamone tesoro!

Spezzano Albanese (Spixana), 31/08/2020

giovedì 27 agosto 2020

LA TRAGEDIA DELL'ONCLE JOSEPH: VICENDE STORICHE E RISVOLTI LETTERARI


 di
Mario Gaudio

I fenomeni migratori hanno da sempre caratterizzato la storia dell’umanità consentendo, di fatto, la sopravvivenza di molti popoli e la mistione di culture e tradizioni differenti. Tuttavia, ci furono momenti storici e aree geografiche in cui gli spostamenti si verificarono con maggiore intensità e riguardarono numeri alquanto significativi dal punto di vista statistico.
Nel periodo preunitario, ad esempio, gli italiani − notoriamente “santi, poeti e navigatori” − furono interessati da movimenti migratori intensi che crebbero in misura esponenziale dopo l’unificazione nazionale del 1861. In un primo momento, le rotte predilette furono quelle mediterranee (non è un caso che «[…] sino al 1871, l’italiano era una delle lingue usate ufficialmente dalle poste egiziane»)[1] ma, ben presto, i nostri connazionali mutarono radicalmente indirizzo preferendo le nazioni europee (in particolare la Francia) e, a partire dal 1880, le ambite terre di Argentina, Brasile e Stati Uniti.
Guida per gli emigranti italiani
diretti in Brasile
Se l’emigrazione fu, assieme alla colonizzazione delle lontane terre d’Africa, una possente valvola di sfogo per il malumore serpeggiante tra le masse contadine meridionali, essa rappresentò, allo stesso tempo, la causa di gravissimi incidenti in cui persero la vita torme di malfamati in cerca di un futuro migliore. Uno dei più catastrofici e poco conosciuti sinistri marittimi si verificò nel 1880 nelle acque del golfo de La Spezia.
Nonostante le sommarie − e spesso fantasiose − versioni che circolarono sin da principio,[2] la consultazione di documenti originali dell’epoca ci consente una ricostruzione attendibile dei fatti capace di far emergere tutta la drammaticità dell’evento.
Alle tre del mattino del 24 novembre, tra l’Isola del Tino e quella di Palmaria, la prua del bastimento italiano Ortigia colpì violentemente la fiancata della nave francese Oncle Joseph squarciandola in due tronconi e provocandone l’affondamento in meno di otto minuti.
Subito dopo l’urto, la stiva fu invasa dall’acqua e l’immenso vuoto, causato dall’inabissamento del piroscafo speronato, trascinò con sé 229 passeggeri e 10 membri dell’equipaggio.[3]
La notizia della sciagura fu immediatamente annunziata da un telegramma dell’Agenzia Stefani[4] suscitando profondo cordoglio sull’intero territorio nazionale.
I primi soccorsi furono prestati dai marinai dell’Ortigia che calarono in mare le scialuppe e lanciarono salvagenti rimanendo per diverse ore sul luogo dell’incidente. A tal proposito, il capitano Stefano Paratore, comandante del bastimento, ebbe modo di dichiarare: «Abbiamo salvato il maggior numero di persone possibile, dopo un’ora non abbiamo sentito più gridare, abbiamo continuato a remare per vedere se c’erano altri sopravvissuti. Siamo rimasti sul posto per quattro ore. L’Ortigia aveva tutte le luci accese, mentre l’Oncle Joseph aveva solo la sua luce bianca sull’albero».[5]
Subito dopo, il piroscafo italiano, alquanto malconcio, fece rotta verso Livorno dove, immesso nel bacino di carenaggio del cantiere Orlando, ricevette le opportune riparazioni.
Una rappresentazione della tragedia
dell'Oncle Joseph
L’inchiesta giudiziaria, che si aprì poche ore dopo l’incidente, rese noti interessanti dettagli per la ricostruzione della vicenda. Si accertò che l’Oncle Joseph, di proprietà della compagnia transalpina Valery, aveva iniziato il suo viaggio da Napoli e, dopo brevi soste in alcuni porti del settentrione, avrebbe dovuto far scalo a Genova, per poi oltrepassare lo Stretto di Gibilterra e affrontare la traversata dell’Atlantico sino a Buenos Aires. Il bastimento trasportava un carico di circa 800 tonnellate di mercanzie, 264 passeggeri e 33 uomini d’equipaggio.[6] I viaggiatori erano quasi tutti meridionali – in gran parte calabresi e molisani – che avevano deciso di lasciare le terre natie in cerca di fortuna. Al rovinoso incidente sopravvissero soltanto 35 emigranti e 23 marinai, mentre tra le vittime ci furono anche il capitano Lacombe, alcuni uomini che erano stati in servizio su un mercantile e che cercavano di raggiungere Genova per recarsi da lì ai propri paesi, un gruppo di marinai austriaci che rimpatriavano e 8 emigranti arbëreshë provenienti da Spezzano Albanese.[7]
La storia dell’Ortigia merita, invece, una trattazione sicuramente più approfondita. La nave, battente bandiera italiana, apparteneva alla compagnia di navigazione siciliana Florio[8] e, sin dal suo varo, aveva provocato non pochi problemi. Costruita a Livorno, presso i cantieri di Luigi Orlando, per conto della società “La Trinacria” di Palermo, fu completata nel 1873 e, immediatamente, i committenti dichiararono bancarotta. Il piroscafo, con le sue 1854 tonnellate di stazza, fu noleggiato pertanto dalla Florio e si rese protagonista di tutta una serie di incidenti sia in fase di navigazione che di manovra portuale.[9]
Il 24 novembre 1880 l’Ortigia, salpata da Genova e diretta a Napoli con uno scalo intermedio a Livorno, incontrò tragicamente sulla propria rotta l’Oncle Joseph provocando, sebbene le condizioni del mare fossero abbastanza buone,[10] la fatale collisione. Al comando del bastimento italiano vi era il capitano Stefano Paratore e con lui viaggiavano 43 membri dell’equipaggio e 36 passeggeri rimasti tutti illesi dopo l’incidente.
Tuttavia, il destino infausto dell’Ortigia si sarebbe manifestato anche in altre drammatiche circostanze: nel 1885 la nave si scontrò con il battello francese Martignan con un bilancio di 12 morti; nel 1890 l’incidente avvenne con un bastimento norvegese e i morti furono 5; il 21 luglio 1895, ancora una volta nel golfo de La Spezia, il piroscafo fece affondare – in appena tre minuti – la Maria P. uccidendo 144 persone.[11]
Insomma, sebbene dopo ogni sinistro la compagnia Florio provvedesse a cambiare il comandante e l’intero equipaggio, la scia dei morti seminati in mare dall’Ortigia diventava sempre più consistente, tanto da far circolare, tra i marinai più superstiziosi, l’idea che una oscura maledizione gravasse sul bastimento.
Logo della Compagnia di
Navigazione
Florio - Rubattino
La vicenda giudiziaria, relativa alle responsabilità dell’affondamento dell’Oncle Joseph, si concretizzò in una serie di scontri tra i tribunali italiani e quelli francesi circa la giurisdizione di competenza, dando origine addirittura ad un apposito studio di giurisprudenza marittima condensato nel volume di Giulio Cesare Buzzati intitolato L’urto di navi in mare: studio di diritto internazionale privato.[12]
Senza inoltrarci nel ginepraio di sentenze, ricorsi, accuse e risarcimenti si può cercare di sintetizzare l’accaduto attraverso le testimonianze del capitano in seconda dell’Oncle Joseph (Felice Perricchi) e del nostromo Renucci, entrambi sopravvissuti alla sciagura. Quest’ultimo, in una intervista, «accusò la nave Ortigia di non aver segnalato con il colore rosso delle luci convenzionali la posizione e il pericolo imminente, in conformità dei regolamenti internazionali vigenti».[13]
Un caso molto singolare riguardò uno dei superstiti del naufragio che fu ripescato in mare dopo circa 52 ore. Il piroscafo Marie Louise, della compagnia Fraissinet, proveniente da Marsiglia, giunto nei pressi di Capo Noli rinvenne una serie di oggetti che, trasportati dalla corrente, galleggiavano sulle onde. Il capitano Parangue diede l’ordine di effettuare una ricognizione e, aggrappato ad una tavola, fu notato un individuo di probabile nazionalità polacca che, portato a bordo, raccontò di essere scampato all’affondamento dell’Oncle Joseph.[14]
Il disastro marittimo impressionò particolarmente l’opinione pubblica italiana che, forse anche a causa di queste morti, iniziò a prendere coscienza del doloroso tema dell’emigrazione. Non a caso, a distanza di mesi, si organizzarono iniziative a sostegno dei sopravvissuti e delle famiglie degli annegati. Tra queste lodevoli manifestazioni meritano di essere ricordate almeno la costituzione del comitato livornese (che raccolse e donò agli sventurati dei sussidi dell’ordine di diverse migliaia di lire)[15] e una rappresentazione di beneficenza del Trovatore − presso il teatro Costanzi di Roma − a cui parteciparono il tenore Rossetti, il baritono Ciolli, il basso Fagiuoli e l’orchestra del teatro Apollo.[16]
La sciagura marittima non lasciò indifferente neppure il mondo della cultura e, in proposito, l’umanista e poligrafo don Ferdinando Guaglianone (1843-1927), originario di Spezzano Albanese, ne fece motivo di canto poetico in un componimento intitolato I naufraghi dell’Oncle Joseph, pubblicato a Napoli nel 1881.
In 221 versi (endecasillabi e settenari), carichi di pathos e di abilità metrica, il letterato condensa il sinistro marittimo – nel quale, come accennavamo, trovarono la morte otto suoi compaesani – attraverso la giustapposizione di una serie di piccoli quadri poetici. Il percorso inizia con l’appello che l’autore rivolge ad un non meglio identificato amico, affinché non si lasci corrompere dalla «funesta sete» dell’oro e dal desiderio di espatriare. Seguono la descrizione delle speranze e dei desideri di fortuna e di ritorno dei poveri emigranti e l’elogio di Napoli − «incantevol città delle sirene» − che non riuscì a trattenere, con la bellezza dei paesaggi e la mitezza del suo clima, quegli sventurati che di lì a breve si sarebbero imbarcati per il loro ultimo viaggio.
Guaglianone prosegue riportando i reciproci giuramenti di sostegno e amicizia tra i passeggeri e cantando la malinconia serale capace di attanagliare il cuore, richiamare alla mente il tetto paterno e cancellare, d’un tratto, la baldanza del giorno della partenza. Quasi con una sorta di climax tematico, vibrante di tensione, si passa al racconto dell’urto fatale e del conseguente affondamento.
Don Ferdinando Guaglianone
(1843-1927)
Il tutto è reso ancora più drammatico dalla vicenda di due ragazzi, congiunti in matrimonio poco prima di salpare dalla città partenopea, che trovarono la morte nelle acque liguri. Struggenti e delicati sono i versi con cui il poeta canta lo sforzo titanico del giovane marito che tenta – invano − di strappare alle onde la sua consorte: «[…] Né un astro benigno / Rischiarò le tue lotte, / Avvolte già dalla funerea notte, / Onde, o sposo infelice, al mar cercavi / Strappare al mar colei che un santo giuro / Di Dio presso all’altare / Testé rendeati invidïata sposa. / Invan per lei, per te lottasti, e il mare / Ambo inghiottì […]». [17]
È doveroso, a questo punto, formulare alcune considerazioni critiche. In primis si può agilmente notare la struttura circolare del componimento: Guaglianone inizia col distogliere l’amico dall’idea della partenza e termina, praticamente, allo stesso modo. Compie quasi una sorta di paesana Odissea tematica in chiave negativa: dal borgo natio (Spezzano Albanese/Itaca) si prospettano le seduzioni e i pericoli del viaggio (una peregrinatio mortale, a differenza di quella di Ulisse), affinché si eviti un’avventura destinata a condurre allo stesso luogo della partenza (gli emigranti promettono il ritorno al tetto paterno dopo essersi arricchiti e, del resto, anche Odisseo, dopo venti lunghi anni di guerre e avventure, e dopo aver acquisito molteplici esperienze, si ritrova sulla sua petrosa isola, nel luogo in cui tutto ebbe inizio).
In secundis emerge con chiarezza la visione reazionaria che accompagnò Guaglianone per tutta la vita. In effetti, lo scrittore non riesce a giustificare il fenomeno migratorio come frutto della necessità e del malessere, ma lo collega all’avidità e al desiderio insano di ricchezze. Ne consegue anche una ristrettezza di mentalità – strana per un uomo vissuto per diversi anni nella vivacità dell’ambiente napoletano − che impedisce all’autore di comprendere i benefici di “ritorno” delle migrazioni, ovvero il flusso delle rimesse, provenienti dall’estero, che favorirono efficacemente l’economia nazionale.
In terzo luogo è da rilevare nei versi de I naufraghi dell’Oncle Joseph un atteggiamento di querulo sentimentalismo – concentrato, in particolar modo, su un attaccamento quasi patologico nei confronti della figura materna − che troverà il suo apogeo nel pessimismo e nella tristezza delle pagine di Cari e mesti ricordi!, opera licenziata nel 1890.
In ultima analisi, la tragedia di questo “Titanic dei poveri” trovò giusta risonanza nei versi del Guaglianone, ma l’estrema sensibilità dell’autore e il suo distacco dalla realtà impedirono al poemetto di raggiungere mete indubbiamente più meritorie.

In memoria di coloro che perirono nel disastro dell’Oncle Joseph


[1] Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Longanesi – Il Giornale, Milano, 1998, p. 137.
[2] A tal proposito è bene ricordare che non mancarono maldestre ipotesi – non suffragate da prove – che collocarono l’affondamento dell’Oncle Joseph presso il porto di Siracusa o, addirittura, al largo della costa argentina (in quest’ultimo caso, l’incidente sarebbe stato provocato dallo speronamento di una nave mercantile avvenuto il 24 agosto 1880).
[3] I numeri della sciagura sono riportati in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, venerdì 26 novembre 1880, p. 5057.
[4] Il dispaccio dell’agenzia di stampa è riportato in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 281, giovedì 25 novembre 1880, p. 5042.
[5] La testimonianza dell’ufficiale è reperibile in Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita, in “Primo Piano Molise”, XIX/63, 5 marzo 2018, p. 7.
[6] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, op. cit., p. 5057.
[7] A mo’ di postumo tributo della memoria verso gli sventurati naufraghi dell’Oncle Joseph, riportiamo un elenco (purtroppo incompleto) dei principali dati relativi ai passeggeri sopravvissuti: Anastasio Raffaello, anni 30 (da Casinone, Melia); D’Ambrogio Domenico, anni 25 (da Napoli); Del Vecchio Angelo, anni 44 (da Castelnuovo, Salerno); Di Franco Ferdinando, anni 17 (da Laino, Cosenza); Di Franco Saverio, anni 30 (da Laino, Cosenza); Di Lello Domenico, anni 45 (da Villa Santa Maria, Chieti); Gersoma Maria Santa, anni 2 (da Laino, Cosenza); Giacinto Gelsomino, anni 21 (da Campobasso); Mangini Sabatino (da Pescala, Campobasso); Mariano Isidoro, anni 30 (da Ajello, Cosenza); Marsarano Giovanni, anni 24 (da Isetto, Calabria);  Murano Vincenzo, anni 61 (da Castellabate, Potenza); Pescali Vincenzo, anni 28 (da Pescolanciano, Campobasso); Ricci Giuseppe, anni 25 (da Civitanova, Isernia); Rispoli Maria, anni 28 (da Trecina, Basilicata); Rosai Angelo, anni 24 (da Delsiano); Santa-Capita Raffaello, anni 22 (da Carpinone, Isernia); Tirosano Bonaventura, anni 34, sacerdote (da Cava, Salerno); Verberaro Francesco, anni 23 (da Laino, Cosenza); Verberaro Vincenzo, anni 21 (da Laino, Cosenza).
Le suddette informazioni, sebbene parziali, possono essere consultate sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 283, sabato 27 novembre 1880, pp. 5087-5088.
[8] Indispensabile per ricostruire la storia della potente famiglia Florio il volume di Orazio Cancila, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale siciliana, Bompiani, Milano, 2008.
[9] Per un approfondimento si consiglia la lettura del saggio Ortigia un vapore con la rogna di G. Mirto ed E. Cappelletti disponibile sul sito www.verdeisland.it [Ultima consultazione del 4/7/2018].
[10] La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, op. cit., p. 5058 riporta, in proposito, la seguente considerazione: «Quando è avvenuta la collisione il mare era quasi calmo, l’aria piuttosto fosca».
[11] Cfr. Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita, op. cit., p. 7.
[12] Giulio Cesare Buzzati, L’urto di navi in mare: studio di diritto internazionale privato, Drucker e Senigaglia, Padova, 1889.
[13] Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita, op. cit., p. 7.
[14] La vicenda del salvataggio è raccontata, con toni concitati, sulle colonne della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 284, lunedì 29 novembre 1880, p. 5106.
[15] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 124, sabato 28 maggio 1881, p. 2217.
[16] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 304, giovedì 23 dicembre 1880, p. 5515.
[17] Ferdinando Guaglianone, I naufraghi dell’Oncle Joseph, Tipografia dell’Accademia Reale delle Scienze, Napoli, 1881, p. 9.

mercoledì 12 agosto 2020

NOTE SU UN POEMA INCOMPIUTO DI ANTONIO ARGONDIZZA


 di
Mario Gaudio

Antonio Argondizza (San Giorgio Albanese 1839-1918) vanta una produzione letteraria tanto ampia quanto disorganica.
La sua solida formazione umanistica ‒ maturata a San Demetrio Corone presso il noto Collegio di Sant’Adriano ‒ si frange e si sparge in numerose operette spesso affidate a semplici fogli spiegazzati o a disordinate pubblicazioni che, oltre ad aver ingiustamente sminuito il valore dell’autore, hanno reso estremamente difficoltoso il lavoro di collazione degli scritti.
Tutto ciò trova fondamento in un animo travagliato, perennemente polemico, incapace di trovar requie persino dinanzi alle innumerevoli miglia percorse durante avventurosi viaggi in Spagna, Francia, Albania e Montenegro.
Argondizza, sacerdote di rito bizantino, profondo conoscitore della lingua albanese e acerrimo nemico del socialismo e della massoneria, compone ‒ in una data sicuramente antecedente al 1897, dal momento che egli stesso ne fa cenno nella quarta di copertina del saggio Volere è potere risalente proprio a questo periodo ‒ il primo canto di un poemetto incompiuto intitolato La massoneide, i cui 353 versi iniziali furono rinvenuti anni addietro dallo studioso Giovanni Laviola.
L’opera, sebbene non portata a conclusione per motivi che, ovviamente, non possono essere determinati, presenta spunti interessanti e ci consente di comprendere con chiarezza alcuni aspetti dello spirito marcatamente conservatore del suo autore.
L’invocazione iniziale è rivolta a Cristo ‒ «O Figlio di Colui, che spazio e tempo / di Se, misticamente, empie e ricolma» (vv. 1-2) ‒, affinché ispiri un efficace verbo «che sia veneno all’aspide insidiosa» (v. 6). 
Antonio Argondizza
(1839-1918)
Segue la protasi che racchiude brevemente l’argomento del poema identificandolo con la diffusione di una demonizzata massoneria in Italia in generale e a Roma in particolare: «Il santo loco, / che fu da Te più prediletto, dove / piantasti il seggio del tuo Regno in terra, / che il sangue dei Tuoi Martiri divino / innaffiò, profumò, sede si elesse / l’Oste infernale» (vv. 10-15).
Qualche verso dopo è presentato il protagonista: si tratta di Ernesto, un giovane «ch’entrava baldanzoso al quinto lustro» (v. 31), che se ne sta seduto nello scompartimento di seconda classe di un rumoroso treno diretto a Parigi.
Mentre la locomotiva ‒ «mostro dai piè di ferro e sen di foco» (v. 80) ‒ viaggia a velocità sempre più sostenuta, il paesaggio scorre dai finestrini in tutta la sua varietà, diventando quasi metafora dell’esistenza umana: «Di nostra vita immagine fedele / così varia di scene or tristi, or gaie / pel passeggier, che guata, ammira e passa, / e lascia ad altri il rivederle» (vv. 41-44).
Durante le varie soste, si consumano momenti di caotica indifferenza che, quantunque descritti da un autore ottocentesco, appaiono di un realismo e di una modernità impressionante, capaci di cristallizzare nel verso poetico ciò che accade quotidianamente nelle stazioni ferroviarie e negli scali altrettanto affollati delle nostre anime: «[…] e chi discende / e chi sale, solleciti, affannati, / si scontran, s’urtan, muti, indifferenti, / quasi estrani di sangue e di favella, / e di Patria e di Fede» (vv. 84-88).
Ernesto, nel frattempo, ripensa tra le lacrime al distacco dalla madre e dalla sorella Elvira e pregusta i «[…] novelli studi, / che l’aspetta lassù, sopra le sponde / fiorite della Senna» (vv. 110-112) ma, ad un tratto, l’incantesimo si rompe e «sogni di gloria, d’oro e di dominio / gl’ingombrano la mente affascinata» (vv. 114-115).
Argondizza ‒ forse rievocando il ricordo del Collegio di Sant’Adriano che aveva covato per anni spiriti rivoluzionari formando patrioti e massoni, tanto da essere definito dallo sprezzante Ferdinando II di Borbone «una fucina di diavoli» ‒ attribuisce la causa delle ambizioni del giovane Ernesto ai maestri del Ginnasio che, «falsi sofi» (v. 137) «d’anime svenatori» (v. 141), agiscono tanto più subdolamente «del masnadier, che, truce, la sua vita / contro la vita altrui mette in periglio» (vv. 142-143) dacché, incolumi e pagati per le loro funzioni, allontanano dai valori gli studenti affidati corrompendoli con il veleno del libero pensiero: «L’anima trucidate all’infelice, / che a voi s’affida, e che da voi s’aspetta / della sapienza la bevanda e il pane. / Voi strappate dal cor dell’innocenza / l’immagine di Dio, sostegno e vita / dell’umana natura… ed in sua vece / sostituite Satana, ed il nulla!» (vv. 145-151).
Il protagonista continua ad essere impegnato nelle sue meditazioni sulla ricchezza ‒ «È l’oro il solo dio! Il dio che infiora / d’ogni felicità la vita umana» (vv. 199-200) ‒ e sul potere ‒ «[…] l’imperio / è la legge del forte, ed ogni forza / viene dal biondo dio, ch’oro si appella» (vv. 204-206) ‒ da esercitare sul «pecorume di popolo» (v. 204) ricercando costantemente la soddisfazione dei bisogni terreni ‒ «[…] Quale pro germoglia / all’estinto la gloria? La carogna, / che pute verminosa, avverte forse / la voluttà, che dalla gloria nasce?» (vv. 208-211) ‒ a discapito di ogni esaltazione della virtù e del concetto di esistenza oltremondana («Fantasma è la virtù, fantasma inane, / che impera agl’intelletti ottusi e scuri / col gran fantasma di futura vita. / Vita, che sopravvivi oltre la tomba!... / Che melensa promessa!», vv. 215-219). 
Il Collegio italo-albanese di San Demetrio
Corone in una cartolina d'epoca
Improvvisamente appare nel vagone un nuovo personaggio: un uomo dall’aspetto misterioso e inquietante il cui ingresso è accompagnato da una serie di strani segni («Il cigolio delle freganti rote / parea lamento d’anima morente; / l’aere gemeva in tono rauco e strano, / e il tubo della macchina sbruffava / il fumo al ciel, come minaccia», vv. 245-249).
Lo sconosciuto tenta Ernesto con strani discorsi inducendolo ad offrire culto all’essere infernale. Tuttavia, il giovane, colto da terrore per l’improvvisa sparizione dell’oscuro passeggero, invoca la Madonna e salta giù dal treno appena giunto a destinazione.
Qui il poemetto di Argondizza si interrompe bruscamente, non consentendoci di formulare una oggettiva valutazione di merito. Ciononostante, la gradevole architettura poetica e la presenza di reminiscenze dantesche, di riferimenti all’Inno a Satana del Carducci e alla canzone All’Italia di Leopardi ci inducono a riflettere sul carattere di un’opera che, se portata a termine, sarebbe stata di indiscusso valore.
Insomma, nonostante la frammentarietà della sua produzione, emerge con chiarezza la necessità di una riscoperta e dell’approfondimento di un autore sicuramente non secondario nel variegato panorama d’Arbëria.

Spezzano Albanese (Spixana), 12/08/2020

sabato 8 agosto 2020

"UN PACCO NEL PALAZZO DEI POTERI": TRA LITURGIE E SCOMODE VERITÀ


di
Mario Gaudio

Carmine Loricchio, consigliere decano della Regione Calabria, già protagonista de La rivolta delle pulci (2010), ritorna ‒ bastone stretto saldamente tra le mani e borsalino calcato sulla fronte ‒ nel romanzo Un pacco nel palazzo dei poteri (2014) con una connotazione psicologica ben più definita in grado di far apprezzare maggiormente al lettore i suoi comportamenti astuti e strambi ad un tempo.
Questa volta, il personaggio partorito dalla felice penna di Damiano Guagliardi si trova a dover disinnescare una pericolosa manovra politica finalizzata all’approvazione di un bilancio falsato e alla distribuzione iniqua di ingenti risorse economiche.
L’operazione non sarà semplice a causa di appetiti trasversali, continui cambi di casacca e alleanze improvvisate che travalicano i confini delle tradizionali geografie partitiche, ma accanto all’anziano consigliere ci saranno l’inseparabile Peppe Praticò ‒ noto per la sua esperienza e per i «sostegni alcolici» a cui è costretto a ricorrere per vincere una naturale timidezza e la fastidiosa balbuzie di cui soffre ‒ la giovanissima Katia Buonocore ‒ che, a discapito dell’età, mostra competenza e determinazione ‒ e uno stuolo di collaboratori validissimi nel navigare agilmente tra i fumosi commi ed i codicilli dei testi artatamente costruiti per nascondere il «pacco» sino all’approvazione in aula.
Gli interessi celati dietro questa operazione politica sono numerosi e accomunano uomini cinici e senza scrupoli le cui trame oltrepassano i confini della Calabria e trovano sostegno tra loschi rappresentanti del governo nazionale ed esponenti di poteri finanziari e massonici.
Il Consiglio regionale, noto per la sua «stitichezza legislativa cronica», diviene campo di una serrata battaglia che costringe Loricchio e compagni ad utilizzare tutte le loro abilità tattiche, strategiche e comunicative per svelare l’insulsa recita che si sta consumando tra gli scranni del palazzo dei poteri a discapito dei tanti calabresi onesti che si ritrovano a protestare rumorosamente proprio davanti all’ingresso dell’edificio.
La vicenda si protrae per giorni e, tra colpi di fortuna e geniali intuizioni, si arriva ad una inaspettata conclusione che tira in ballo un misterioso personaggio della tradizione popolare conosciuto con il nome di Monachicchio.
Un pacco nel palazzo dei poteri
di Damiano Guagliardi
Guagliardi, forte della sua pluridecennale esperienza politica, si muove con abilità nella descrizione delle interminabili liturgie di palazzo raccontando, in maniera gradevole, logiche e metodi di difficile comprensione per i non addetti ai lavori.
Senza tema di smentita l’autore narra la spregiudicatezza di alcuni eletti che tradiscono puntualmente il loro mandato sacrificandolo sull’altare dell’interesse personale; delinea l’atteggiamento disinvolto con cui essi tentano di giustificarsi dinanzi alla stampa al fine di carpire nuovamente il consenso elettorale; dipinge l’immagine di politici pronti ad immolare ogni coerenza e moralità attraverso squallide macchinazioni.
Figure come quelle di Luciano Pitoscio e Momo Cardinale, magistralmente tratteggiate da Guagliardi, non possono non richiamare alla mente del lettore appassionato l’ambizioso e scaltro don Consalvo Uzeda, spudorato deputato protagonista de L’Imperio, nato dalla vulcanica creatività dello scrittore Federico De Roberto; così come Carmine Loricchio, dopo aver ristabilito la verità e tentato di riconciliare con un saggio intervento l’ormai sconvolta aula del Consiglio regionale, rammenta molto da vicino ‒ in particolare agli amanti del cinema ‒ il Giovanni Ernani di Viva la libertà (regia di Roberto Andò, 2013) che, spronato dalla convinzione che «[…] l’unica alleanza possibile è quella con la coscienza delle persone», sbalordisce l’uditorio raccontando i mali della politica e giustificando il suo infuocato e realistico intervento con un celebre incipit: «Io sono qui per far sì che domani non si dica: “I tempi erano oscuri perché loro hanno taciuto”».
Le pagine di Guagliardi sono saporose e, benché impregnate dal raffinato cognac di Peppe Praticò e dalle innumerevoli sigarette di Domenico Marchese, profumano di realismo, palpitano di istinti vitali e attrazioni fisiche verso procaci ed intelligenti collaboratrici, stillano coraggio dal momento che non esitano a riportare scomode verità demolendo l’atmosfera patinata dietro la quale, molto spesso, ama rifugiarsi la politica.
I documenti, le cene, i caffè fumanti e le interminabili sessioni d’aula notturne ci introducono in un mondo profondamente diverso da quello che appare durante le interviste televisive o le insopportabili manfrine dei talk show. Guagliardi scoperchia il vaso, racconta con coraggio il lato nascosto del potere offrendocene un ritratto da leggere con attenzione e da interpretare tra le righe.
Del resto, anche la politica ‒ come ogni attività ‒ non ha di per sé natura positiva o negativa: tutto dipende dalle azioni e dalle intenzioni di chi la esercita. Tutto dipende dall’Uomo e il genere umano è catalogabile in due forme geometriche: «[…] le sfere, che cadendo rotolano e si incamminano in qualsiasi direzione, i cubi che quando vanno a terra si fermano e rimangono immobili, passivi».

Spezzano Albanese (Spixana), 8/08/2020





mercoledì 5 agosto 2020

DON FRANCESCO GULLO E IL DISILLUSO CORAGGIO DELLA REALTÀ

di
Mario Gaudio

«Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (“Sono le lacrime delle cose e le cose mortali toccano la mente”). 
Con queste parole Virgilio (Eneide I, 462) condensò in forma poetica il dolore nascosto dietro le vicissitudini del mondo e il subdolo pianto di cui è innegabilmente intrisa la Storia, nonostante l’Uomo tenti, da sempre, di insabbiare, scostare, dimenticare o, addirittura, giustificare tale cruda realtà attraverso consolanti e complesse architetture religiose o filosofiche. 
Don Francesco Gullo (Spezzano Albanese 1886-1983) riprende parte del già citato verso virgiliano per intitolare una interessante raccolta poetica pubblicata nell’ormai lontano 1974. 
L’Arciprete, pur sostenuto dalla fede pragmatica e semplice tipica delle zone rurali ‒ lontano pertanto da qualsivoglia diatriba teologica o speculazione dottrinaria ‒, infonde ai suoi versi un vigoroso realismo che lo conduce a toccare con mano le piaghe sanguinanti dell’ambiente contadino meridionale in mezzo al quale compie la sua missione. 
Aleggiano tra le pagine le sofferenze legate alla povertà e all’emigrazione ‒ «Per me è primavera piena, / quando i miei paesani / non vanno più a cercar / lavoro e pane, altrove, / ma restan, dove sono nati, / a lavorare e a morire…» (Per me è primavera) ‒, così come campeggia il ricordo commosso e straziante di tanti giovani ‒ tra cui Salvatore, il fratello del poeta ‒ travolti dalla furia bellica sul Carso in occasione del primo conflitto mondiale. 
Questi drammi vengono finemente trasfigurati dalla poesia di Gullo e santificano inconsapevolmente i sacrifici di migliaia di persone i cui nomi furono ignorati dai libri di storia: «Quanti santi, quanti martiri / senza panegirico, che i panegirici / distaccano l’uomo dall’uomo / e l’uomo da Dio!...» (I° novembre. I santi). 
Tutto ciò genera pianto e, non a caso, le lacrime racchiudono gli angusti confini dell’esistenza stessa: «La lagrima prima, saluto alla vita, / che nasce, la lagrima ultima, / saluto alla vita, che muore. / Quanto è breve il tratto / tra la culla e la tomba… / È una lagrima!...» (Pianto d’un uomo). 
Ciononostante, la granitica tempra morale del Gullo non si piega e se nella vita quotidiana cerca di portare sollievo al prossimo con la fondazione della Cassa Rurale e Artigiana di Spezzano Albanese (1919), nel campo poetico, ricordando che «Non è tomba, ma culla / di vita latente, il passato» (Il pettirosso), rievoca i fasti della gloriosa Magna Grecia e di Roma le cui vestigia sono ancora visibili: «[…] case e casupole, i cui muri scoperti / mostrano il mattone romano / e la pietra quadrata greca, / raccattati, qua e là, per i campi» (Le mie colline). 
Non mancano frequenti riferimenti ad ancestrali tradizioni agresti ‒ «Ogni anno, dall’ulivo vecchio / si staccavano tre rami, / da essere benedetti / nella festa delle Palme. / Uno si figgeva nel vigneto, / l’altro nel terreno, a grano seminato / l’altro nell’uliveto stesso, / perché tutti e tre i campi / benedetti fossero e fecondi…» (Ulivo vecchio) ‒ e una serie di gradevoli descrizioni paesaggistiche e precise connotazioni geografiche che si trasformano, ben presto, in una sorta di variegato percorso dell’anima. 
La natura cantata da Gullo assume, molto spesso, tratti sensuali e paganeggianti, in grado di richiamare le dolcezze dell’antica Sibari a cui si fa più volte riferimento e di rimandare alla cultura classica che caratterizzò la formazione giovanile del poeta. 
I versi divengono quasi accorata invocazione e l’uso spropositato dell’anafora indica la volontà di stimolare costantemente l’attenzione del lettore su temi ormai avulsi dal suo orizzonte. 
Insomma, in Gullo antico e nuovo si fondono creando uno straordinario e delicato equilibrio tra realtà e coraggiosa disillusione. 
«Quisque suos patimur manis […]» sentenziava il solito Virgilio nel VI libro dell’Eneide (v. 743): «Ognuno sconta il suo demone». Anche don Gullo combatteva energicamente contro il proprio. 


Spezzano Albanese (Spixana), 05/08/2020

lunedì 3 agosto 2020

IN MARGINE ALL'ANTOLOGIA SANTORIANA

di

Mario Gaudio

Ogni antologia sconta un gravoso peccato originale legato alla insidiosa e duplice natura ‒ includente e limitante allo stesso tempo ‒ che caratterizza per definizione questo particolare genere letterario.
Se da un lato il curatore si prodiga nell’attenta raccolta di testi ritenuti significativi, dall’altro procede alla necessaria e problematica espunzione di numerosi scritti che ‒ a torto o a ragione ‒ vengono confinati nelle retrovie e, pertanto, non esposti alla prima linea del contatto diretto con il lettore.
Anche il pregevole lavoro di Vincenzo Belmonte si adegua all’ineluttabile legge della selezione antologica ma, cosa assolutamente rilevante, riesce a tracciare ‒ circoscrivendolo in un modesto numero di pagine ‒ un ritratto chiaro e pressoché completo della poliedricità di Francesco Antonio Santori (1819-1894).
Lo scrittore arbëresh, originario di Santa Caterina Albanese, benché chiacchierato e spesso sottovalutato, ha avuto l’indiscutibile merito di introdurre nel fumoso panorama culturale dell’Arbëria il genere del romanzo e quello del dramma con risultati apprezzabili da un punto di vista stilistico e critico.
Ciò che emerge dalla solerte raccolta di Belmonte è l’immagine di un Santori poligrafo, in grado di spaziare con disinvoltura tra forme letterarie profondamente diverse e distanti tra loro, ma unite da un comune denominatore: l’uso di un linguaggio essenziale, non retorico e fortemente proteso verso la costruzione di personaggi significativi e gradevoli suggestioni.
Nell'unità dedicata alla satira, si riportano i versi di Mjekërari in cui Santori descrive con ricercata leggerezza i gesti di un indelicato barbiere che, a tratti, sembra assumere le sembianze di un ben più temibile boia impegnato nella sua mortifera professione. L'architettura poetica ariosa e il tono vagamente pungente troveranno, parecchi anni dopo, un degno termine di paragone nell’estro satirico di Mishtarvet e Shën Mitrit (1941), componimento nel quale Salvatore Braile (1872-1961) metteva alla berlina i macellai di San Demetrio Corone accusati, a suo dire, di riservare al popolo scadenti frattaglie e miseri brandelli di carne. 
Santori, sacerdote di rito latino, utilizzò largamente la tematica religiosa nella sua ampia produzione, sebbene con finalità ed esiti diversi.
Nel brano Delëmereza (La pastorella), tratto da Krështeu i shëjtëruorë (Il Cristiano santificato), si racconta del dono di un modesto serto di fiori che un’umile fanciulla porge alla Madonna, ma il tutto è espresso per mezzo di un fare poetico edulcorato, quasi querulo, che fu tipico di tanti ecclesiastici ottocenteschi e che ricorda molto da vicino i semplici versi giovanili di don Ferdinando Guaglianone (1843-1927), intellettuale conservatore originario di Spezzano Albanese.
Di ben altro spessore appaiono Valtimi i Shën Maries (Il compianto della Vergine) e la supplica Shën Maries të sëmurmëvet (Alla Madonna della Salute), contenuti nel già citato Il Cristiano santificato. Mentre nel primo componimento il pianto di Maria si fonde in un unico, straziante lamento con quello della terra condensandosi nello struggente verso «Vivo, se vivo, di pianto / fino a seccare i miei occhi», nel secondo Santori racconta quasi visivamente l’inizio di una subdola melanconia che si impossessa del suo animo: «Il cuore scoperse e legò / la mente rapì, / la ragione inceppò / sì da stordire il pensiero. / Da allora nel mondo / non ebbi riposo. Mi trovo / nel fuoco, nel ghiaccio, / non so a chi somiglio».

Molto interessante risulta essere un insieme di Kalimere ‒ che riprendono i tradizionali canti eseguiti nelle strade e nelle case in particolari contesti paraliturgici ‒ in cui il letterato arbëresh trasfigura poeticamente una serie di noti episodi evangelici quali la liberazione dell’indemoniato di Gerasa, la tempesta sedata e la resurrezione della figlia di Giairo.
Alla stessa sezione possono essere ascritti i versi del Kënëka e Pësuomevet (Canto della Passione) di cui sono riportati i brani relativi alla via crucis e al suicidio di Giuda. L’autore non esita ad utilizzare in questo contesto immagini cruente e cariche di tensione emotiva che ben si accordano con la drammaticità dei momenti descritti.
Una nota a parte meritano le Rapsodie in cui il Santori non si limita a raccogliere antichi canti popolari dell’Arbëria ‒ come fecero egregiamente Nicolò Figlia di Mezzojuso, il Camarda, De Rada e lo Schirò ‒, ma interviene direttamente di suo pugno rimaneggiando e, a volte, riscrivendo i testi.
L’antologia si conclude con alcuni brani tratti da Neomènia, Clementina, Alessio Ducagino e Miloscino, opere che costituiscono il corpus teatrale santoriano del quale l’Emira rappresenta l’indubbio capolavoro e in cui si mescolano armoniosamente la tematica amorosa, quella storica e interessanti note di costume.
Il lavoro di Belmonte ha dunque il pregio di far emergere in toto la versatilità di uno scrittore ancora poco conosciuto il cui approfondimento potrà sicuramente aprire nuove e stimolanti piste di studio per gli appassionati della letteratura d’Arbëria.

Spezzano Albanese (Spixana), 3/VIII/2020