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domenica 21 gennaio 2024

DAL CORPO DI UNA LETTERA

di 

Ettore Marino

Valery Larbaud coniugò in sé sapienza varia e vera, amore del nuovo, ripiegamenti e nostalgie. Viaggiò e s’imbevve di spettacoli. Il treno era un mezzo fatato. Lo cantò come segue: “Dammi il vasto tuo strepito, il così dolce solenne tuo incedere, / il tuo scorrere a notte lungo l’Europa illuminata, / o treno di lusso!, e l’angosciante musica / che va frusciando lungo i tuoi corridoi di cuoio dorato / mentre, di là dalle laccate porte dai grevi chiavistelli in rame, / i milionari dormono. [...] La prima volta che sentii tutta intera la gioia di vivere / fu in una cabina del Nord-Express, tra Wirballen e Pskow.” Poi, nella medesima lirica, ritorna a sé: “Ah, occorre che gli strepiti e il moto suo stesso / entrino nei miei versi a dire / per me la mia vita indicibile, la vita mia / di bambino che nulla vuol sapere / e che spera in eterno le più indistinte cose.” (Ode. Mia ogni traduzione sparsa lungo il presente scritto.) Semplice e lieve, la vita quotidiana è là, col suo monotono brusio: “O splendore della vita comune, del tran tran ordinario!” (Alma perdida) La nostalgia dell’indistinto può a volte farsi ombra, vaghezza, sfumatura, però non si spappola mai in descrizione confusa: visivo più che visionario, i luoghi che visitò ritornano sul foglio con puntuale nitore pregno di echi, quasi con alta e nobile pedanteria: quella che, e non è che un esempio, usò in una lirica nominando la felce arborescente dell’Orto botanico di Napoli: quella pianta, quel luogo. Codesto nominare può giungere a sgranarsi in gaudiosi rosari: un luogo dopo l’altro, un nome accanto all’altro. Pericoloso affare! Il rischio della suggestione facile bracca osceno la penna. Immaginiamo, per meglio intendere la cosa, un cantautore che, a fugare la noia d’un troppo lento pomeriggio, accosti nomi di luoghi e di popoli d’Oriente in un nastro di accordi poco più che puerili - banalità in forma di canzone. Nemmeno occorre immaginarselo, giacché esiste di suo, ed è il Franco Battiato di Strade dell’Est. Fu, sì, notato che Larbaud ecceda in punti esclamativi; ma in battiatismi non si invilì giammai. 

Bene. La principessa di Bassiano, che viveva a Parigi, aveva chiesto al Larbaud, in viaggio per l’Italia, une longue lettre (qui tradurre è superfluo). Perfetto cavaliere, Larbaud obbedì: la compose: a Bologna, nell’Agosto del 1924; la ripartì in capitoletti; la intitolò Lettre d’Italie; la fece pubblicare pochi mesi dopo. Di essa qui intendo parlare. Mi parrà di viaggiare lungo il suo corpo, da cui strapperò qualche brano.    

Valery è felice di trovarsi in Italia, in compagnia di amici veri, di veri uomini di Lettere: Henry Festing Jones, Mario Puccini, Milan Begovic... Li affratella l’amore per la lingua italiana. Amica o no che sia l’anagrafe, spumeggia giovinezza lieta, si rapprende su un foglio che sembra grato di assorbire l’inchiostro le lettere le sillabe le parole le frasi... I luoghi visitati: la Bocca d’Arno, Firenze, Rimini, San Marino, Loreto; nòcciolo duro dichiarato, il borgo di Giacomo Leopardi.

Larbaud confessa con orgoglio di patire la fascinazione della lingua toscana e di chi la parla: “la sua pronuncia pura, le sue parole sempre giuste.” In una Firenze spopolata e assopita dall’estate rovente, non vede nulla, non incontra nessuno. Si reca solamente al Cimitero acattolico, a deporre un mazzetto di fiori sulla tomba di Walter Savage Landor. Soltanto la destinataria della Lettre conosce i motivi profondi di una tale “visita di rito, di tradizione.” Noi, che possiamo soltanto supporli, rispetteremo la pudìca reticenza.

Altra atmosfera in Bocca d’Arno. Cibi, vini, letture; danze di corpi seminudi - e la parola ritorna a fluire, felice delle “passeggiate nella pineta, secca e netta come un erbario, per magici sentieri all’ombra degli alti piumaggi di questi alberi divini quasi come gli olivi e i cipressi. Dune impreviste, valloni e deserti in miniatura, laghi ignoti ai geografi, e misteriose fonti di fiumi che tra le sabbie si perdevano [...]”

La visita a Loreto ritorna a imporre al viaggiatore la castità del silenzio. Pensa di già a Leopardi. Si sforza di guardare ogni cosa con gli occhi di lui, che giovinetto vi era stato in visita più volte. Ma poi erompe un grido. È la scritta latina gravata sull’altare della Santa Casa a strapparglielo: Hic Verbum caro factum est, “Il Verbo, qui, si è fatto carne” - e l’urlo è modulato col riportare un brano di un’ode di Jean-Baptiste Rousseau inneggiante alla Vergine: un’ode dall’“avvio sublime, su una nota elevata, simile all’improvviso esplodere di un canto di trionfo su un organo immenso: ‘Regna a sua volta Eva, trionfante sul dragone’.”

Avere visto e scriverne è però solo un modo di intendere il viaggio. Viaggiare può essere infatti anche andare a raggiungere ciò che si era sognato. Le prose e i versi di Leopardi, e la allora assai nota biografia che Giuseppe Chiarini gli aveva dedicato, avevano tracciato nell’anima di Valery Larbaud un quadro dell’archetipale borgo inabitabile. Recanati in realtà si palesa come vista leggiadra, tutta in gloria d’azzurri. Doverci vivere sempre e per forza: ecco la dannazione! Anche qui, Valery guarda con gli occhi di Giacomo: di Giacomo, di cui avverte la voce più propria in versi quali “ed alla tarda notte / un canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco, / già similmente mi stringeva il core.”; di Giacomo, che scopre l’essenza “del ricordo (‘il rimembrar delle passate cose’), la volontaria e cosciente riconquista del passato, la cui eco raggiunge anche noi.”

Ma Recanati era il conte Monaldo, e palazzo Leopardi era Adelaide Antici. Li ho sempre immaginati vecchi, dovendomi ogni volta costringere a pensare che quando Giacomo nacque Monaldo non aveva che ventidue anni, e venti ne aveva Adelaide. Lui timido, pauroso, convinto delle proprie idee. Il passato è certezza, l’avvenire dubbio. Letterato, pensatore, uomo della provincia papalina, serioso più che serio, sogna Giacomo vescovo, o addirittura papa. Il figlio arde di altra brama. Vuole essere amato. Vuole la gloria. La verità che si fa forma è in lui passione “cui s’abbandona come un dannato alla fiamma” - e ciò Monaldo non comprende. Adelaide, benché marchesa, è un’“aspra contadina brutale e illetterata.” Non era illetterata, e Monaldo era da più di quanto Larbaud dica. Intanto, tali entrambi per Giacomo, e per Paolina e Carlo, e per tutta la prole che ebbero: un padre colmo di paure, una madre tutta algori e durezze. Il borgo di vacui galantuomini e di zoticume ridacchiante, i genitori privi d’aria, le malattie, la povertà... Ma Giacomo trionfa. Ci nutre. Lo amiamo.

Larbaud quasi gioca a elencare le soglie che portano alla gloria, ma il suo discorso è serio. Meritare l’alloro non è di per sé conseguirlo. L’eroe letterario è come un santo laico. Occorre una voce autorevole che, vivente o morto, lo ponga sugli altari: pian piano lo vedranno e lo venereranno tutti. La gloria grande, la gloria sognata con insolente desiderio, Giacomo non gustò. Ma seppe in ogni istante di essere ciò che era. Scolpì sul foglio quasi fosse una roccia. Rimase, il segno. Qui non è più Larbaud a parlare. L’Editoria di allora, timorosa della censura e sparagnina sulla carta da imprimere, non si era ridotta a tremare di fronte a due irrealtà, a due astrazioni, a due buie fantasime per giunta incompatibili tra loro. Avrebbe mai Leopardi scritto quello che scrisse sotto il beffardo incubo d’un revisore che l’avrebbe ridotto a brodino per la bocca, congetturata senza denti, del Lettor Medio e del Signor Tutti? - le irrealtà cui alludevo. Se questa vita è marcescenza e la parola eternata riscatto, che cosa avrebbe fatto Giacomo di tutte le sue carte sapendo che, secondo prassi, le estreme e indelebili muffe le attendevano al varco editorio? Le avrebbe date al fuoco? O si sarebbe piegato a vedere L’infinito andare per il mondo col nome suo d’autore però violato da altra mano in “Ho sempre amato questa appartata collina”? Incubo proiettato indietro, questo; inverecondo affanno che a Giacomo Leopardi la vita risparmiò.

Vakaric (Vaccarizzo Albanese), 21/I/2024

domenica 31 dicembre 2023

IL PATIBOLO E LA GRAZIA

di

Mario Gaudio

Inizierò con un aneddoto. Si racconta che lo scrittore russo Lev Nikolàevič Tolstoj (1828-1910) ricevesse quotidianamente per corrispondenza centinaia di versi di improvvisati poeti in cerca di un’approvazione e con sogni di visibilità. Soffocato dalle molteplici lettere, egli si lamentò della «perniciosa epidemia di poesia» che imperversava in quegli anni, ma il fenomeno non si stemperò né si interruppe e Tolstoj, quasi esasperato, passò all’azione decidendo di rispondere a questa singolare proliferazione poetica con delle cartoline su cui campeggiava un timbro riportante per tutti il medesimo testo: «Lev Nikolàevič ha letto i vostri versi e li ha trovati molto scadenti. In generale, non vi consiglia di dedicarvi a questa attività».

Non occorre grande acume per constatare che, a distanza di qualche secolo, la situazione denunciata da Tolstoj non solo non ha conosciuto miglioramento, ma è addirittura degenerata in una difficilmente reversibile inflazione della poesia. 

Allo stato attuale, sovrabbondano le pagine di autoincoronati poeti la cui discutibile scrittura si concretizza in una sequela di frasette motivazionali e qualche assonanza ‒ più casuale che voluta ‒ di banalità prossima a quella di targhe e lustrini distribuiti a iosa da case editrici interessate ad alimentare questo circolo vizioso al fine di trarne antologie e pubblicazioni più o meno vendibili, ma furbescamente fatte pagare all’aspirante poeta adeguatamente incensato in precedenza e sottilmente sottoposto ad opera di fumoso convincimento circa futuri, probabili successi letterari.

Basta questa sintetica analisi dell’odierno, devastato panorama poetico per renderci conto della difficile quanto valorosa resistenza dei pochi e validi poeti ‒ degni di tal nome ‒ che tentano faticosamente di far sentire la propria voce al di là e al di sopra delle ammalianti sirene di una mediocrità miracolosamente spacciata per arte e resa appetibile ai lettori dal potere dell’apparenza e dalle lusinghe della commercializzazione.

Ettore Marino fa parte dell’esiguo gruppo dei resistenti e, senza tema di smentita, Patibolo contribuisce a ravvivare la flebile ma indispensabile lucerna che i veri poeti ‒ ognuno nel suo tempo e nel suo spazio ‒ alimentano con devozione allo scopo di rischiarare il cammino collettivo in epoche sempre più buie e difficili.

Il poeta autentico assapora la vita e ne restituisce preziose impressioni, mimetizzandosi nel consorzio umano, pur nella consapevolezza di poter godere di un punto d’osservazione privilegiato: per dirla con le parole dello stesso Marino, questa «è l’antica finzione di chi va / al mercato a guardare, e si confonde / tra i compratori» (Estate 198…).

Sebbene costretto in un tempo che smania per trovare un senso ‒ «Marinaio per terra è questo tempo» ‒, il poeta compie imperturbabile la sua alta missione culturale e spirituale, benché non manchino momenti di naturale scoramento che l’estro di Ettore Marino dipinge in tre significativi versi: «[…] e se distraggo / lo sguardo dal sentiero, / è per l’antico vizio d’esser uomini».

L’intero universo racchiude poesia ‒ «Alberi pietre stelle vento mare / sanno, da sempre sanno e tacciono» (Lettera a un testimone) ‒ e il poeta sfiora ogni realtà dilaniando il suo animo in un atroce dubbio che oscilla tra il canto, che è soddisfazione dei propri istinti, e il silenzio, che ne è dolorosa e colpevole soppressione: «Come le fronde degli ulivi a queste / mani che ti carezzano ti pieghi. / Ed io non so se coglierti o morire».

Ovunque si leva un impetuoso anelito di vita. Marino, sorvolando idealmente le orientali atmosfere di una città antica, ce ne offre un commovente spunto: «Damasco. Ancora qui. Male o bene / che sia, vedono gli occhi / braccia, braccia che s’alzano, poi braccia. / Questo soltanto è certo: / una messe di uomini che vuole / vivere – e nulla più».

Come nella migliore tradizione poetica, l’innata sensibilità convive con la sottile ironia, cosicché il nostro autore svela il suo particolare segreto che congiunge spirito e materia, sapienza e stoltezza: «Io so essere terra, / io so mordere il lupo. / E quanto alla saggezza, / è un apriscatole / che consiglio a chi ha fame» (Congedo). 

Tanti, troppi sono i patiboli quotidiani innalzati sulla pubblica piazza delle nostre coscienze da aspirazioni mancate, parole non dette e buoni propositi abortiti a causa di una società in cui ‒ prendendo a prestito le parole de Le città invisibili di Italo Calvino ‒ «[…] per le strade la gente cammina torcendosi le mani, impreca ai bambini che piangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tempie tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro».

Lo scenario è sconfortante, ma l’autorevole voce della poesia assume il valore di monito e richiamo alla più profonda umanità. Il Patibolo di Ettore Marino diviene per tutti noi un’agognata, «tremula luce di grazia».

Spixana (Spezzano Albanese), 31/XII/2023

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)



sabato 16 dicembre 2023

EIN GELÄNDERTER STEIG. NOTA SU FEDERICO SCHILLER

di

Ettore Marino 

Il breve saggio che segue mi era stato gentilmente pubblicato nel numero 74 (Gennaio - Giugno 2023) de ilfilorosso di Cosenza, ricco e leggiadro semestrale di cultura che con eguale gentilezza mi permette di riproporlo ai lettori di Terre Letterarie.

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Non ho mai incontrato nessuno che avesse letto Schiller. Non è colpa né merito. Sull’eventuale perché tenterò ben due ipotesi: una severa, una monella. Intanto: quale felicità sognò il poeta svevo?

Svevo di Marbach era infatti. Medico dell’esercito, la tesi con cui si era laureato aveva a titolo Sul nesso tra la natura animale e quella spirituale dell’uomo. Due nature, e un nesso che le avvince. Qui la chiave di volta. Tutto avrà poi a espandersi e ad approfondirsi: in drammi, ricerche storiografiche, saggi filosofici, ballate, liriche, epigrammi... Batté pure la via del romanzo, abbozzandone uno; e fu eccellente giornalista. 

Anche la più aurorale forma di riflessione palesa a chi la compie il disagio di una separatezza. Della separatezza, l’intensità analitica rese chiari allo svevo snodi e forme: Io e Mondo, Io e Io altrui, Corpo e Spirito, Necessità e Libertà, Natura e Storia, Legge e Arbitrio, Morale e Politica, Bello e Sublime, Grazia e Dignità... Separatezza è anelito all’unità. L’atto unificatorio tentato da Schiller sarà di rinvenire un nodo che salvifico stringa le istanze eccentriche o addirittura dilanianti, senza però cassare le determinatezze. Indagare il Bello e il Sublime era nello spirito dell’epoca. Lo aveva compiuto anche Kant, che Schiller lesse e meditò partendo dalla Critica del Giudizio. Sublimità sarà per Schiller la potestà ammirevole di una volontà che sappia non essere schiava delle inclinazioni, laddove sarà Bellezza la “libertà nel fenomeno”, cioè la spontaneità determinantesi da sé. Selvaggio è chi rimane schiavo delle inclinazioni, barbaro chi le soffoca. Bella sarà chiamata l’anima in cui il senso morale sia quasi un istinto armonizzante “sensibilità e ragione, dovere e inclinazione. La manifestazione di un tale modo d’essere verrà riconosciuta come grazia.” (Grazia e Dignità, 1793).  

Tiranno, lo spazio nega nuovi scavi. Spero comunque che sia chiaro che la felicità sognata da Schiller si dispiegasse in un’ariosa plasticità che ha nome di Armonia: auspicata, più che certa e trionfante. Figlia spontanea dell’identità è l’azione. Agire è però scelta, ogni scelta è una colpa, la reazione del mondo è destino, l’esito può fiorire amaro. È quanto patisce il Wallenstein dell’omonima trilogia drammatica (1798-1799), cui è colpa l’agire, cui è colpa l’indugio. Hegel ne saprà dare una lettura superba (Sul Wallenstein, data supposta il 1801). Il cupo portentoso eroe vuole restare al di qua dell’azione, in un’indeterminatezza che arresti eventi e tempo. Ma il contraccolpo della determinazione biforca ramificandosi in lui e fuori di lui. Sarà tristezza inesorata, e Hegel è scosso da un brivido: “Vita contro vita; ma contro la vita si leva soltanto la morte e - incredibile, insopportabile! - la morte vince la vita!” (traduzione di Furia Valori).

In una portentosa enfatica sgroppata lungo le ère dell’Umanità (La passeggiata, 1796), Schiller immagina un abisso. Traduciamone i versi: “Vedo l’etere immenso, in alto, in basso, / e tremore e vertigine mi colgono. / Ma tra le eterne immensità un viottolo / balaustrato rassicura e guida / laggiù il viatore.” Un balaustrato viottolo, ein geländerter Steig: da qui il titolo che diedi a questa nota. È un’immagine goffa. L’ha fatta germogliare la volontà di fornire sicurezza. Altrove, alla poesia e alla scena viene evitato il rischio che le si scambi con la vita. Il verso, infatti, e il gioco della rima, fugheranno la possibilità stessa dell’equivoco: “Seria è la vita, serena è l’arte.” (Wallenstein. Prologo). È forse proprio il (generoso e umanissimo) intento di rassicurare a tenere lontano da Schiller chi alla Poesia chiede un naufragio irredimibile. La nostalgia del Caos: pretesto a chissà quante chiacchiere presso i titani da salotto; la nostalgia del Caos: ansia reale, autentica, di un balzo che travalichi lo hóros (confine) dissolvendoti in quanto era prima di ciò che i nomi catturano e rendono nostro...

Schiller, intanto, è poco letto. All’ipotesi greve seguirà quella sbarazzina. Schiller fu fabbro di bronzee sentenze: importanti concetti secondo Benedetto Croce, immortali banalità per Oswald Spengler. Crudamente banali se avulse dal contesto, dette sentenze offrirono, nella Germania d’altri dì, succulenti bocconi a stuoli e stuoli di uggiosi prozii: quei prozii, voglio dire, che s’empiono la bocca rammemorando, a ogni crocchio e brigata e non senza storpiature, autori di fama antica e solida, col sottinteso che gli autori che vennero dopo (e che mai hanno letto) siano moneta senza peso. Aspro nemico del prozio è il fighetto, cui lo snobismo vieta i campi nei quali il prozio aveva grufolato. A prozio schilleriano, antischilleriano fighetto! Ma il fighetto di oggi è il prozio di domani: cembali entrambi malsonanti.

Non scrissi pei prozii, non scrissi pei fighetti. Voglio un lettore curioso come un bimbo, umile come un assetato, saggio come un vegliardo cui ogni alba rechi letizia nuova. Per lui trascriverò quanto di Schiller ebbe a dire Hugo von Hofmannsthal: “Nessun tedesco possiede un pari dinamismo [...]. La sua vita e la sua morte sono sorelle a quelle del torciere che stremato ha raggiunto la meta, e s’accascia a spirare trasfigurandosi in simbolo eterno. [...] Le opere sue più che ad altro somigliano alle navi maestose, forti di bellezza, la cui essenza è il moto: navi di meta certa, che mai vagando a caso legano terra a terra nobilitando ogni luogo che toccano...” E si chiuda così!  

Vakaric (Vaccarizzo Albanese), 16/XII/2023


domenica 3 dicembre 2023

SPIACCIA ANCHE A TE, SE A ME GIÀ SPIACQUE!...

di

Ettore Marino

Premessa prima. Soggiornavo a Cosenza. Alle ore diciotto di venerdì 24 Novembre mi trovavo da un pezzo al Cinema Citrigno. Vi proiettavano l’ultimo film su Bonaparte, e avevo temuto di non trovarvi posto. La sala, invece, era quasi deserta. Napoleon iniziò: regia di Ridley Scott, di David Scarpa il soggetto e la sceneggiatura. Compatii ogni assente. A proiezione consumata, ogni assente invidiai. Saltai la cena per stendere l’articolo. Lo ritoccai il giorno dopo. Fiumi d’inchiostri e di parole altrui avevano intanto sfogato, per video e per gazzette, la stessa mia delusa stizza. Avevo scritto invano. Se pubblico il mio pezzo, è soltanto perché lo trovo un poco meno inutile del film che lo ispirò.

Premessa seconda. Un’arcicara amica, scultrice di talento e fine storica dell’Arte (sentirla dissertare del Caravaggio o del Bernini è quasi averne, e con più nitido sguardo, i quadri e le statue innanzi agli occhi), coltiva un buffo vezzo: reputa degni d’esser visti soltanto i film recenti. Arduo è uccellare il punto esatto in cui secondo lei il vecchio cede al nuovo; per certo, un film vecchio non merita neanche di esistere. Un’idiosincrasia, codesta: lecita solo in quanto tale. Guaio è che lei qui non si fermi, bensì tenti ogni volta di convertirla in concetto e, giacché non lo può, il concetto abortisce ogni volta in una derisoria accusa a chi non condivida la personale sua allergia. So con troppa chiarezza che ogni giudizio estetico è soggettivo ma tende all’universalità; mai ho perciò confuso, nella stesura dell’articolo, quel che risuona in me con ciò che ha da valere per tutti. 

Napoleon, dunque. Mediamente belli i costumi, avvincenti le non impeccabili scene guerresche, color locale indovinato nell’insieme, appropriate le musiche.

Ora sondiamo il baratro. Perenne è la tensione tra invenzione e storia. Si danno sintesi superbe. Napoleon, lungo nastro di scene mal cucite, è il fallimento d’ogni sintesi. Troppi gli errori storiografici: un’assai celebre constatazione del principe di Talleyrand sui modi inurbani del Còrso è senza alcun motivo posta in bocca all’ambasciatore inglese; al contrario di ciò che vediamo, Bonaparte mai fece bombardare le Piramidi; Murat e Leclerc, il cui tempestivo intervento contribuì a faustamente risolvere il colpo di Stato del 18 Brumaio, non sono neanche nominati; taciuto è pure il nome del maresciallo Ney, il quale, promesso ch’ebbe a Luigi XVIII di condurre a Parigi in un gabbione in ferro Bonaparte fuggito dall’Elba, si unì invece, col reggimento intero, a Bonaparte stesso; al Napoleone asceso all’imperiale soglio ci si rivolgeva col titolo di sire, laddove, almeno nel doppiaggio italiano, viene spesso chiamato, e ciò è oltre il grottesco, imperatore; Pio VII, forzoso testimone dell’autoincoronazione a Notre-Dame, sembra un vecchietto isterico che, umiliato dal despota, tenti maldestramente di rizzarsi in piedi snocciolando frasi di circostanza con la voce stentorea e la beota enfasi di un cinegiornalista dell’EIAR; a Waterloo vediamo (inesistite) trincee; mai Wellington andò a visitare Napoleone prigioniero sul Bellerophon; l’eroe esiliato morì a letto, e non, com’è secondo Scarpa e Scott, su una sedia in giardino. Non chiamerei errore, bensì (grata) licenza scenica, il fatto che Marie Antoinette venga condotta al patibolo vestita d’azzurro e con la precocemente incanutita chioma che le danza sugli omeri e intralcia e impaccia l’operato del boia, mentre il capitano Bonaparte, che in verità non c’era, guarda pensoso e preoccupato.

Le due ore e quaranta minuti di film non potevano certo coprire tutti gli snodi storico-epocali che una così vasta epopea chiude in sé. Condotta in modo desultorio e sfilacciato, la necessaria scelta ha intristito non pochi storiografi: per come concepita, e per il fatto stesso che sia stata operata. Personalmente credo che Scarpa e Scott abbiano confidato nella diffusa comune conoscenza del fenomeno Bonaparte, scegliendone i lacerti a loro parsi più succosi. Si aggiunga che sarà quanto prima fruibile una versione piena, di più di quattro ore di durata, buona spero a colmare più d’una lacuna.

Un re di Macedonia disse che nessun eroe è tale per il proprio garzone da camera. Due millenni più tardi, Hegel, che negli eroi a suo modo credeva, commentò che è così per la naturale miopia del garzone, e Schopenhauer ribatté che ogni eroe è tale solo per alcuni rispetti e in alcuni momenti: prima e dopo, è egli uomo tra gli uomini, come ogni cameriere sa. Del Bonaparte uomo la psicologia è sondata nel film per elementari balbettanti occhiate nel suo guscio domestico: occhiate che con pretensiosa definitività ci scodellano un Bonaparte dominato dalla madre e infantilmente infatuato di una Joséphine di cui è geloso al punto da abbandonare la campagna d’Egitto per avere saputo (udite bene!) che lei gli fa le corna. In scene tra di commedia e di filmetto scollacciato, patetiche se volute tali e desolanti se volute non furono, il maltrattato grand’uomo sembra il brodo ristretto d’un cagnolino mal svezzato e d’un troppo voglioso porcello.

Se produttori e casting lo lasciano in pace, ogni regista sceglie gli attori che vuole. Il Robespierre che descrizioni e ritratti hanno depositato nella memoria d’Occidente era un giovane uomo magrissimo, occhialuto, giallastro per frequenti emicranie e mal di fegato perenne - e il Robespierre del film è un cinquantenne cicciosetto. Quanto al Napoleone che ognuno vede con gli occhi dell’anima, era ossuto e crinito da giovane, stempiatello e panciuto nella maturità, e sempre e in ogni istante inquieto, mobilissimo, fulmineo d’occhi, di volontà, d’intelletto... Tirannico è l’immaginario: nella vaghezza sua, nella sua precisione. Ritorno a dire: scelga il regista gli attori che gli aggradano; sia padrone davvero, il regista e ogni autore, dell’opera sua propria. L’immaginario mio, però, qui umile propaggine di quello collettivo, si contorce ferito alla vista d’un Bonaparte plumbeo come Joaquin Phoenix: aspro è infatti aspettarsi un occhio d’aquila per poi doversi accontentare dell’occhio d’un bove stupito.

Mentre il capitano Bonaparte s’ingegna a liberare il porto di Tolone, un proietto gli uccide il cavallo. Portato a termine il suo compito, il vittorioso ufficiale infila un braccio nella carcassa del povero quadrupede, ne estrae la palla che l’ha ucciso e la consegna a non ricordo chi perché la porti a sua madre. Pegno greve di simboli, quel proietto di bronzo. Mi dissi certo che, in ossequio alle leggi e all’arte del narrare, sarebbe ricomparso. Certezza erronea: mai più lo rivedemmo. È un vuoto, un venir meno, un incongruo mancare - una falla biancastra che a guisa di cifra racchiude la vacuità sgraziata dell’intero film.

Vakaric (Vaccarizzo Albanese), 03/XII/2023


venerdì 17 novembre 2023

LA FILOSOFIA E LA COMPRESSA

di

Mario Gaudio

Benché breriano sfegatato, una colpa gravava su di me: quella di ignorare completamente l’esistenza di un libello intitolato Introduzione alla vita saggia che lo scrittore di San Zenone Po aveva licenziato nell’ormai lontano 1974.

Un caro amico ‒ breriano anch’egli fino alle midolla ‒ me ne fece gradito dono in occasione della presentazione di un suo libro di versi e il Caso ‒ dotato dell’imprevedibilità dei matti ‒ dispose il mio incontro con questo insolito testo di Brera in un piovoso pomeriggio autunnale.

Ristampato recentemente per i tipi de Il Mulino, con prefazione del poliedrico Carlo Verdone e postfazione di Paolo Brera ‒ figlio di Gianni e, a quanto pare, degno erede di penna ‒, il volumetto (poco più di settanta pagine son sufficienti per chi racconta in bello stile, ma senza fronzoli) raccoglie argute meditazioni sul tema dell’ansia, compagna dell’umanità dai tempi delle caverne a quelli dei grattacieli. 

Spogliatosi delle vesti di giornalista sportivo e abbandonate altresì quelle del romanziere, l’autore si sofferma con tratto ironico e colto sulle tappe salienti che hanno condotto l’Uomo a scoprire il concetto di anima e sull’inevitabile e dolorosa conseguenza di una simile scoperta: lo sviluppo di uno stato ansiogeno derivato dal rapporto con l’ambiente circostante e dalle aspettative legate ad un futuro incerto per definizione.

Con la saggezza di chi ha accumulato esperienze amando la vita e assaporandone lecitamente i piaceri ‒ son note, in proposito, le sue passioni enogastronomiche consumate in barba ai picchi glicemici‒, Brera costruisce una personale filosofia sull’argomento, bandendo astruse teorizzazioni e conservando un sano buonsenso paesano che si traduce in un’immagine antica ‒ ma significativa ‒ in grado di condensare il messaggio principale del libro: «Le mie ansie, per dirla schietta, oscillano fra il timore che si spenga [la fiammella dell’anima, n.d.a.] e la speranza che arda troppo».

Di tempra marcatamente oraziana, tale considerazione si traduce in un elogio dell’aurea mediocritas e nell’invito a saper leggere gli eventi per coglierne l’attimo giusto ‒ ritorna il carpe diem del poeta di Venosa ‒, affinché si possa «scegliere l’istante buono per mettere sottovento la preziosa fiammella dell’anima» ed evitare che essa si spenga tramutando un’ansia fisiologica e costruttiva in nera e devastante depressione.

Quando la via filosofica alla saggezza e all’equilibrio risulta insufficiente, Brera non disdegna di metter mano ad un «astuccio di solido cartoncino» per cavarne una compressina che «fuoriesce con un grato scricchiolio di caramella scartocciata». Lo scrupolo lo induce, molto spesso, a dividere quell’unico milligrammo farmaceutico in due porzioni ridotte a tal punto da divenire quasi un placebo, ma capaci di dar improvvisa sensazione di ritrovata salute.

L’effetto benefico scaturisce in realtà dall’inganno di se stessi più che dalla sostanza curativa e l’autore ne dà testimonianza riportando due gustosi aneddoti che, a ben vedere, paiono quasi boccacceschi: nel primo, un verboso avvocato afflitto da terribile emicrania è risanato da una pillola per il diabete che Brera, da malizioso buontempone, offre come infallibile rimedio per il mal di capo; nel secondo, l’autore ricorda l’effetto delle cialde purgative militari propinate ad un rumoroso proprietario di casa sopraffatto da un accesso di tosse tubercolotica immediatamente sedata da quell’inappropriato rimedio.

Tra il serio e il faceto, Brera ‒ come è lecito per ogni scrittore ‒ «forza un po’ i limiti della sua esperienza», restituendoci una deliziosa riflessione spirituale e umana attraverso pagine che ben si accompagnano ai primi rigori di stagione e ad un immancabile vino da meditazione.

Spixana (Spezzano Albanese), 17/XI/2023

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)