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domenica 31 dicembre 2023

IL PATIBOLO E LA GRAZIA

di

Mario Gaudio

Inizierò con un aneddoto. Si racconta che lo scrittore russo Lev Nikolàevič Tolstoj (1828-1910) ricevesse quotidianamente per corrispondenza centinaia di versi di improvvisati poeti in cerca di un’approvazione e con sogni di visibilità. Soffocato dalle molteplici lettere, egli si lamentò della «perniciosa epidemia di poesia» che imperversava in quegli anni, ma il fenomeno non si stemperò né si interruppe e Tolstoj, quasi esasperato, passò all’azione decidendo di rispondere a questa singolare proliferazione poetica con delle cartoline su cui campeggiava un timbro riportante per tutti il medesimo testo: «Lev Nikolàevič ha letto i vostri versi e li ha trovati molto scadenti. In generale, non vi consiglia di dedicarvi a questa attività».

Non occorre grande acume per constatare che, a distanza di qualche secolo, la situazione denunciata da Tolstoj non solo non ha conosciuto miglioramento, ma è addirittura degenerata in una difficilmente reversibile inflazione della poesia. 

Allo stato attuale, sovrabbondano le pagine di autoincoronati poeti la cui discutibile scrittura si concretizza in una sequela di frasette motivazionali e qualche assonanza ‒ più casuale che voluta ‒ di banalità prossima a quella di targhe e lustrini distribuiti a iosa da case editrici interessate ad alimentare questo circolo vizioso al fine di trarne antologie e pubblicazioni più o meno vendibili, ma furbescamente fatte pagare all’aspirante poeta adeguatamente incensato in precedenza e sottilmente sottoposto ad opera di fumoso convincimento circa futuri, probabili successi letterari.

Basta questa sintetica analisi dell’odierno, devastato panorama poetico per renderci conto della difficile quanto valorosa resistenza dei pochi e validi poeti ‒ degni di tal nome ‒ che tentano faticosamente di far sentire la propria voce al di là e al di sopra delle ammalianti sirene di una mediocrità miracolosamente spacciata per arte e resa appetibile ai lettori dal potere dell’apparenza e dalle lusinghe della commercializzazione.

Ettore Marino fa parte dell’esiguo gruppo dei resistenti e, senza tema di smentita, Patibolo contribuisce a ravvivare la flebile ma indispensabile lucerna che i veri poeti ‒ ognuno nel suo tempo e nel suo spazio ‒ alimentano con devozione allo scopo di rischiarare il cammino collettivo in epoche sempre più buie e difficili.

Il poeta autentico assapora la vita e ne restituisce preziose impressioni, mimetizzandosi nel consorzio umano, pur nella consapevolezza di poter godere di un punto d’osservazione privilegiato: per dirla con le parole dello stesso Marino, questa «è l’antica finzione di chi va / al mercato a guardare, e si confonde / tra i compratori» (Estate 198…).

Sebbene costretto in un tempo che smania per trovare un senso ‒ «Marinaio per terra è questo tempo» ‒, il poeta compie imperturbabile la sua alta missione culturale e spirituale, benché non manchino momenti di naturale scoramento che l’estro di Ettore Marino dipinge in tre significativi versi: «[…] e se distraggo / lo sguardo dal sentiero, / è per l’antico vizio d’esser uomini».

L’intero universo racchiude poesia ‒ «Alberi pietre stelle vento mare / sanno, da sempre sanno e tacciono» (Lettera a un testimone) ‒ e il poeta sfiora ogni realtà dilaniando il suo animo in un atroce dubbio che oscilla tra il canto, che è soddisfazione dei propri istinti, e il silenzio, che ne è dolorosa e colpevole soppressione: «Come le fronde degli ulivi a queste / mani che ti carezzano ti pieghi. / Ed io non so se coglierti o morire».

Ovunque si leva un impetuoso anelito di vita. Marino, sorvolando idealmente le orientali atmosfere di una città antica, ce ne offre un commovente spunto: «Damasco. Ancora qui. Male o bene / che sia, vedono gli occhi / braccia, braccia che s’alzano, poi braccia. / Questo soltanto è certo: / una messe di uomini che vuole / vivere – e nulla più».

Come nella migliore tradizione poetica, l’innata sensibilità convive con la sottile ironia, cosicché il nostro autore svela il suo particolare segreto che congiunge spirito e materia, sapienza e stoltezza: «Io so essere terra, / io so mordere il lupo. / E quanto alla saggezza, / è un apriscatole / che consiglio a chi ha fame» (Congedo). 

Tanti, troppi sono i patiboli quotidiani innalzati sulla pubblica piazza delle nostre coscienze da aspirazioni mancate, parole non dette e buoni propositi abortiti a causa di una società in cui ‒ prendendo a prestito le parole de Le città invisibili di Italo Calvino ‒ «[…] per le strade la gente cammina torcendosi le mani, impreca ai bambini che piangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tempie tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro».

Lo scenario è sconfortante, ma l’autorevole voce della poesia assume il valore di monito e richiamo alla più profonda umanità. Il Patibolo di Ettore Marino diviene per tutti noi un’agognata, «tremula luce di grazia».

Spixana (Spezzano Albanese), 31/XII/2023

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)



sabato 16 dicembre 2023

EIN GELÄNDERTER STEIG. NOTA SU FEDERICO SCHILLER

di

Ettore Marino 

Il breve saggio che segue mi era stato gentilmente pubblicato nel numero 74 (Gennaio - Giugno 2023) de ilfilorosso di Cosenza, ricco e leggiadro semestrale di cultura che con eguale gentilezza mi permette di riproporlo ai lettori di Terre Letterarie.

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Non ho mai incontrato nessuno che avesse letto Schiller. Non è colpa né merito. Sull’eventuale perché tenterò ben due ipotesi: una severa, una monella. Intanto: quale felicità sognò il poeta svevo?

Svevo di Marbach era infatti. Medico dell’esercito, la tesi con cui si era laureato aveva a titolo Sul nesso tra la natura animale e quella spirituale dell’uomo. Due nature, e un nesso che le avvince. Qui la chiave di volta. Tutto avrà poi a espandersi e ad approfondirsi: in drammi, ricerche storiografiche, saggi filosofici, ballate, liriche, epigrammi... Batté pure la via del romanzo, abbozzandone uno; e fu eccellente giornalista. 

Anche la più aurorale forma di riflessione palesa a chi la compie il disagio di una separatezza. Della separatezza, l’intensità analitica rese chiari allo svevo snodi e forme: Io e Mondo, Io e Io altrui, Corpo e Spirito, Necessità e Libertà, Natura e Storia, Legge e Arbitrio, Morale e Politica, Bello e Sublime, Grazia e Dignità... Separatezza è anelito all’unità. L’atto unificatorio tentato da Schiller sarà di rinvenire un nodo che salvifico stringa le istanze eccentriche o addirittura dilanianti, senza però cassare le determinatezze. Indagare il Bello e il Sublime era nello spirito dell’epoca. Lo aveva compiuto anche Kant, che Schiller lesse e meditò partendo dalla Critica del Giudizio. Sublimità sarà per Schiller la potestà ammirevole di una volontà che sappia non essere schiava delle inclinazioni, laddove sarà Bellezza la “libertà nel fenomeno”, cioè la spontaneità determinantesi da sé. Selvaggio è chi rimane schiavo delle inclinazioni, barbaro chi le soffoca. Bella sarà chiamata l’anima in cui il senso morale sia quasi un istinto armonizzante “sensibilità e ragione, dovere e inclinazione. La manifestazione di un tale modo d’essere verrà riconosciuta come grazia.” (Grazia e Dignità, 1793).  

Tiranno, lo spazio nega nuovi scavi. Spero comunque che sia chiaro che la felicità sognata da Schiller si dispiegasse in un’ariosa plasticità che ha nome di Armonia: auspicata, più che certa e trionfante. Figlia spontanea dell’identità è l’azione. Agire è però scelta, ogni scelta è una colpa, la reazione del mondo è destino, l’esito può fiorire amaro. È quanto patisce il Wallenstein dell’omonima trilogia drammatica (1798-1799), cui è colpa l’agire, cui è colpa l’indugio. Hegel ne saprà dare una lettura superba (Sul Wallenstein, data supposta il 1801). Il cupo portentoso eroe vuole restare al di qua dell’azione, in un’indeterminatezza che arresti eventi e tempo. Ma il contraccolpo della determinazione biforca ramificandosi in lui e fuori di lui. Sarà tristezza inesorata, e Hegel è scosso da un brivido: “Vita contro vita; ma contro la vita si leva soltanto la morte e - incredibile, insopportabile! - la morte vince la vita!” (traduzione di Furia Valori).

In una portentosa enfatica sgroppata lungo le ère dell’Umanità (La passeggiata, 1796), Schiller immagina un abisso. Traduciamone i versi: “Vedo l’etere immenso, in alto, in basso, / e tremore e vertigine mi colgono. / Ma tra le eterne immensità un viottolo / balaustrato rassicura e guida / laggiù il viatore.” Un balaustrato viottolo, ein geländerter Steig: da qui il titolo che diedi a questa nota. È un’immagine goffa. L’ha fatta germogliare la volontà di fornire sicurezza. Altrove, alla poesia e alla scena viene evitato il rischio che le si scambi con la vita. Il verso, infatti, e il gioco della rima, fugheranno la possibilità stessa dell’equivoco: “Seria è la vita, serena è l’arte.” (Wallenstein. Prologo). È forse proprio il (generoso e umanissimo) intento di rassicurare a tenere lontano da Schiller chi alla Poesia chiede un naufragio irredimibile. La nostalgia del Caos: pretesto a chissà quante chiacchiere presso i titani da salotto; la nostalgia del Caos: ansia reale, autentica, di un balzo che travalichi lo hóros (confine) dissolvendoti in quanto era prima di ciò che i nomi catturano e rendono nostro...

Schiller, intanto, è poco letto. All’ipotesi greve seguirà quella sbarazzina. Schiller fu fabbro di bronzee sentenze: importanti concetti secondo Benedetto Croce, immortali banalità per Oswald Spengler. Crudamente banali se avulse dal contesto, dette sentenze offrirono, nella Germania d’altri dì, succulenti bocconi a stuoli e stuoli di uggiosi prozii: quei prozii, voglio dire, che s’empiono la bocca rammemorando, a ogni crocchio e brigata e non senza storpiature, autori di fama antica e solida, col sottinteso che gli autori che vennero dopo (e che mai hanno letto) siano moneta senza peso. Aspro nemico del prozio è il fighetto, cui lo snobismo vieta i campi nei quali il prozio aveva grufolato. A prozio schilleriano, antischilleriano fighetto! Ma il fighetto di oggi è il prozio di domani: cembali entrambi malsonanti.

Non scrissi pei prozii, non scrissi pei fighetti. Voglio un lettore curioso come un bimbo, umile come un assetato, saggio come un vegliardo cui ogni alba rechi letizia nuova. Per lui trascriverò quanto di Schiller ebbe a dire Hugo von Hofmannsthal: “Nessun tedesco possiede un pari dinamismo [...]. La sua vita e la sua morte sono sorelle a quelle del torciere che stremato ha raggiunto la meta, e s’accascia a spirare trasfigurandosi in simbolo eterno. [...] Le opere sue più che ad altro somigliano alle navi maestose, forti di bellezza, la cui essenza è il moto: navi di meta certa, che mai vagando a caso legano terra a terra nobilitando ogni luogo che toccano...” E si chiuda così!  

Vakaric (Vaccarizzo Albanese), 16/XII/2023


domenica 3 dicembre 2023

SPIACCIA ANCHE A TE, SE A ME GIÀ SPIACQUE!...

di

Ettore Marino

Premessa prima. Soggiornavo a Cosenza. Alle ore diciotto di venerdì 24 Novembre mi trovavo da un pezzo al Cinema Citrigno. Vi proiettavano l’ultimo film su Bonaparte, e avevo temuto di non trovarvi posto. La sala, invece, era quasi deserta. Napoleon iniziò: regia di Ridley Scott, di David Scarpa il soggetto e la sceneggiatura. Compatii ogni assente. A proiezione consumata, ogni assente invidiai. Saltai la cena per stendere l’articolo. Lo ritoccai il giorno dopo. Fiumi d’inchiostri e di parole altrui avevano intanto sfogato, per video e per gazzette, la stessa mia delusa stizza. Avevo scritto invano. Se pubblico il mio pezzo, è soltanto perché lo trovo un poco meno inutile del film che lo ispirò.

Premessa seconda. Un’arcicara amica, scultrice di talento e fine storica dell’Arte (sentirla dissertare del Caravaggio o del Bernini è quasi averne, e con più nitido sguardo, i quadri e le statue innanzi agli occhi), coltiva un buffo vezzo: reputa degni d’esser visti soltanto i film recenti. Arduo è uccellare il punto esatto in cui secondo lei il vecchio cede al nuovo; per certo, un film vecchio non merita neanche di esistere. Un’idiosincrasia, codesta: lecita solo in quanto tale. Guaio è che lei qui non si fermi, bensì tenti ogni volta di convertirla in concetto e, giacché non lo può, il concetto abortisce ogni volta in una derisoria accusa a chi non condivida la personale sua allergia. So con troppa chiarezza che ogni giudizio estetico è soggettivo ma tende all’universalità; mai ho perciò confuso, nella stesura dell’articolo, quel che risuona in me con ciò che ha da valere per tutti. 

Napoleon, dunque. Mediamente belli i costumi, avvincenti le non impeccabili scene guerresche, color locale indovinato nell’insieme, appropriate le musiche.

Ora sondiamo il baratro. Perenne è la tensione tra invenzione e storia. Si danno sintesi superbe. Napoleon, lungo nastro di scene mal cucite, è il fallimento d’ogni sintesi. Troppi gli errori storiografici: un’assai celebre constatazione del principe di Talleyrand sui modi inurbani del Còrso è senza alcun motivo posta in bocca all’ambasciatore inglese; al contrario di ciò che vediamo, Bonaparte mai fece bombardare le Piramidi; Murat e Leclerc, il cui tempestivo intervento contribuì a faustamente risolvere il colpo di Stato del 18 Brumaio, non sono neanche nominati; taciuto è pure il nome del maresciallo Ney, il quale, promesso ch’ebbe a Luigi XVIII di condurre a Parigi in un gabbione in ferro Bonaparte fuggito dall’Elba, si unì invece, col reggimento intero, a Bonaparte stesso; al Napoleone asceso all’imperiale soglio ci si rivolgeva col titolo di sire, laddove, almeno nel doppiaggio italiano, viene spesso chiamato, e ciò è oltre il grottesco, imperatore; Pio VII, forzoso testimone dell’autoincoronazione a Notre-Dame, sembra un vecchietto isterico che, umiliato dal despota, tenti maldestramente di rizzarsi in piedi snocciolando frasi di circostanza con la voce stentorea e la beota enfasi di un cinegiornalista dell’EIAR; a Waterloo vediamo (inesistite) trincee; mai Wellington andò a visitare Napoleone prigioniero sul Bellerophon; l’eroe esiliato morì a letto, e non, com’è secondo Scarpa e Scott, su una sedia in giardino. Non chiamerei errore, bensì (grata) licenza scenica, il fatto che Marie Antoinette venga condotta al patibolo vestita d’azzurro e con la precocemente incanutita chioma che le danza sugli omeri e intralcia e impaccia l’operato del boia, mentre il capitano Bonaparte, che in verità non c’era, guarda pensoso e preoccupato.

Le due ore e quaranta minuti di film non potevano certo coprire tutti gli snodi storico-epocali che una così vasta epopea chiude in sé. Condotta in modo desultorio e sfilacciato, la necessaria scelta ha intristito non pochi storiografi: per come concepita, e per il fatto stesso che sia stata operata. Personalmente credo che Scarpa e Scott abbiano confidato nella diffusa comune conoscenza del fenomeno Bonaparte, scegliendone i lacerti a loro parsi più succosi. Si aggiunga che sarà quanto prima fruibile una versione piena, di più di quattro ore di durata, buona spero a colmare più d’una lacuna.

Un re di Macedonia disse che nessun eroe è tale per il proprio garzone da camera. Due millenni più tardi, Hegel, che negli eroi a suo modo credeva, commentò che è così per la naturale miopia del garzone, e Schopenhauer ribatté che ogni eroe è tale solo per alcuni rispetti e in alcuni momenti: prima e dopo, è egli uomo tra gli uomini, come ogni cameriere sa. Del Bonaparte uomo la psicologia è sondata nel film per elementari balbettanti occhiate nel suo guscio domestico: occhiate che con pretensiosa definitività ci scodellano un Bonaparte dominato dalla madre e infantilmente infatuato di una Joséphine di cui è geloso al punto da abbandonare la campagna d’Egitto per avere saputo (udite bene!) che lei gli fa le corna. In scene tra di commedia e di filmetto scollacciato, patetiche se volute tali e desolanti se volute non furono, il maltrattato grand’uomo sembra il brodo ristretto d’un cagnolino mal svezzato e d’un troppo voglioso porcello.

Se produttori e casting lo lasciano in pace, ogni regista sceglie gli attori che vuole. Il Robespierre che descrizioni e ritratti hanno depositato nella memoria d’Occidente era un giovane uomo magrissimo, occhialuto, giallastro per frequenti emicranie e mal di fegato perenne - e il Robespierre del film è un cinquantenne cicciosetto. Quanto al Napoleone che ognuno vede con gli occhi dell’anima, era ossuto e crinito da giovane, stempiatello e panciuto nella maturità, e sempre e in ogni istante inquieto, mobilissimo, fulmineo d’occhi, di volontà, d’intelletto... Tirannico è l’immaginario: nella vaghezza sua, nella sua precisione. Ritorno a dire: scelga il regista gli attori che gli aggradano; sia padrone davvero, il regista e ogni autore, dell’opera sua propria. L’immaginario mio, però, qui umile propaggine di quello collettivo, si contorce ferito alla vista d’un Bonaparte plumbeo come Joaquin Phoenix: aspro è infatti aspettarsi un occhio d’aquila per poi doversi accontentare dell’occhio d’un bove stupito.

Mentre il capitano Bonaparte s’ingegna a liberare il porto di Tolone, un proietto gli uccide il cavallo. Portato a termine il suo compito, il vittorioso ufficiale infila un braccio nella carcassa del povero quadrupede, ne estrae la palla che l’ha ucciso e la consegna a non ricordo chi perché la porti a sua madre. Pegno greve di simboli, quel proietto di bronzo. Mi dissi certo che, in ossequio alle leggi e all’arte del narrare, sarebbe ricomparso. Certezza erronea: mai più lo rivedemmo. È un vuoto, un venir meno, un incongruo mancare - una falla biancastra che a guisa di cifra racchiude la vacuità sgraziata dell’intero film.

Vakaric (Vaccarizzo Albanese), 03/XII/2023