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martedì 26 gennaio 2021

L'IMPOSTURA SALVIFICA DI GIORGIO PERLASCA

 di

Mario Gaudio

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, Giorgio Perlasca (1910-1992) fu inviato a Budapest per conto della SAIB (Società Anonima Importazione Bovini) con l’incarico di trattare l’acquisto e organizzare il trasporto del bestiame destinato ad essere macellato in Italia ed inscatolato per le razioni alimentari riservate all’esercito nazionale.

Nonostante la giovane età e la prestanza fisica, il commerciante lombardo fu esentato dal servizio militare, dal momento che vantava all’attivo una duplice esperienza di guerra sui fronti dell’Abissinia e della Spagna franchista.

Tuttavia, il caso o chi per lui lo condusse al posto giusto nel momento giusto trasformandolo in un provvidenziale eroe per migliaia di persone scampate alla morte grazie al suo coraggio.

Enrico Deaglio ne La banalità del bene ricostruisce con documenti, testimonianze e pagine di diario dell’epoca le incredibili vicende di Perlasca, fornendoci il ritratto di un uomo incapace di tacere dinanzi alla incontestabile regressione collettiva generata dal nazifascismo.

All’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943), Perlasca, benché di ideali dannunziani e nazionalisti, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale subendo, di conseguenza, un periodo di internamento in un castello ungherese.

Riuscito fortuitamente a fuggire, trovò accoglienza presso l’ambasciata spagnola esibendo un documento rilasciatogli con senso di riconoscenza dalle autorità franchiste al momento del suo congedo.

Ricevuto un regolare passaporto iberico, l’ormai italo-spagnolo Jorge Perlasca iniziò a collaborare con l’ambasciatore Angel Sanz Briz che, assieme ai diplomatici delle altre nazioni non belligeranti e alla Croce Rossa Internazionale,[1] portava avanti un rischioso programma di salvataggio degli ebrei.

Nell’ottobre del 1944, la situazione degenerò in maniera irreparabile: l’ammiraglio Miklós Horthy ‒ che, anni prima, si era autoproclamato Reggente instaurando un governo marcatamente conservatore ‒ fu deposto da un colpo di stato promosso dal filonazista Ferenc Szálasi e le SS occuparono i punti nevralgici di Budapest iniziando una sistematica operazione di rastrellamento e deportazione degli ebrei ungheresi.

Dinanzi al precipitare degli eventi, Sanz Briz fu costretto a lasciare l’ambasciata per raggiungere Berna consigliando al suo collaboratore di fare altrettanto, ma le violenze dei tedeschi, le vergognose cacce all’uomo dei nyilas[2] e la speranza di una rapida avanzata dell’Armata Rossa indussero Perlasca a dare inizio ad una pericolosissima quanto essenziale messinscena.

Armato di prontezza di spirito e profondo senso di umanità, l’uomo si fece accreditare presso il Ministero degli Esteri in qualità di Console di Spagna incaricato di sostituire l’ambasciatore appena partito. Sotto queste mentite spoglie, resse la legazione iberica per 47 interminabili giorni (1 dicembre 1944 - 16 gennaio 1945) sostenuto da un alto senso di responsabilità e dai saggi consigli dell’avvocato Zoltán Farkas.

Sfruttando l’istituto dell’extraterritorialità e la spregiudicatezza che solo un falso diplomatico avrebbe potuto permettersi, Perlasca fece ricoverare in case protette migliaia di ebrei ungheresi a cui rilasciò salvacondotti che li ponevano sotto la formale tutela della Spagna in virtù di una antica legge del 1924 emanata da Miguel Primo de Rivera.[3]

Durante il rigido inverno di guerra del 1944, con le Croci Frecciate ungheresi costantemente alla ricerca di ebrei da deportare e le innevate sponde del gelido Danubio ricoperte di cadaveri, l’autonominato Console vagò in cerca di alimenti e medicinali scontrandosi più volte con le gerarchie militari e blandendo le personalità politiche dell’esecutivo di Szálasi con la vaga promessa di un riconoscimento ufficiale da parte del governo spagnolo.

Mediante un’azzardata strategia organizzativa e con risorse sempre più esigue Perlasca riuscì a garantire la sopravvivenza di intere comunità sino all’arrivo delle truppe sovietiche.

Ciononostante, come spesso accade, questi eventi furono per lungo tempo sepolti dal silenzio della Storia e dall’incredulità di quanti ascoltarono il racconto di Perlasca subito dopo il suo ritorno in patria.[4]

Soltanto nel 1987 i ricordi della contessa Irene von Borosceny e l’intraprendenza di un gruppo di donne che si riunivano periodicamente presso il salotto berlinese dell’immunologa Eveline Willinger consentirono di riportare alla luce la vicenda del commerciante comasco diventato, per uno strano scherzo del destino, finto diplomatico iberico.

Il lavoro certosino di Deaglio ci ha offerto un ritratto completo di questo “impostore” geniale e salvifico che si è opposto all’ordinario massacro condotto dai nazifascisti ascoltando le suppliche e abbracciando le necessità di una umanità oltraggiata, avvilita e deturpata nella nobile e cristiana terra d’Ungheria.

L’esemplare condotta di Giorgio Perlasca, che ha guadagnato ‒ giorno dopo giorno ‒ la dilazione dei trasferimenti di intere famiglie verso i campi di sterminio, ha, in un certo qual modo, riscattato le brutture e le delazioni di tanti riprovevoli burocrati che, attratti dal richiamo del denaro e della corruzione, hanno preferito vendere ai carnefici il loro prossimo. Da ciò affiora con nitore l’immagine di un uomo normale che, quasi suo malgrado, divenne eroe e modello per le generazioni successive.

L’odio nasce dal nulla e al nulla conduce ottenebrando la capacità di giudizio e alimentandosi attraverso la deprecabile indifferenza che trasforma il comune cittadino in un boia incallito e sprezzante.

Il protagonista di un noto film sulla shoah chiosava: «Chiunque di noi abbia pensato di essere stato creato da Dio migliore di qualsiasi altro essere umano si è trovato nella stessa condizione di Eichmann, e chi di noi ha consentito che la forma del naso di un’altra persona o il colore della sua pelle o la maniera in cui venera il proprio Dio avvelenassero i propri sentimenti ha conosciuto la perdita di senno che ha condotto Eichmann alla sua follia, perché è così che tutto è cominciato per coloro che hanno compiuto questi orrori»;[5] l’esempio di Perlasca ha mostrato concretamente l’esistenza della possibilità di resistere alla tentazione della «banalità del male».

Bertolt Brecht denunciava amaramente la narcosi delle coscienze lamentando l’afasia degli intellettuali ‒ «Nei giorni a venire non diranno: i tempi erano oscuri. Diranno invece: perché i poeti tacevano?» ‒ ma, in quegli stessi anni, Giorgio Perlasca, poeta della vita, faceva risuonare la sua voce protettiva oltre il fragore delle granate che cadevano su Budapest.

 Spixana (Spezzano Albanese), 26/I/2021



[1] Nell’autunno del 1944, solo uno sparuto numero di personalità della diplomazia affiancò la Croce Rossa Internazionale, capeggiata da Friedrich Born, nella difesa della comunità ebraica ungherese. È giusto fare memoria dei loro nomi: l’ambasciatore spagnolo Angel Sanz Briz, il console generale svizzero Charles Lutz, il ministro svedese Carl Ivan Daniellson, Raul Wallenberg (inviato speciale del re Gustavo di Svezia), il console onorario portoghese conte Pongracz e il Nunzio apostolico monsignor Angelo Rotta.

[2] Bande di militanti filonazisti ungheresi.

[3] Il dittatore Miguel Primo de Rivera (1870-1930) riconobbe, nel 1924, la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei sefarditi sparsi per il mondo.

[4] L’incredibile avventura di Perlasca fu raccontata invano ad Alcide De Gasperi, a Giuseppe Pella e al “Messaggero Veneto”.

[5] Il film in questione è The Eichmann Show – Il processo del secolo del regista Paul Andrew Williams (2015).

martedì 12 gennaio 2021

IL SAPIENTE E LA CITTÀ: IPPOCRATE, DEMOCRITO E LA FOLLIA

 di

Mario Gaudio

La lettura delle Lettere sulla follia di Democrito, egregiamente curate da Amneris Roselli, ci restituisce un quadro confortante su quello che fu ‒ e, ahimè, non è più, ma potrebbe e dovrebbe tornare ad essere ‒ il rapporto fecondo tra l’intellettuale e il suo ambiente.

È evidente che lo scritto, databile con buona approssimazione al I secolo a. C., è figlio di tempi remoti e solidali in cui le città amavano i loro sapienti e ne erano riamate, ma è altrettanto palese il fatto che la problematica di fondo sia di estrema attualità in relazione alla nostra società consumistica ed ipertecnocratica, ma fondamentalmente regredita in termini di valori culturali e di tutela delle arti e dei loro rispettivi rappresentanti.

Se a ciò si aggiungono il dilagante disinteresse da parte delle giovani generazioni, la riduzione ai minimi termini della gloriosa attività della critica militante, l’utilizzo improprio da parte della politica di manifestazioni culturali ‒ colpevolmente degradate e volutamente ridotte a mera vetrina autoreferenziale ‒ e, non ultime, le dolorose quanto necessarie restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19, lo scenario che ne affiora è oggettivamente catastrofico.

Lungi dal voler alimentare polemiche e a debita distanza dalle querule quanto sterili geremiadi dei presunti intellettuali da tastiera, la presente recensione si condensa in un invito lapidario e pressante: tornare a leggere e ad attualizzare i classici della letteratura e della filosofia.

L’insegnamento ultimo delle Lettere consiste proprio nella costruzione di una visione del mondo alternativa basata sulla presa di coscienza delle contraddizioni dell’essere umano.

L’epistolario di Ippocrate può essere idealmente suddiviso in tre sezioni razionalmente legate dal fil rouge della costante attenzione nei confronti dell’Uomo e dalla volontà di comprenderne sino in fondo la natura.

Nella prima parte (Epistole 1-9) è raccontato l’antefatto che proietta una luce chiarificatrice sulla figura di Ippocrate e sul rapporto con i suoi concittadini di Cos.

Il re persiano Artaserse, il cui esercito è flagellato da una mortale e misteriosa epidemia,[1] chiede, promettendo in cambio immense ricchezze, l’intervento del medico greco che, preceduto dalla fama e da una presunta discendenza divina che lo collegherebbe addirittura ad Asclepio,[2] non fa tuttavia tardare il suo diniego giustificandosi col rispondere: «[…] non mi è lecito godere delle ricchezze dei Persiani né porre fine alle malattie di barbari che sono nemici dei Greci».[3]

Alla minaccia del sovrano straniero, i Coi rispondono coraggiosamente che «[…] non consegneranno Ippocrate, neppure se dovessero morire della morte peggiore»,[4] facendo affiorare un leale e profondo attaccamento verso il loro illustre conterraneo.

Nella seconda parte (Epistole 10-21) si dà spazio alla preoccupazione di un’altra città, Abdera, il cui saggio, Democrito, si è ammalato «[…] per il troppo sapere che lo possiede»[5] al punto da essere considerato vittima di una follia che si manifesta con l’isolamento e una costante e scriteriata risata.[6]

Ancora una volta viene chiesto aiuto ad Ippocrate che, quasi commosso dalle concitate suppliche degli Abderiti e confortato da un presagio positivo ricevuto in sogno,[7] cede all’invito recandosi a far visita al sapiente filosofo.

Nell’epistola 17 è descritto con palpitante e pittorico realismo il momento dell’incontro tra i due intellettuali: «Democrito sedeva sotto un platano basso e dalla grande chioma; vestiva una tunica spessa, da solo, scalzo era seduto su di un sedile di pietra, pallido ed emaciato, con la barba lunga. Vicino a lui, alla sua destra, cantava tranquillo un piccolo rivo d’acqua che scendeva lungo il pendio della collina. Sulla collina c’era un santuario, a quel che si poteva arguire dedicato alle Ninfe, ricoperto di vite selvatica. Egli, in atteggiamento di grande compostezza, teneva un libro sulle ginocchia mentre altri erano sparsi a terra attorno a lui; c’erano anche ammucchiati molti animali che erano stati completamente sezionati. Egli ora si piegava concentrato nella scrittura, ora restava a lungo immobile pensando e riflettendo tra sé; poi dopo un po’ si alzava, si aggirava osservando le viscere degli animali, le riponeva e tornava a sedersi».[8]

Il presagio favorevole, la placidità del locus amoenus e il lucidissimo ragionamento democriteo, che giustifica il riso come risultato della riflessione sulla banalità degli affanni dell’Uomo,[9] trasformano Ippocrate costringendolo a smettere i panni del medico-guaritore per indossare quelli del guarito.

Non c’è più dubbio alcuno sulla sanità mentale del sapiente abderita e sulla incomprensione ‒ benché giustificata dalla buona fede e mitigata dal profondo affetto ‒ dei suoi concittadini.

Nella terza ed ultima sezione (Epistole 22-24) sono contenute una sintesi delle conoscenze mediche dell’antichità ‒ con particolare riferimento alle varie sedi anatomiche umane ‒ e una serie di consigli per condurre un regime di vita salutare.

L’impianto dell’intera opera si basa, come accennato in precedenza, sulla attenta analisi delle contraddizioni dell’esistenza e sul loro necessario superamento.

Tuttavia, al di là delle questioni prettamente filosofiche, l’epistolario di Ippocrate veicola a gran voce l’urgenza di ristabilire legami ed equilibri tra la figura del sapiente e la comunità di appartenenza, così come il riso democriteo, assolutamente privo di forza sovversiva o spirito carnevalesco come vorrebbe erroneamente Bachtin,[10] ha come palese obiettivo quello di superare banalità e radicate ipocrisie per un ritorno all’essenziale che, di conseguenza, indurrebbe a riscrivere in chiave positiva i rapporti sociali.

Possano questi antichi e savi auspici guidarci nella costruzione delle relazioni post-Covid!

 Spixana (Spezzano Albanese), 12/I/2021

 



[1] «Senza combattere veniamo vinti, il nostro nemico è una fiera che fa scempio delle greggi; molti ne ha feriti ed è difficile curarli; scaglia su di noi amare frecce su frecce» (Epistola 1).

[2] Divinità protettrice dell’arte medica.

[3] Epistola 5a.

[4] Epistola 9.

[5] Epistola 10.

[6] «Dimentico di tutto, e in primo luogo di se stesso, veglia giorno e notte ridendo di tutto, delle piccole cose e delle grandi, e pensa che la vita non sia nulla» (Epistola 10).

[7] Nell’Epistola 15 si descrive la visione onirica nella quale Asclepio, accompagnato da serpenti («rettili enormi […] che incalzavano con grandi sibili») e da un seguito di personaggi che recavano «ceste di farmaci ben chiuse», rassicura il suo discendente con tali parole: «In questa circostanza non hai nessun bisogno di me, ma ora questa dea [la Verità, n.d.a.], comune agli immortali e ai mortali, ti guiderà».

[8] Epistola 17.

[9] Democrito spiega le motivazioni del proprio riso in questi termini: «Ma io rido solo dell’uomo, pieno di stoltezza, vuoto di azioni rette, infantile in tutte le sue aspirazioni, che dura le peggiori fatiche per non ricavarne alcun vantaggio, che con i suoi desideri smisurati percorre la terra fino ai suoi confini e penetra nelle sue immense cavità, fonde l’argento e l’oro e non smette di accumularne, si affanna ad avere sempre di più per essere sempre più piccolo. Non si vergogna di essere ritenuto felice perché scava le profondità della terra con le mani di uomini incatenati: di essi alcuni muoiono sotto crolli di terra, altri, in lunghissima servitù, vivono in quella prigione come nella loro patria; cercano argento e oro, frugando tra polvere e detriti, spostano mucchi di sabbia, aprono le vene della terra per arricchirsi, fanno a pezzi la madre terra. Ed è un’unica terra, quella stessa che percorrono pieni di ammirazione! C’è davvero da ridere; amano la terra nascosta, che affatica, ed oltraggiano quella che possono vedere! Alcuni comprano cani, altri cavalli, altri, ponendo i confini, segnano come loro un grande territorio e mentre vogliono essere padroni di molta terra non lo sono neppure di se stessi» (Epistola 17).

[10] Cfr. in proposito Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 2001 (1979).

domenica 3 gennaio 2021

"OCCHI CHE ABBRACCIANO", UN DIARIO DELLA PANDEMIA

 di

Mario Gaudio

Sin dai primi istanti di vita, gli occhi esplorano la realtà circostante e veicolano emozioni attraverso cui interpretare i moti più o meno consapevoli dell’animo umano.

Essi diventano lo strumento principale per affrontare la complessità del reale e sono gli indiscussi protagonisti della narrazione di Grazia Ciappetta.

Occhi che abbracciano è a tutti gli effetti un diario della pandemia, un riuscito resoconto della surreale situazione in cui il Covid-19 ci ha, nostro malgrado, relegati.

A prescindere dai dati medici, dall’andamento epidemiologico, dalle flessioni della famigerata curva statistica, l’autrice racconta, con apprezzabile semplicità, la quotidianità vissuta e le difficoltà delle relazioni regolamentate dalle varie deliberazioni governative, mediate dagli ormai familiari dispositivi di protezione e favorite fortunatamente dalla tecnologia e dai tanto ingiustamente vituperati social.

Nelle pagine si susseguono le impressioni suscitate da vicende ‒ quali un parto, una laurea o una festa di compleanno ‒ che, in tempi normali, risulterebbero addirittura banali, ma che in questo periodo burrascoso diventano momenti a dir poco eroici, figli di una agognata normalità che stentiamo a recuperare.

Le interminabili giornate vissute in casa mutano radicalmente gli stili di vita e se da un lato consentono di riassaporare il valore della frugalità e di riconquistare gli spazi spesso non vissuti a causa della frenesia impostaci dalla società capitalistica, dall’altro favoriscono il riemergere di antichi ricordi che riportano alla mente stralci di esistenza positivi e negativi, obbligandoci a sanare antiche ferite spirituali e a regolare i conti con gli inevitabili fantasmi interiori.

Tuttavia, citando la saggia osservazione dello scrittore Andrea D’Auria, «[…] i ricordi sono come morfina: vanno bene a piccole dosi per rimetterti in sesto, ma non ci puoi vivere» e Grazia Ciappetta fa tesoro di questo insegnamento trasformando il tempo delle restrizioni in un dono per la comunità, trasmutando i giorni dell’incertezza in una «terapia d’amore» concretizzatasi nelle ore trascorse come volontaria ospedaliera presso il nosocomio di Cosenza.

In tutto ciò gli occhi e lo sguardo diventano potenti mezzi di comunicazione per costruire rapporti empatici al di là delle voci attutite dalle mascherine o dei gesti smorzati dal necessario distanziamento.

Lo stesso periodo di quaresima ‒ denso di significato come non mai in questo infausto anno appena trascorso ‒ diviene occasione propizia per associare in un abbraccio ideale e solidale gli occhi affannati e stanchi dei ricoverati con quelli speranzosi e devoti dei “vattienti” di Cassano Allo Ionio ‒ città natale dell’autrice ‒ al fine di riunire in un’unica oblazione le sofferenze di un’umanità che si è riscoperta inaspettatamente fragile.

Le parole di Grazia Ciappetta procedono con sobrietà, con quel passo felpato che è necessario adottare dinanzi al dolore, e costituiscono un’ottima lettura per comprendere un tragico evento di portata storica di cui siamo, purtroppo, tuttora protagonisti.

Spixana (Spezzano Albanese), 03/I/2021