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domenica 29 maggio 2022

TRE STORIE E MEZZA E UNA RICHIESTA

 di

Ettore Marino

Prima storia. Inghilterra, pochi anni prima dello scoppio della grande guerra.  Lord Guildroy (così mi pare che si chiamasse e così tento di scriverlo) è un giovane e sensibile proprietario terriero. Lavora per lui un contadino di cui non ricordo affatto il nome e che pertanto chiamerò Queltale. Guildroy ama, riamato, una dolcissima ragazza bionda. Sposa invece una bruna: fascinosa nervosa misandra. Una volta che tenta di baciarle la nuca, lei lo allontana con impeto rabbioso. Neanche di lei ricordo il nome. La chiamerò pertanto lady Nonbaciarmi. La guerra scoppia, e lord Guildroy e Queltale sono mandati a combattere in Francia. Queltale è rispedito a casa in preda a un’atroce nevrosi di guerra. L’affetto della moglie e le cure dei medici lo riabilitano quel po’ che basti a tornare al carnaio. Vi sarà ucciso. Guildroy, più fortunato, è soltanto ferito a un ginocchio. Gliene deriverà una lieve perenne zoppìa. Lady Nonbaciarmi, suffragetta e pacifista, raggiunge il fronte per fare da infermiera. Vi troverà la morte. La guerra è vinta. Guildroy ritorna a casa. Torna a incontrare l’antico suo amore. La passione, stavolta, ha giusto compimento. 

Seconda storia. Londra, anni Trenta del Millenovecento. Un uomo di mezza età, che vive ai limiti del barbonaggio, trova su una panchina una splendida bambola. Se ne impossessa. Non visti, due loschi tipi osservano la scena. Si dileguano quindi tra gli alberi del parco. Il barbone ripone la bambola nel tugurio in cui abita, e va alla bettola a bere un whisky. Il bettoliere bara sul prezzo, ma il barbone lo smaschera con vigile e composta ironia. Tempo dopo legge sul giornale un succulento annuncio: nel tale parco una bimba ha smarrito una bambola fatta così e così; chi mai l’avesse trovata è pregato di portarla al tale indirizzo; sarà ricompensato con la tal cifra di sterline. Anche i due loschi tipi hanno letto l’annuncio, e stanno sul chi vive nella speranza di incontrare il barbone. Lo scorgono infatti attraversare il parco con la bambola in mano, e prendono a seguirlo con chiarissime tristi intenzioni. Lui s’accorge di loro. Raggiunge la destinazione: è una dimora signorile, circondata da un alto recinto. Suona al cancello. La madre della bimba lo accoglie con affabile grazia. È una donna ancor giovane e bella. I due conversano, conversano a lungo. L’uomo palesa saggezza, bontà, padronanza assoluta di lessico e concetti. S’accorge a un tratto d’un quadro appeso alla parete. Ne individua a un’occhiata l’autore, muove rilievi critici pertinenti. Per un attimo, la dama cui la vita sorride e il rudere che la vita ha sospinto, chissà come e perché, ai margini dell’umano consorzio, comunicano, lieti, in uno stato di parità perfetta. Ma è l’ora ch’egli se ne vada, e la dama, che lo ha ricompensato col gruzzolo promesso, gli chiede se abbia bisogno di altro. Lui la prega d’essere accompagnato a casa dall’autista. Dai vetri del finestrino saluta con un cenno di triste derisione i due loschi tipi che lo hanno atteso un po’ oltre il cancello.

Terza storia. Stati Uniti d’America, in sul finire del diciannovesimo secolo. Un laido giudice corrotto è solito inviare quanti più può tra colpevoli e innocenti a lavorare in una miniera di sua proprietà, incatenati a due a due, e sotto l’occhio di un sorvegliante che si rivelerà assai meno sadico di quanto non appaia, giacché fornisce ai protagonisti del film, tra i quali è un povero malato di mente, alcuni candelotti di dinamite che essi useranno per isolare l’entrata della galleria meno profonda. Raspando come talpe, tenteranno di aprirsi un cunicolo che li conduca alla salvezza. Hanno una torcia sola, e scavano verso l’alto, assetati di aria. La fiamma s’affiochisce di istante in istante, forza e speranza cedono, finché lo psicopatico, per impeto rabbioso, sommuove sassi e terriccio, l’aria ridà vigore alla fiamma ai tendini ai polmoni, e un cielo generoso di stelle infonde loro certezza che l’incubo è finito.

Frammento di storia. Stati Uniti d’America, anni Settanta del Millenovecento. Una coppia di ricchi pensionati suole trascorrere le vacanze estive in un incantato paesello. Tutti sono gentili, umani, premurosi. È soave ai due vecchi scambiare chiacchiere e sorrisi con i baristi, col meccanico, con la padrona del drugstore. Soave ancor di più passare il tempo in compagnia dei benzinai, giovane coppia sposata non da molto e in evidente attesa d’un nascituro. L’estate passa, l’anziana coppia fa i bagagli e, dopo un giro di saluti, s’allontana lasciando rimpianto e certezza di ritorno, l’estate che verrà. Prima di giungere in città, balena a entrambi il desiderio di tornare al fatato paesello a trascorrervi pure il mese di Settembre. E vi tornano, infatti: ma tutti, proprio tutti, si mostrano scorbutici e villani. Fingono addirittura di non riconoscerli. Il benzinaio arriva a minacciare di percosse il vecchio, colpevole di aver sorriso troppo a lungo alla sua giovane consorte. Qui bussarono all’uscio. L’uscio di casa mia, intendo. Corro ad aprire: è una famiglia di parenti. Li fo accomodare in salotto, ho già avvisato i genitori, mi trattengo un pochino con gli inattesi ospiti: parenti, ho detto, ma rompicazzo neanche un po’. I miei compaiono, torno alla TV, ma il telefilm è già finito. Perché quel bieco mutamento d’animo in un villaggio già tutto gioviale? Ci ripenso, talora, e me lo chiedo invano.

Tutto quanto narrato avevo seguito per TV nei primi, primissimi anni Ottanta. La storia di lord Guildroy era sceneggiata a puntate; le altre, un episodio singolo. Compongo queste righe in un algido pomeriggio di Gennaio del 2022. Non ho dormito bene, e un’ossessione mi dondola nel cranio. Ma di ciò poco importa. Quando codesto scritto sarà pubblicato, amiche e amici, lo invierò, come sempre, ad ognuno di voi per quella angelica diavoleria che ha il buffo nome di WhatsApp. Chi sapesse qualcosa delle storie che ho squadernato: regista, titolo, eventuale fonte letteraria, eccetera, è caldamente pregato di fornirmelo: è ovvio, per WhatsApp.

Sto per chiudere. Immagino che quando leggerete queste mie parole sia già primavera inoltrata. La furiosa speranza che la peste sia allora defluita mi fa battere il cuore. Possa averci lasciati per davvero! Con ciò, vi abbraccio tutte e tutti!    

 Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 29/ V/2022

domenica 22 maggio 2022

DAL CORPO DI LUCREZIO

 di

Ettore Marino

Concepito a fugare ogni angoscia squadernando, illustrando, martellando la scienza che un greco aveva offerto agli uomini perché avessero pace, il poema di Lucrezio, per tutto il corpo dei suoi versi, lascia rincorrersi due voci, una di pena e una di vittoria, e tu non sai a quale hai da porgere orecchio. La scienza è quella di Epicuro. Nel vuoto, gli atomi vanno eternamente, secondo linea retta. Un inatteso scarto di questo o quell’atomo consente aggregazioni, e ne nascono i mondi. Perire, è il disgregarsi degli atomi. Perituro è ogni ente, ogni mondo. Immortali gli dèi, beati perché indifferenti; immortali, poiché indistruttibili, gli atomi stessi. L’uomo è corpo, è anima vegetativa emotiva senziente, è razionale animus. Corpo anima animus si disferanno insieme. Non c’è ragione di temere la morte, o l’ira degli dèi, o punizioni ultraterrene. L’uomo è nato debole e impaurito in un mondo ostile. La civiltà gli ha fornito alcune sicurezze. Ma è soltanto il sapersi mortale, e il saperne le cause, a liberarlo dal terrore. Generosa illusione: di Epicuro, e non già di Lucrezio, il trionfo sull’angoscia. Ogni tentata lettura razionale delle cose ci fa eminentemente uomini; ma se per essa leggi pena e certezza di morte, vi trovi o non vi trovi pace secondo il tipo umano cui appartieni: serenità crepuscolare in ogni frase di Epicuro, urlo (superbamente modulato) di felicità in Lucrezio: ma una felicità urlata è sorella, però, dell’aura che precede la crisi epilettica, e nel De rerum natura anche i momenti di gioia e di luce sono percorsi da un alto invisibile brivido. 

Poesia libererà il lettore. Migliaia e migliaia di esametri per una voce che non ha forse eguale in potenza. Immagini da immagini, concetti su concetti, cose che danno moto ad altre cose: alid ex alio, cioè “altro da altro”, giacché il poema intende dire l’universo e le cose: una dall’altra, appunto, più che una ad una... Spiacquero a molti i nessi prosastici, e non poche durezze. Spiacciano pure. Noi, amici, ridiamone: poiché solo Lucrezio ti sa abbacinare di quapropter, di quod superest, di praeterea, e tu hai gioia, alla fine, d’esser rimasto senza fiato. Poesia e non poesia: Lucrezio è poeta anche là dove non lo è. Se non sai il latino, piangi sui miei gheroni. Te ne offro tre soli. 

I, 1-43 Voluttà dei mortali, voluttà / degli dèi, madre dei romani, Venere / nutrice, sotto gli astri che trascorrono / il cielo, tu vivifichi le acque / che navi e navi solcano e la terra / generosa di frutti: grazie a te / si forma ciò che vive, e sboccia, e vede / luce di sole. Te fuggono i venti, / te le nubi del cielo, a te la terra / industriosa dà fiori, a te sorridono / l’acque del mare e splende di diffusa / luce pacato il cielo. Quando appare / primavera tra i giorni, quando erompe / favonio e spira e cresce a dare vita, / colpiti in cuore dalla tua potenza / ti annunziano gli uccelli, dea. Le fiere / e gli armenti percuotono i fecondi / campi, s’avventano sui fiumi: ognuno / prigioniero di te, te segue ovunque / tu voglia. E per l’amore che nei petti / infondi dolce ad ogni creatura, / sui monti, in mare, per i rapinosi / flutti dei fiumi, pei campi verdissimi, / tra le frondose case degli uccelli, / imponi che le stirpi riproducano / se stesse in terra. Governi tu sola / le cose, e nulla senza te si leva / ai campi della luce, e nulla è bello / e nulla è lieto senza te. Aiutami. / Sulla natura delle cose intendo / scrivere versi al diletto rampollo / dei Memmi, cui tu fosti sempre prodiga / di doni, e vuoi che in tutto eccella. Infondi / eterna grazia a ciò che detto. Placa / per le terre pei mari ogni feroce / moto dell’armi. Tu sola ai mortali / puoi dare pace. Marte armato spiega / guerra, ed è guerra. Pure, nel tuo grembo / si rifugia, trafitto dall’eterna / lancia d’amore, piega indietro il nobile / collo, disseta in te gli occhi riarsi / d’amore, e la tua bocca gli è respiro. / E quando posa sul tuo santo corpo, / quando lo cingi, sussurragli miti / parole, impètra, o gloriosa, pace / per i romani. Giorni orrendi, i nostri. / Scrivere mi dà pena, né potrà / la chiara stirpe di Memmio sottrarsi / al compito, che è suo, di una salvezza.

II, 352-366 Spesso dinanzi agli stupendi templi / degli dèi, immolato, accanto all’are / fumanti incenso, cade un vitellino / in un fiume di sangue che gli sgorga / caldo dal petto. E va la madre, orbata,  / per balze verdi, scruta il suolo in cerca / d’orme bisulche, figge in ogni dove / gli occhi, vuole il giovenco che ha perduto. / Si ferma. Colma di lamenti il bosco / frondifero, mai cessa di tornare / alle stalle, trafitta dall’amaro / desiderio del figlio. E non i teneri / salci, non l’erbe vive di rugiada, / non l’acque che per clivi inarrivati / cadono le consolano la pena, / le addolciscono il cuore, né la vista / d’altri vitelli pei campi fecondi / la distrae, le può smorzar l’affanno. / Un che di suo, soltanto suo, lei cerca.

III, 634-669 Per tutto il corpo è senso, anima, vita. / Se una qualsiasi forza lo divide / rapida in due tronconi, scinderà / pure l’anima. E ciò che frangi in brani / come pretende d’essere immortale? / Si narra che roventi di confusa / strage i carri falcati fanno a pezzi / umane membra tutt’a un tratto sì / che vedi in terra tremolare ciò / che reciso è caduto, e la sorpresa / allontana il dolore dalla mente / del guerriero che, avido di strage, / cerca ancora battaglia, e non sa ancora / che la sinistra che ha perduto con / lo scudo, tra i cavalli, le rapaci / falci e le ruote portan via. Un altro / salta sul carro, e incalza, e gli è caduta / la destra. Un altro tenta di levarsi / sulla gamba che ha perso, e lì sul suolo / il piede muore agitando le dita. / Anche un capo reciso serba a terra / vivido volto, occhi di luce, e muore / quando ha perduto ogni resto di anima. / Ora, considera un serpente. Vibra / la lingua sua, l’immane corpo termina / in una coda minacciosa. Se / l’hai fatto a brani col ferro, ogni brano / si torce, insozza di putrido sangue / il suolo, pel dolore che lo brucia / s’avventa il capo ad addentare il brano / vicino. E chi direbbe mai che in ogni / troncone vi sia un’anima? Sarebbero / tante, così, le anime in un solo / corpo. Così non è. Ciò ch’era uno / col corpo fu diviso, ed è perito,  / proprio perché diviso, insieme al corpo.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 22/V/2022 


venerdì 20 maggio 2022

"LA TORRE ROSSA": TRA MAGIA E VIAGGI NEL TEMPO

 di

Mario Gaudio

Com’è facilmente deducibile, il secondo libro di una trilogia è quello in grado di imprimere il carattere all’intera opera e di determinare la validità di un percorso creativo che l’autore inizia sulle ali dell’entusiasmo con il primo volume e conclude con i risultati ‒ che possono essere soddisfacenti o meno ‒ del terzo volume.

Nel secondo libro di qualsiasi trilogia si combatte pertanto una battaglia campale contro quella che Italo Calvino definiva «[…] l’angoscia del vuoto che s’apre davanti alla penna»[1] i cui esiti saranno decisivi per le sorti complessive del prodotto letterario.

Ilina Sancineti affronta questa prova con successo, offrendoci ne La torre rossa un solido trait d’union tra le avventure di Decimus e quelle di un volume seriore già in fase di pubblicazione.

La giovane autrice decide di segnare il passaggio tra il primo e il secondo libro della trilogia attraverso un personaggio particolare, Marcus Mèvelo, la cui vicenda esistenziale ‒ fatta di incubi, sovrumani poteri, duro addestramento militare e una graduale e dolorosa presa di coscienza della propria reale identità ‒ costituisce il nerbo dell’intera narrazione.

Ancora una volta, come nel caso del già citato Decimus, ci troviamo dinanzi ad un romanzo politematico che si dipana in una realtà complessa nella quale, per dirla con le parole di un celebre film statunitense, «[…] l’ordine e il caos avvolgono il mondo, [e] spesso uno ha le sembianze dell’altro»[2].

Tutto ciò non deve comunque intimorire il lettore che, a ben vedere, è costantemente guidato dall’autrice verso una meta definita: quella della liberazione dei protagonisti da una antichissima maledizione che grava su di loro da secoli affliggendone e svuotandone le esistenze.

Marcus Mèvelo, Layamon e Logan patiscono l’anatema lanciato nel 1018 contro la loro stirpe dal tremendo inquisitore Achille Portos. Dopo inenarrabili tormenti, quando i conti con il passato sembrano essere ormai saldati, una richiesta di aiuto giunge accorata dall’abisso del tempo e si manifesta nel presente attraverso i deliri di Robert Mèvelo, affermato docente di medicina incautamente rinchiuso in una clinica psichiatrica del Colorado.

Compare dunque il tema dell’alienazione mentale che, nell’opera della Sancineti, assume una valenza del tutto particolare. La letteratura ‒ come del resto la realtà ‒ pullula di matti, ma la follia di Robert non è certo quella artificiosa e giocosa di Orlando che perde il senno nel poema dell’Ariosto, ma ricorda piuttosto quella tetra, enigmatica e terrificante malattia che annienta il pittore Edgar Stark, geniale e sanguinario protagonista di un finissimo romanzo dell’inglese Patrick McGrath intitolato per l’appunto Follia (1996).

Robert Mèvelo è ritenuto folle in quanto incompreso depositario di un messaggio non rientrante nell’ordine abituale delle cose, ma è attraverso la sua figura che Logan può far giungere al cugino e sodale Layamon un disperato grido di soccorso, affinché le vicende del passato possano essere modificate in senso positivo e le vicissitudini future possano essere preservate dagli attacchi del Male.

La richiesta, contemporaneamente sublime e tremenda, che Layamon si sente recapitare è quella di un viaggio nel tempo, di un ritorno al Medioevo per riavviare in maniera corretta i complessi ingranaggi della Storia e ritrovare per sé e per i suoi discendenti quella serenità perduta a causa della ancestrale maledizione.

Ci si imbatte quindi in un tema molto caro alla letteratura di ogni epoca e latitudine: quello di ripercorrere a ritroso i secoli sfidando le leggi della fisica e, soprattutto, cercando di aggirare quell’implacabile paradosso in virtù del quale ogni viaggiatore del presente potrebbe alterare la storia del passato provocando danni irreparabili al futuro.

La Sancineti si collega brillantemente ad un filone artistico che, se nel cinema ha espresso una serie cult solamente negli anni Ottanta del Novecento ‒ mi riferisco ovviamente alla trilogia Ritorno al futuro prodotta da Steven Spielberg ‒, nel contesto letterario dimostra di avere origini ben più remote: non a caso una delle testimonianze più arcaiche di viaggio nel tempo risale al racconto Il mago rimandato, scritto tra il 1330 e il 1335 dal principe spagnolo Don Juan Manuel. 

Trattandosi nello specifico di un ritorno al passato, non si possono non ricordare velocemente almeno tre ulteriori esperienze letterarie di successo: Gli antenati di Kalimeros del russo Aleksander Veltman (1836), Un americano alla corte di re Artù di Mark Twain (1889) e L’orologio che andava all’indietro dello statunitense Edward Page Mitchell (1881), opera fondamentale dal momento che il ritorno ai secoli precedenti avviene per mezzo di un oggetto meccanico che può essere considerato una sorta di antesignano delle successive macchine del tempo.

Ritornando al nostro romanzo, constatiamo che il passaggio dal presente al Medioevo può avvenire soltanto attraverso un corridoio spaziotemporale conosciuto come “Varco di sangue” che il lettore dal palato raffinato non tarderà ad associare allo spaventoso “maelström” nel quale sprofondano gli sventurati pescatori norvegesi protagonisti del racconto Una discesa nel Maelström (1841) di un gigante della letteratura fantastica del calibro di Edgar Allan Poe (1809-1849).

Un’indagine più approfondita dell’episodio del viaggio nel tempo ci consente addirittura di azzardare un’ipotesi interpretativa di tipo psicologico: nulla vieta infatti di intravedere in questa innaturale azione di ritorno al passato la metafora di un vero e proprio scavo nei meandri dell’anima al fine di raggiungere una agognata catarsi. Ne consegue che i messaggi trasmessi da Logan ai suoi discendenti per mezzo del sogno diventino in realtà immagine degli impulsi del subconscio capaci di trovare fertile terreno espressivo attraverso l’attività onirica e il sonno che, prendendo a prestito una felice espressione di Baudelaire, si configura come «[…] il viaggio avventuroso di tutte le notti» e il «miracolo la cui puntualità ha attenuato il mistero»[3].

Le migrazioni spaziotemporali raccontate dalla Sancineti sono inscindibili dal tema della magia che abbonda nelle pagine de La torre rossa e si palesa in figure dai poteri soprannaturali ‒ vedi i membri della famiglia Mèvelo, il redivivo Rufus e la provvidenziale maga Artemisia ‒, ma anche in vetusti volumi contenenti enigmatiche formule fatte oggetto di studio dal vecchio e saggio fra’ Elia.

Del resto, se da un lato la magia consente di relativizzare lo spazio e il tempo degli eventi narrati, dall’altro permette al volume della nostra autrice di incanalarsi in una fortunata scia letteraria della modernità che annovera capolavori del fantastico quali la trilogia de Il Signore degli anelli di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) e la saga del celeberrimo maghetto occhialuto Harry Potter della scrittrice inglese J. K. Rowling.

A fare da naturale e significativo scenario alle vicende magiche del libro vi è un misterioso convento situato tra i freddi boschi di una non meglio identificata località del Canada.

Il monastero era già stato al centro di un apocalittico scontro tra le forze del Bene e quelle del Male ampiamente descritto nel primo volume della trilogia ed ora si presenta come l’ideale punto di convergenza tra presente e passato, tra due mondi paralleli, ma perfettamente interconnessi.

L’abbazia, perennemente immersa nella penombra, è silente, disadorna e sacra ed ospita una comunità monastica numerosa, ma quasi invisibile, che attende costantemente al lavoro e alla preghiera. L’unico religioso che si staglia con nitore rispetto ai suoi confratelli è l’anziano fra’ Elia, uomo di profonda cultura e tempra granitica, esperto di arti magiche e profondo conoscitore di antichi e dimenticati testi. Sarà proprio lui ad indicare la giusta formula per aprire il misterioso “Varco di sangue” ed a rassicurare con paterna bontà i suoi ospiti sulla riuscita dell’impresa.

Il silenzio, il profumo dell’incenso e l’umbratile esistenza claustrale ricordano molto da vicino il microcosmo monastico carico di segreti costruito dal compianto Umberto Eco nel suo capolavoro Il nome della rosa del 1980.

Una considerazione a parte merita il tema del dolore che impregna le pagine del romanzo della Sancineti, dacché la maledizione ha stroncato affetti, sradicato convinzioni e provocato terribili deliri e crisi di identità in coloro i quali appartengono alla stirpe dei Mèvelo. Ciononostante, esso è da considerarsi necessario non soltanto per preparare ‒ attraverso i vari espedienti letterari ‒ il desiderato lieto fine, ma in quanto connaturato all’esistenza stessa dell’Uomo.

Il già ricordato Baudelaire rifletteva a proposito del dolore in questi termini: «Ma all’agricoltura di Dio occorre questo. Su una notte di terremoto egli edifica all’uomo piacevoli abitazioni per mille anni. Dal dolore di un bambino egli trae gloriose vendemmie spirituali che altrimenti non avrebbero potuto essere raccolte. Con aratri meno impietosi, il suolo refrattario non sarebbe rimosso. Alla terra, nostro pianeta, all’abitacolo dell’uomo occorre una scossa. Il dolore è necessario ancora di più in quanto è il più potente strumento di Dio; […] è indispensabile ai figli misteriosi della terra!»[4].

Ne consegue che proprio dalla dolorosa necessità si sviluppa quel groviglio di sentimenti positivi che si concretizza in diverse forme di legame: quello amoroso tra Layamon e Laura, quello paterno tra Robert e Marcus Mèvelo e quello amicale tra tutti i personaggi della compagnia riunita presso il monastero di fra’ Elia.

Lo stesso Rufus, la Sentinella Bianca, vittima accidentale del maleficio medievale, benché ormai asservito al potere delle tenebre, mostrerà una inaspettata sensibilità al ricordo della moglie e di suo figlio, concedendo a Layamon una tregua per poter ritornare nel passato e reindirizzare il corso degli eventi.

Überall Ist Mittelalter (“Il Medioevo è dappertutto”) recita il titolo di un famoso libro dello storico tedesco Horst Fuhrmann (1926-2011) ed in effetti l’età di mezzo aleggia nelle pagine del romanzo della Sancineti in tutte le sue peculiarità: se da un lato fanno capolino le immagini buie della superstizione, dei roghi e dell’Inquisizione, dall’altro campeggiano grandiose figurazioni di fortificazioni, armigeri e maestose cattedrali.

Nell’epoca delle lotte, delle persecuzioni, dei movimenti monacali ed ereticali, trova addirittura spazio una sorta di femminismo ante litteram che l’autrice condensa nel personaggio di Artemisia, donna seducente e ribelle fuggita nei boschi dopo un matrimonio forzato ed in seguito evasa da un convento di benedettine in cui era stata segregata dal dispotico pater familias.

Le luci e le ombre del Medioevo hanno il loro significativo peso nell’opera di Ilina Sancineti e rivolgono al lettore il pressante invito a guardare al passato per costruire tempi migliori. Non si tratta ovviamente di riproporre modelli sociali e culturali ormai superati, ma di intravedere nelle vicende dei secoli precedenti un serbatoio di esempi a cui attingere per affrontare problematiche soltanto apparentemente moderne, ma che affliggono da sempre l’intero consorzio umano.

Del resto, cercare di dimenticare ciò che è stato un tempo significa commettere lo stesso disastroso errore di Shih Huang Ti, il Primo Imperatore, colui che fece edificare la possente muraglia cinese ma ordinò, al contempo, la distruzione di tutti i libri scritti prima di lui cercando, come ci suggerisce eminentemente lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), di creare attraverso «la muraglia nello spazio» e «l’incendio [dei libri] nel tempo» delle improbabili ed inutili «barriere magiche destinate ad arrestare la morte»[5].

Un’ultima considerazione riguarda lo stile del romanzo in questione: l’autrice utilizza una prosa piana e scorrevole, mai retorica, godibile alla lettura e priva di fardelli e vanità linguistiche.

Il volume si apre con una lettera, quella indirizzata da Robert Mèvelo a Layamon, e si conclude con un’altra missiva scritta dal contadino Rufus, prigioniero nella Torre Rossa, alla sua lontana moglie.

C’è dunque una evidente circolarità della struttura narrativa che mescola tempi ed esperienze ergendosi quasi a metafora della vita umana.

«Il tuo potere ha origine nella mia paura. Se io non ho paura, tu perdi il potere» disse in giorni remoti Seneca a Nerone. Leggere le vicende del passato consente di demolire i timori e le incertezze del futuro e, in quest’ottica quasi terapeutica, il libro di Ilina Sancineti ricopre un ruolo centrale.

Spezzano Albanese (Spixana), 20/V/2022


[1] Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, Milano, 2009 (1994).

[2] Act of Valor, 2012, regia di Mike McCoy e Scott Waugh.

[3] Charles Baudelaire, Il poema dell’hashish, in Id, Paradisi artificiali.

[4] Charles Baudelaire, Un mangiatore d’oppio, in Id, Paradisi artificiali.

[5] Cfr. Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano, 2005 (1963).

domenica 15 maggio 2022

DUE RUOTE, UN UOMO, UNA FETTA DI MONDO

 di

Ettore Marino

L’Italia è una non da molto, Umberto I regna ancora, Milano prende con timidezza a debordare oltre la cinta delle mura, e un ragazzetto s’infoca d’amore per il velocipede. Il ragazzetto è Eberardo Pavesi, nato a un tiro di schioppo da Milano nel Novembre del 1883. Pioniere del Ciclismo, vinse una Roma-Napoli-Roma, un Giro dell’Emilia, alcune tappe al Giro d’Italia e, con la compagine dell’Atala, il Giro stesso nel 1912, unico anno in cui la vittoria sia stata attribuita non già al singolo ma, appunto, alla squadra. Stabilì il primato nazionale dell’ora e fu il primo italiano a riuscire a portare a termine il proibitivo Tour de France. Ritiratosi dagli agoni, diverrà direttore sportivo ora della Bianchi ora della Legnano, scopritore certissimo di talenti, personale consigliere dell’organizzatore del Giro d’Italia. Per la dinamica generosa simpatica capacità affabulatoria, Pavesi sarà soprannominato l’avocatt. Gianni Brera gli fu grande amico. Conversavano a lungo, i due saputi figli di Lombardia. Nel 1952 Brera ne caverà un libro, L’avocatt in bicicletta, che dodici anni dopo vedrà nuova luce d’edizione col titolo, proposto da Mario Soldati e da Orio Vergani, di Addio, bicicletta. Brera morrà, per incidente d’auto, nel Dicembre del 1992. Pavesi si era spento nel Novembre del 1974. Noi, oggi, andremo un po’ sgroppando lungo i ghiaiosi sentieri di Addio, bicicletta.

Ghiaia infatti, e sentieri, e un canale pescoso e orti infestati di zanzare si schiudono oltre Porta Romana, là dove il padre di Eberardo ha aperto un forno. Curioso e vigile, il ragazzo patisce suggestione dalle scritte latine campeggianti sul frontone della Porta. Mai le comprenderà. Studia, e lavora con il padre. Il velocipede è roba da ricchi. Evolve presto in bicicletta. Eberardo riesce ad acquistarne una impegnando l’orologio. Le prime corse cui partecipa vengono organizzate da un iracondo e buffo venditor di gazzose. La fame è mostro vinto però non debellato, l’operosità innerva le ore e gli attimi; i vizi, quelli di sempre: vino, tabacco, prostitute. Ma Eberardo è sobrio. Ha una passione, e la coltiva. Il mondo del Ciclismo prende a organizzarsi, la stampa sportiva cesella i primi suoi eroi. Eroico è per Pavesi trionfare nella Roma-Napoli-Roma. Vede altre cose, accenti nuovi gli giungono all’orecchio. Roma è altera e distante, plaudente e calorosa è Napoli, benché il cielo incupisca, e tuoni pioggia e fulmini riempiano l’aria di sé e i petti di paura. A Eberardo che vince, la Città eterna si disvela “d’un soffuso color rosa sui colli, d’un tenue violetto in piano”. Tornerà a vincere, il Pavesi. Conoscerà sconfitte che lo rafforzeranno nella saggezza ereditata con la nascita. 

Bisogna però andare in Francia. Là il Ciclismo ha una più intensa nobiltà: più aspra e più elegante insieme; più consapevole di sé. I nostri sono ingenui. Luigi Ganna divora, con tutta la buccia, due o tre di quelle che gli erano parse zucchine di varietà ignota. Scoprirà poi che si chiamano banane. Le scritte in francese suggestionano; deludono appena tradotte. Solo Pavesi conclude la corsa. A Milano lo attendono la banda musicale e le più alte autorità.

Il silenzio e il sorriso d’una giovane sposa sono il solo ricordo che casto affiori da un Giro di Sicilia. Pavesi ha rotto il telaio. È solo. Si dispera. Alta sul proprio mulo, compare l’ammantellata sintesi di un brigante nostrano e di un predone d’Arabia. Offre aiuto. Conduce il giovane a casa, dispone che la moglie gli porga cibo e bevande, e si allontana col telaio. Seduto sulla soglia dell’abituro, Eberardo sorseggia marsala tra un boccone e l’altro di buona cacciagione. L’uomo ritorna. Ha fatto riparare il guasto da un meccanico amico. Pavesi può rimontare in sella. Ringrazia con calore. La donna, sempre tacita, gli sorride per l’ultima volta.

Un mondo intero si muove e palpita nel libro. Atleti organizzatori giornalisti meccanici medici, diseredati in cerca di riscatto, popolani in ansia di ricchezze, snob che passano obliqui lungo il diorama delle cose, padri sempre meno scontenti della strana passione dei figli diventata mestiere e fonte di benessere, spose cui tornerebbe grato di avere al fianco un uomo che si dedichi a un lavoro più placido e più certo di quel perenne e faticoso scorrazzare, fazioni di tifosi, tipi arguti e balzani, sobri uomini d’affari… Brera ha lasciato da subito che Pavesi parlasse in prima persona, sì da offrirci un’autobiografia scritta da un altro. Senti odori, sapori, polverose secchezze di strade, piogge che impastano la terra e l’anima. Ti abbandoni alla pagina, e tuo si fa il senso di morte che scende in gola al corridore in preda al freddo e alla fame sulla costa d’un monte di cui ignora il nome; ti abbandoni alla pagina, e cola per le stesse tue membra la grazia della vita che torna per virtù d’una rustica zuppa, di acqua calda, di vino offerti all’atleta da un contadino il cui nome resterà ignoto per sempre. Vedi ciò che fu visto, senti ciò che fu sentito. Rapido è il ritmo, sapida la lingua. Lombardismi disciolti nel flusso dell’italiano, dialoghi in dialetto, o in francese. Nulla è casuale, e tutto è come se lo fosse.

Gli anni passano. Milano arricchisce, erompe oltre le mura, il contado diventa città. I grandi di domani prendono a incidere sul marmo il proprio nome: l’ingenuo Belloni, l’astuto Girardengo, il cupo Henri Pélissier. Pavesi resta vedovo al primo parto della moglie. Torna a sposarsi. C’è la guerra. C’è la spagnola. Ultima corsa, nel 1919, a Napoli, dove gli vogliono un gran bene. Pavesi annuncia il proprio ritiro guardando “il mare, placido sotto la luna, le luci dei pescatori, tremolanti lontano”. Sente le lacrime montargli irrefrenate, e pudore gli impone di fingere di raccattare il tovagliolo sotto la tavola. Torna a Milano. Appende la bicicletta al chiodo.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 15/V/2022

domenica 8 maggio 2022

PRESENTAZIONE

 di

Ettore Marino

Se il foglio che ti ospita non coltiva la prassi di alterarti o forzarti a alterare il tuo dettato per la fifa malsana che possa allontanare chi dello scritto tuo non si sarebbe curato comunque; se il foglio che ti ospita non reputa il lettore sciocco al punto da doverglisi ammannire soltanto quello che sa già, scrivere acquista un senso. O meglio, lo mantiene. Rispetto pieno di me autore, della pagina mia, e del lettore insieme ad essi, incontrai, nei mesi trascorsi, presso Le nuove ere e presso L’eco dello Jonio. Medesimo rispetto mi promette quest’oggi Mario Gaudio, sapiente e cortesissimo fondatore di Terre letterarie. Vi scriverò di varie cose: pensate tutte quanto più intensamente e quanto più lealmente mi sarà riuscito, tutte scritte secondo il mio estro, e perciò come meglio avrò potuto. A prevenire, e pure un poco a soddisfare, chi di me si chiedesse, di me dirò nel pezzo odierno: per quel poco che occorre e che sarà bastevole. Delle mie ore e dei miei giorni, infatti, nulla ha da importare ad alcuno. Chi legge sappia perciò che, arbëresh di Vaccarizzo Albanese, nacqui a Cosenza nel 1966; che ho collaborato e collaboro con varie gazzette cartacee e digitali; che nel 2018, per Donzelli editore, è uscita la mia Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri; che nel 2021 è diventata libro, per le edizioni ilfilorosso, una mia raccolta di liriche intitolata Patibolo; che appena pochi giorni addietro Rubbettino mi ha edito Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi; che da un po’ di anni in qua mi diletto a partecipare come autore di testi al Festival della canzone arbëreshe che si tiene ogni Agosto in San Demetrio Corone; che ho scritto molte altre cose che forse rimarranno sempre inedite; che l’immagine apposta all’articolo odierno è quella che ho scelto per la mia lapide; che, come a ognuno di noi, la pandemia m’ha rotto il cazzo. 

E in vari snodi della stessa, secondando ora bizzosi ora bizzarri ora affettuosi umori, intrattenevo amiche e amici inviando loro per WhatsApp quando un’Ottava, quando un’Odicina. Ripropongo al lettore di Terre letterarie le meno impresentabili.

1 A chi mi chiede in dono rime nuove; / a chi né rime o altro mai mi chiese; / a chi d’affetto mi diè mille prove; / a chi con me fu appena un po’ cortese, / dico che sordo o stronzo è il sommo Giove / che i preghi nostri alla rovescia intese. / Che valse mai gioir se ci fu festa? / I giorni se ne vanno, il morbo resta!

2 Il mondo era arancione e adesso è giallo. / Fu azzurro, lo ricordo, e verde, e viola; / tornerà presto rosso e, senza fallo, / seguiterà l’isterica caròla / di mutar tinta a ogni cantar di gallo / per chi piange o ridendo si consola. / Viviamo in un perenne arcobaleno: / ma quando il cielo tornerà sereno?

3 Benché ci assalgano / da mille lati / virus terribili / sempre più irati; // benché impossibile / torni capire / se vaccinandoci / si va a morire; // benché il pandemico / morbo funesto / non mostri animo / d’andar via presto; // benché le scatole / (mi perdonate?) / per spasmi ed ansimi / sian frantumate; // a tutti io auguro / oltre ogni pena / una domenica / lieta e serena!

4 Saette e fulmini, / tuoni e procelle! / I nervi fremono / a fior di pelle; / giungono a torcersi / pure le ossa: / l’Italia è rossa! // Non è politica, / non è il conato / d’un ecumenico / più giusto stato. / È cosa semplice, / banale e dura: / è una rottura! // Sempre tra maschere, / sempre coi guanti, / sempre un isterico / fuggir gli astanti / correndo a chiuderci / per prevenzione: / è una prigione! // Ma un dono timido, / tremulo e fioco, / giunge via etere / a voi per gioco. / Non domandatevi / che cosa sia: / è una poesia…

5 Mi vaccinai. Tal fu il dovere mio. / Ma ancora, amici, non mi sono accorto / (e in ansia atroce lo domando a Dio) / se il mio naviglio tocca o lascia il porto, / se sono un altro o sono sempre io, / se sono ancora vivo o son già morto. / Proprio per questo è detto in un poema: / “Ettore o non Ettore è il problema!”

6 Ho dormito come un ghiro, / sono uscito a fare un giro: / una lunga passeggiata / lieta maschia indiavolata. / Nutro tutti i desideri / che nutrivo ancora ieri. / Torno a casa. Dallo specchio / mi sorride un brutto vecchio. / Guardo attento: sono io stesso, / folle prima e matto adesso, / e a voi tutti scrivo che / vaccinato sto da re!

7 Ho fatto la mia dose di richiamo, / e sento il gatto conversare in greco / con un pesce che, sceso giù dal ramo, / rulla una sigaretta e la offre a un geco. / Urlo a me stesso dallo specchio: “Io t’amo!”, / ma mi trilla all’orecchio un grillo bieco / che dice: “Assai giocasti a fare il pazzo; / ora lo sei, mio povero ragazzo!”

8 Corron voci striscianti appiccicose / nauseabonde arcisteriche villane / metalliche arroganti minacciose / più d’un ringhio famelico di cane. / Dicono: “Ci sarà una terza dose…” / Quadrare il cerchio o inverginar puttane? / chiedere al cieco qual è mai la via? / morir di morbo ovver di terapia?

9 E venne l’ora della terza dose. / I medici, saputi, l’hanno detto. / Sogno ruscelli, sogno caste rose, / brezze sul volto, amori immani in petto. / Sogno, sogno, e mi destano le odiose / punture al braccio, come un reo dispetto. / E anelando con l’anima all’Eterno, / di dose in dose rotolo all’inferno.

10 Un raffreddore timido e vigliacco; / una tossetta stizzosuccia e fioca; / un sentor d’ossa rotte e corpo fiacco; / una voce stagnante e vana e roca… / Penso: “Ho la peste anch’io, perdincibacco!” / Lo penso, e la mia pelle si fa d’oca. / E a fugare la nera fantasia / a perdifiato corro in Farmacia. // Entro. Racconto tutto. Su pel naso / mi conficcano un tùbulo sapiente. / Temo di sangue un infernal travaso; / temo di venir meno immantinente; / temo che il sole mio tocchi l’occaso; / temo di evaporare nel mio Niente. / Ma con volto materno, pio, giulivo, / la farmacista esclama: “Negativo!” // Negativo! - e ritorna ogni vigore; / negativo! - e vaniscono i pensieri / d’un sangue che per sempre lasci il cuore; / negativo! - e seimila desideri / mi corrono le membra in lieto ardore. / Vivo e felice oggi come ieri, / e domani ancor più. Ciò voglio e spero: / per me, per te, per l’Universo intero!

E con la speranza di una universale felicità, nonché con quella assai più piccina ma non meno intensa di averti segnato sul volto un sia pur pallido sorriso, ti saluto, o lettore, e ti rimando alla prossima.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 8/V/2022

lunedì 2 maggio 2022

DISINGANNI E SPERANZE NEI VERSI DI AGATINA MAIURANO

 di

Mario Gaudio

Una delle illusioni più infide, generate ed alimentate dalla società capitalistica, consiste nell’edulcorare il tema del dolore, seppellendo sotto strati di merci e consumismo difficoltà esistenziali che, da sempre, hanno accompagnato la traviata storia dell’umanità.

Manipoli di grafici e pubblicitari si affannano ad imbellettare la realtà, costruendo mondi d’apparenza che scorrono suadenti e colorati tra le pagine del web e i canali televisivi: immaginarie classi di alunni ‒ inopportunamente ordinate ed immuni dalle vivacità e dagli schiamazzi della giovinezza ‒ posano a favor di camera, mostrando la bontà dell’ultimogenita merendina industriale; famigliole sorridenti si ritrovano sotto i riflettori per magnificare improbabili colazioni mattutine rigorosamente esenti dalle inquietudini passate e venture della giornata lavorativa e obbligatoriamente aperte ad uno scodinzolante animaletto domestico che, alla stregua della prole, si avventa allegro su prodotti scrupolosamente etichettati come biologici e italiani; atletici settantenni si prodigano in urbane maratone grazie all’azione di unguenti medicamentosi a cui adeguate simulazioni computerizzate attribuiscono il potere di penetrare fin quasi dentro le midolla.

Insomma, il dominio della sembianza imperversa nel postmodernismo, instillando fumose certezze all’abitante di collettività sempre più liquide in cui, more solito, si tenta di esorcizzare i problemi, il male e persino la morte per mezzo di un massificante ricorso alla superficialità e all’immagine di un finto e relativo benessere. 

Tale logica, imperante e preoccupante allo stesso tempo, viene frantumata dai versi di Agatina Maiurano che, benché semplici e affatto avvezzi alle tradizioni della metrica, riportano al centro della riflessione la vita ‒ nelle sue molteplici sfaccettature ‒ e i sentimenti più genuini.

L’estenuante prova della malattia e la perdita prematura di un figlio hanno reso granitica la tempra dell’autrice che, ricorrendo alla poesia, porta avanti un’azione di progressivo disinganno consistente nella rivalutazione oggettiva della dimensione della sofferenza.

Attraverso il silenzio, brillantemente definito «rumore dell’anima» (Il silenzio), e i ricordi ‒ «Che potere hanno i ricordi! / Possono regalarti un sorriso o un eterno rimpianto, / comunque ti fanno sentire vivo» (Il ricordo di un sorriso) ‒ la Maiurano compie un personale percorso di catarsi che, partendo dalla commovente ricerca di un’immagine cara che va progressivamente sbiadendosi ‒ «Cerco tra la gente il tuo volto ormai lontano» (Ti cerco) ‒, approda ad un’esortazione che assurge quasi ad armonica regola del buon vivere («Trasforma i tuoi veleni in miele / e camminerai nell’aria», Uomo). Il risultato di questo itinerario psicologico-letterario è un profondo senso di gratitudine che assume dimensioni cosmiche ed è corroborato costantemente da una fede che fornisce lume e consiglio anche nelle vicissitudini più intricate ed amare.

Nei tristi giorni in cui la morte pasteggia famelica sui disumani campi di battaglia ucraini, il volumetto di Agatina Maiurano ci offre un messaggio di speranza. Basta ciò per renderne necessaria e costruttiva la lettura.

Spezzano Albanese (Spixana), 02/V/2022