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mercoledì 19 gennaio 2022

LA VERGINE DELLE GRAZIE NEL NUOVO STUDIO DI CESARE DE ROSIS

 di 

Mario Gaudio

La scultura policroma della Madonna di Spezzano Albanese è il recente, ultimo ‒ a detta dell’autore, ma auspichiamo che così non sia ‒ studio di Cesare De Rosis sul simulacro mariano venerato nella ridente cittadina d’Arbëria.

L’essenza del volumetto, per quell’implacabile legge in virtù della quale gli scritti son frammenti d’umanità impressi su carta, non può essere compresa se non alla luce dei tria corda dell’autore stesso che, forte della sua triplice condizione di sacerdote, storico dell’arte e nativo della comunità, approfondisce la ricerca sul tema, spaziando con un’ottica esperienziale più vasta ed empatica verso il territorio e le sue tradizioni.

Certamente non nuovo a tale genere di indagine ‒ i primi scritti in proposito son datati 2004 ‒, De Rosis conduce il lettore sull’accidentato percorso della Storia, ricostruendo passaggi poco chiari per mezzo di un’adeguata documentazione e non dimenticando di raccontare le vicende degli albori, lì dove il dato storico, la fantasia popolare e l’umile devozione si fondono in una mistura indefinita e indefinibile che addita nel ritrovamento casuale della statua in mezzo alla sterpaglia l’origine del locale culto mariano. 

Tuttavia, al netto del topos del rinvenimento, emerge dalle pagine del volumetto il fervore commerciale e sociale dell’intera vallata compresa tra i fiumi Crati ed Esaro in età tardomedievale e l’importanza di un movimento migratorio monastico che spinse un gruppo di Agostiniani della vicina Terranova da Sibari a fondare in terra di Spezzano un cenobio intitolato a san Giacomo.

Proprio a quest’epoca si fa risalire il simulacro della Vergine ‒ la datazione è collocata al XIV secolo ‒ e la semplicità dei materiali utilizzati (mattoni crudi di paglia e fango, cannucce palustri e malta) pare confermare questa ipotesi e rispecchiare l’umiltà del tenore di vita delle locali popolazioni contadine e dei solerti religiosi di sant’Agostino.

Non manca una interessante serie di confronti tra la statua spezzanese e simili rappresentazioni scultoree sparse per l’Italia ‒ è il caso della Vergine con il Bambino di Domenico da Tolmezzo presente nella chiesa di S. Maria a Borgnano (Friuli Venezia Giulia) ‒ e per il mondo (si segnala, ad esempio, la significativa affinità con la Vergine di Escornalbou in Spagna).

Come giustamente rilevato nella brillante prefazione di Lorenzo Coscarella, la Madre di Dio è uno dei soggetti più rappresentati nella storia dell’arte di tutti i tempi e ciò, unito alla fede, ha indotto gli emigrati di Spezzano a portar con sé le vestigia del culto nelle terre d’approdo e a dar sembiante concreto alla devozione attraverso la realizzazione di sculture molto simili a quella lasciata in terra natìa (si veda la Madonna delle Grazie di Bristol).

Gli occhi del Bambino in grembo alla Patrona della cittadina arbëreshe si fissano su un punto lontano e imprecisato. A noi, frastornati figli di questi tempi incerti, piace pensare che essi siano puntati su un futuro gravido di speranza, ma non dimentico degli insegnamenti di un passato carico di valori su cui l’opera di De Rosis apre uno spiraglio.

Spezzano Albanese (Spixana), 19/01/2022

domenica 16 gennaio 2022

LA CAMPAGNA SMITIZZATA DI EDUARDO APA

 di

Mario Gaudio

La tendenza ad idealizzare la campagna ha attraversato, da tempo immemorabile, la storia della letteratura, raggiungendo il suo culmine o toccando il baratro ‒ è questione di punti di vista ‒ con l’Accademia dell’Arcadia (1690) che, pur avendo il pregio di ricollegarsi alle idealità classiche, commise l’infausto errore di contrapporsi al ridondante Barocco attraverso fatue pastorellerie che ebbero il demerito di offrire l’immagine di una natura idilliaca ma palesemente aliena dalle reali condizione esistenziali.

Ben più accorti dei letterati furono certamente i pittori che, probabilmente esercitati nella pratica dell’osservazione della quotidianità, avevano già denunciato la proverbiale nudità del re, mostrando come la levità della Natura fosse minacciata continuamente dalla corruzione della morte.

Tanto il Guercino (1591-1666) quanto il francese Nicolas Poussin (1594-1665) distrussero l’idea di una campagna primigenia popolata da ninfe e rustiche divinità, dando vita ad emblematici dipinti ‒ intitolati Et in Arcadia ego ‒ in cui la semplicità dei pastori è sconvolta dall’incontro con l’implacabile comune destino rappresentato sotto forma di teschio e di pietra tombale. 

Senza scomodare gli scritti di Erwin Panofsky ‒ ai quali il paziente lettore potrà ricorrere sua sponte per vagliare le varie interpretazioni delle opere d’arte citate ‒, constatiamo il netto ritardo della letteratura italiana ‒ salvo sporadiche eccezioni ‒ nell’accettare e nel raccontare il vero volto della campagna e della vita agreste.

Occorrerà attendere il Verismo ottocentesco ‒ consanguinea espressione del Naturalismo transalpino ‒ per avere un quadro sufficientemente chiaro della reale vita nei campi e, benché in netto ritardo rispetto alle convenzionali scansioni temporali, lo stesso Ritorno alla Piana di Eduardo Apa può oggettivamente essere considerato romanzo verista.

Il lettore dal palato fine potrebbe obiettare la nostra affermazione, agitando il vessillo del Neorealismo, ma è bene far chiarezza, negando questo fregio all’opera dello scrittore terranovese che, a conti fatti, si concentra sulla narrazione di vicende e spazi senza diventare portavoce di istanze politiche o sociali di qualsivoglia colore ideologico.

Apa si presenta dunque nei panni di un verista fuori tempo, ma sicuramente non meno valido rispetto ai nomi d’eccezione che fecero la fortuna di tale corrente letteraria. È necessario anzi evidenziare il punto di forza del nostro autore che può esser fatto coincidere con la lettura della vita rurale secondo una prospettiva borghese e, pertanto, diversa e distante da quella aristocratica del siciliano Verga e da quella proletaria del calabrese Saverio Strati.

Apa delinea una campagna smitizzata, lontana da fasti, riti e miti dell’antichità e caratterizzata da sacrificio, delusione e duro lavoro. La piana di Apollinara non è più gaudente terra della Magna Grecia e il sibaritismo esistenziale dei tempi passati è divenuto pericolosa mistura di dramma e lotta per la sopravvivenza.

Gli stessi protagonisti del romanzo sono inconsapevoli latori di un inevitabile genetico degrado dal quale tentano di fuggire imboccando strade divergenti e inconciliabili: Michele sprofonda nella rassegnazione ‒ forse retaggio di una superficiale formazione cristiana ricevuta nell’infanzia ‒, mentre sua moglie Rosa precipita nel pericoloso mondo dell’illusione. Entrambi si allontanano comunque dalla realtà e innescano quel processo che li condurrà ‒ attraverso incomprensioni, silenzi e conflitti interni ed esteriori ‒ ad una frattura che si ricomporrà solo con l’approssimarsi della morte.

Tra i biondi campi di grano di Apollinara si consuma l’agreste bovarismo della giovane Rosa che, moglie e madre, non riesce ad accettare la propria condizione, ma si logora dinanzi all’arrendevolezza e «al fare di cane bastonato» del consorte sino al punto di concedersi anima e corpo all’unica novità che rompe la monotonia della contrada: il giovane ingegnere comasco giunto per dirigere i lavori di costruzione della nascente strada.

L’apparente quiete rurale cela dunque gli incontrollati moti della passione amorosa che vien declinata nelle sue differenti forme: il rapporto tradizionale ‒ tipico di passate stagioni patriarcali ‒ di Michele, la relazione adulterina di sua moglie, il corteggiamento ciarliero e inconcludente del cugino Gregorio e quello volgare e istintivo di Nicola.

Lo scenario che ne consegue contempla la fuga della donna fedifraga e la necessità di placare i pettegolezzi del vicino paese di Terranova per mezzo di una improvvisata e temporanea emigrazione in Svizzera del marito tradito.

Solo alla fine delle peripezie in terra straniera, ci sarà la riconciliazione tra i due sposi, momento di elevazione del romanzo favorito dalla sostanziale remissività caratteriale di Michele e dalla grave malattia di Rosa. 

Il ritorno ad Apollinara potrebbe sembrare la conclusione di un ciclo, ma l’intervento della morte ne impedisce la realizzazione e il protagonista, rimasto vedovo, si avvia a compiere un profondo lavorìo interiore che ‒ per rimorso o semplicemente per incoscienza ‒ lo indurrà ad assumersi il pesante fardello della colpa e ad assolvere la defunta consorte adultera. Ne è testimonianza l’affermazione finale con cui l’uomo risponde alla curiosità della giovane nipote che domanda informazioni sulla nonna: «Rosa era un angelo, noi non la meritavamo e Dio se l’è presa».

L’intera vicenda costruita da Eduardo Apa richiama ‒ con le dovute differenze stilistiche e strutturali ‒ i fatti raccontati da un altro Eduardo ‒ De Filippo all’anagrafe ‒ in Chi è cchiù felice ‘e me!, commedia datata 1929 in cui l’apparente serenità familiare di un piccolo possidente (Vincenzo) è distrutta da un fuggiasco (Riccardo) capitato lì per caso e divenuto amante della giovane moglie Margherita.

Una nota a parte merita il personaggio di Biagio, vicino di casa e fedelissimo amico del protagonista, che, a ben vedere, risulta essere l’unico vero soggetto positivo della storia. Egli incarna l’emigrato ritornato in patria con nuove idee e con l’esperienza di un lungo e sofferto lavoro. Sarà proprio lui a far fruttare le terre incolte di una masseria confinante e a tracciare, nella tragedia del tradimento, l’unica via di fuga per salvare l’onore di una famiglia dalle bramose chiacchiere paesane.

In conclusione: Apa demitizza la campagna ‒ «gli allor ne sfronda» ‒ e mostra come, al di là degli interessanti risvolti etnoantropologici, tra i filari delle vigne, le messi e gli ulivi albergano sentimenti talvolta ferini che contrastano con la patinata placidità del paesaggio.

Ritorno alla Piana è un viaggio alla ricerca della verità e, in tempi tristi e bui come quelli attuali, mettersi in cammino non può far che bene.

Spezzano Albanese (Spixana), 16/01/2022