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giovedì 28 settembre 2023

DI PAESAGGI GUARITI E MEMORIE RISANATE

di

Mario Gaudio

L’umanità ha da sempre avuto un atteggiamento bifronte nei confronti della memoria e la letteratura, fedele specchio della vita e dei tempi, ha provveduto in più occasioni a registrarne gli esiti.

Da un lato, si è sviluppato un senso di repulsione verso il ricordo. Ne dà testimonianza l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) che, in uno degli scritti contenuti nel volumetto filosofico-letterario intitolato Altre inquisizioni, racconta un episodio particolarmente significativo: «Il fuoco, in una delle commedie di Bernard Shaw, minaccia la biblioteca di Alessandria; qualcuno esclama che brucerà la memoria dell’umanità, e Cesare gli dice: Lasciala bruciare. È una memoria d’infamie». [1]

Dall’altro lato, parafrasando il titolo di un famoso saggio di Primo Levi (1919-1987) e inquadrandolo in un’ottica universale, i «salvati» di ogni epoca e luogo hanno cercato di custodire e di tramandare con fedeltà la memoria dei «sommersi», di coloro che non erano riusciti a sopravvivere di fronte alle oppressioni della Storia.

L’essere testimone diventa una necessità, un fuoco interiore, che assume un profondo valore morale e civile e una altissima responsabilità verso l’avvenire. Riecheggiano, quasi a far da sintesi ai sentimenti ispiratori di tali guardiani della memoria, le parole pronunciate da Giovanni Ernani, geniale e lunatico protagonista del film Viva la libertà (2013), diretto da Roberto Andò. Egli, in preda a realistica autocritica, si abbandona ad uno sfogo sui temi della verità e della memoria, autodenunciandosi per le mancanze di coraggio del passato e impegnandosi per il futuro in questi termini: «Siamo stati senza una voce chiara. Anche se di tanto in tanto qualcuno pensava a parlare, la gente non sentiva niente. […] Io sono qui per far sì che domani non si dica: i tempi erano oscuri perché loro hanno taciuto».

Il libro di Alberto Cavaglion si schiera senza esitazione dalla parte della memoria, ma «gli allor ne sfronda», leggendo in senso critico i luoghi e gli artefici del ricordo e analizzando categorie desuete o inefficaci e logore modalità attraverso cui si continua a trasmettere ciò che fu alle giovani generazioni. 

Tutto parte dall’idea di un paesaggio convalescente su cui gli uomini e la Storia hanno inferto ferite che il buon senso suggerisce di curare ricomponendo le vistose fratture materiali e spirituali che separano popoli, terre e culture.

Per far ciò è doveroso superare l’abusato concetto di «luogo della memoria» per pervenire ad un salutare esercizio di piena consapevolezza dei fatti storici che è destinato a sfociare nella cosiddetta «memoria obliqua».

Tale definizione, coniata dallo studioso francese Philippe Lejeune, indica una memoria coltivata nell’intimo o in piccoli gruppi, pertanto lontana dai raduni di massa e dalle inevitabili retoriche e ipocrisie che ne scaturiscono. 

Si tratta dunque di memoria raffinata nel crogiuolo dell’interiorità, non politicizzata secondo le mode del momento, frutto di un certosino lavoro di scavo e dell’instancabile volontà di rintracciare nel paesaggio i segni ‒ spesso dolorosi ‒ della Storia.

Tutto ciò genera discorsi che, come giustamente rilevato dall’autore, «non hanno mai un bell’aspetto, ma nascondono al loro interno il senso dell’autenticità».

Il lettore dal palato raffinato avverte l’eco di un famoso passo del Simposio di Platone in cui Alcibiade dichiara il suo trasporto intellettuale per Socrate paragonandolo alle statuette lignee raffiguranti Sileno che, per quanto esteticamente poco gradevoli e grottesche, una volta aperte, svelano la vera immagine della divinità.[2]

Si ripropone quindi, sul versante della memoria, l’eterno conflitto tra l’intus e l’extra, termini estremi dalla cui riconciliazione può nascere una visione equilibrata degli avvenimenti storici.

Cesare Pavese, in una nota de Il mestiere di vivere datata 24 aprile 1936, evidenziava come «[…] l’unico modo di sfuggire all’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi».[3] È palese un climax rappresentato dai quattro verbi che conducono, solo in una fase finale, al contatto con ciò che è ignoto. Le azioni del guardare, misurare e sondare precedono la catabasis e condensano quello studio preparatorio per affrontare con consapevolezza la visita presso i luoghi in cui l’umanità ha sperato e sofferto, si è perduta e risollevata, ha toccato il baratro e le stelle.

Una simile impostazione del pensiero stride vistosamente con le attuali consuetudini, dal momento che il contatto con luoghi altamente evocativi quali Ferramonti, Fossoli, Borgo San Dalmazzo o la terrificante Auschwitz si consuma quasi sempre in una sorta di atteggiamento rituale o ‒ nella peggiore delle ipotesi ‒ modaiolo, senza la mediazione dei grandi scrittori e il percorso propedeutico necessario a decontaminare le memorie.

Appare chiaro il bisogno di combattere con vigore alcune nefaste tendenze che inquinano il ricordo e ne inflazionano i paesaggi. È essenziale cancellare la banalizzazione, che sminuisce la gravità degli eventi, la sacralizzazione, che decontestualizza i testimoni rendendoli oggetto di morbosa attenzione e inopportuno culto, e la commercializzazione, che infanga e sfrutta il dolore delle persecuzioni razziali in nome e per conto del più bieco capitalismo.

Cavaglion riprende la singolare classificazione dei paesaggi fatta dal francese Gilles Clément, secondo cui il primo paesaggio è quello incontaminato della natura, il secondo è generato nelle arti figurative e nella letteratura, mentre il terzo si compone degli spazi disabitati o abbandonati dalla presenza umana. A ciò il nostro autore accosta un ipotetico quarto paesaggio che si identifica con i luoghi recanti le ferite della Storia e che, ovviamente, costituisce l’insieme delle memorie da decontaminare.

L’itinerario di bonifica dei paesaggi e delle memorie ha già mosso i primi passi nel contesto altamente simbolico della stazione Transalpina di Gorizia. Essa rappresenta l’emblema di una città umiliata e divisa che, nel 1947, fu smembrata in due da un confine che ne distribuiva i quartieri tra l’Italia e la Jugoslavia. L’intenso lavoro di decontaminazione è sfociato nella decisione di far diventare contemporaneamente Gorizia e Nova Gorica capitali europee della cultura 2025.

Tuttavia, è bene precisare che tale processo di risanamento del paesaggio non è esclusivo dei tempi moderni e Cavaglion riporta in proposito il racconto del tentativo dell’editore di origine ebraica Angelo Fortunato Formiggini (1878-1938) di creare una Casa del ridere, museo irrealizzato che avrebbe dovuto raccogliere le caricature, le musiche e i pezzi satirici composti in trincea dai soldati della Grande Guerra. Tutto ciò non vide la luce e Formiggini stesso pose fine ai suoi giorni lanciandosi dalla modenese torre della Ghirlandina, all’indomani dell’approvazione delle vergognose leggi razziali.

Scomodando Zygmunt Bauman (1925-2017), abitiamo tempi liquidi. Ne consegue l’importanza di cogliere preziosi insegnamenti come quelli contenuti nel volume di Alberto Cavaglion, per donare al passato la sua giusta dimensione e leggerlo in una prospettiva scevra da condizionamenti e intrisa dai principi della “filosofia del ciononostante”, la cui essenza è compendiata nelle parole di Cesare Cases con le quali desidero concludere queste mie brevi considerazioni: «Tutto quanto di valido l’umanità ha prodotto, lo ha prodotto “come un ciononostante”, a dispetto delle avversità, piegando queste alla propria volontà, traendo vigore dal dolore e intelligenza dalla fatica».

Possa il presente richiamo alla fortezza d’animo essere auspicio per il nostro futuro!

Spixana (Spezzano Albanese), 28/IX/2023

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

[1] Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano, 2005 (1960), p. 115.

L’episodio cui si fa riferimento è tratto dal dramma storico di George Bernard Show (1856-1950) Cesare e Cleopatra, scritto nel 1898 e andato in scena integralmente nel 1906 presso il New Amsterdam Theatre di New York.

[2] Sulla tematica del Sileno cfr. Nuccio Ordine, La soglia dell’ombra. Letteratura, filosofia e pittura in Giordano Bruno, Marsilio, Venezia, 2004 (2003), pp. 37-40; Nuccio Ordine, Contro il Vangelo armato. Giordano Bruno, Ronsard e la religione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, pp. 167-171.

[3] Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, Einaudi, Torino, 2000 (1952), p. 36.


venerdì 8 settembre 2023

BERNHARD, UN ECCENTRICO A FERRAMONTI

di 

Mario Gaudio

Dottissimo, visionario, incrollabilmente fiducioso nell’azione di una Provvidenza ‒ solo in parte cristiana ‒ figlia spuria di un sincretismo che miscela credenze, avvicina epoche, abbraccia Oriente e Occidente, amalgama saggezze e vite di uomini profondamente diversi tra loro nello spazio e nel tempo, Ernst Bernhard (1896-1965) trasmuta la costrizione della condizione di internato in un itinerario di analisi dei meandri più riposti della propria psiche.

La straordinaria avventura di questo intellettuale sui generis è oggi raccontata attraverso puntuali testimonianze raccolte in un pregevole volumetto curato dall’instancabile Teresina Ciliberti, direttrice del Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia, e stampato per i tipi di Edizioni Expressiva. 

Ricostruire la vicenda storica di Bernhard significa partire dal suo essere ebreo in un’epoca che degli ebrei aveva deciso di fare a meno. La professione medica, la vasta cultura e la fama di brillante psicoterapeuta ‒ si segnala in proposito la collaborazione a Zurigo con Carl Gustav Jung ‒ non lo immunizzano dalla persecuzione. Dopo aver lasciato la Germania nazista e vanamente sperato in un asilo inglese, egli giunge a Roma dove, benché cittadino rispettabile, è arrestato secondo le prescrizioni delle vergognose leggi razziali. Tradotto a Regina Coeli, ne viene deciso un celere trasferimento presso il campo di Ferramonti di Tarsia e qui, tra le generosità della campagna calabrese, inizia il processo di progressivo disvelamento della complessa personalità di Bernhard.

Approdato tra le baracche della prigionia ‒ che, ricordiamo per correttezza storica, fu praticata in Ferramonti senza mai perdere una certa dose di umanità ‒, sceglie di vivere in maniera «consapevole» la «situazione eccezionale» in cui è precipitato, cercando di metabolizzare quell’esperienza per mezzo di una scrittura terapeutica indirizzata contemporaneamente tanto a se stesso (diario) quanto al mondo esterno (epistolario).

La razionalità della penna convive costantemente con le molteplici incursioni che Bernhard compie nell’universo dell’illogico a cui accede tramite la consultazione del libro de I Ching, testo dell’antica sapienza oracolare cinese che lo accompagna nel periodo della restrizione e che sarà utilizzato come strumento di elaborazione delle sue metodologie di indagine psicoterapeutica anche negli anni successivi.

Ne emerge la figura di un uomo proteiforme nel sapere, ma votato alla riflessione e tenacemente religioso nel senso antico del termine. Egli ha fiducia nell’avvenire e tale atteggiamento è ricompensato da una inaspettata combinazione che, nell’aprile 1941, si trasforma in occasione di libertà. 

Il Caso ‒ o una delle tante divinità a cui il pensiero eterogeneo di Bernhard fa riferimento, essendo attento studioso di ebraismo, protestantesimo, tradizioni orientali, meditazione e astrologia ‒ assume le sembianze di Giuseppe Tucci, archeologo e amico del Nostro, che, affratellato dall’amore per la conoscenza, intercede direttamente con la sua influenza presso il Duce, consentendo un’inaspettata liberazione proprio pochi giorni prima di una programmata ‒ e probabilmente fatale ‒ deportazione in Polonia.

Vasta è la riflessione filosofico-psicologica sviluppata negli anni ma, in proporzione, esigua risulta essere la produzione scritta dell’intellettuale tedesco che, a ben vedere, eccettuato un interessantissimo saggio intitolato Il complesso della Grande Madre, si riassume nell’unico volume della Mitobiografia, la cui pubblicazione è dovuta alla fedele allieva Hélène Erba-Tissot.

Di notevole importanza è sicuramente il carteggio Bernhard-Jung, dalla cui lettura si evince un complicato rapporto tra due individui accomunati dallo studio della mente, ma anche e soprattutto dall’alternarsi di amabili cortesie e inspiegabili freddezze.

Ferramonti è per Bernhard una dura palestra esistenziale. Nel campo, tra le vicissitudini di genti diverse, letture e conferenze di pedagogia, egli avverte il peso della Storia e si incarica di sostenerlo ‒ novello Atlante ‒ sfruttando il tempo per penetrare i segreti dell’animo e ricercare gli invisibili legami simpatetici tra le cose.

La segnante esperienza si traduce, nel dopoguerra, in una tecnica di analisi non più asettica (come da prassi freudiana), ma divenuta un affabile «colloquio psicologico» incentrato sulla relazione umana tra analista e paziente. Ne sperimenta l’efficacia persino il regista Federico Fellini (1920-1993) che, in un momento di aridità creativa, ricorre al coinvolgente dialogo risanatore con Bernhard.

Nel settembre 1943, le avanguardie militari britanniche liberano Ferramonti, restituendo totale dignità a quanti vi hanno forzatamente soggiornato.

Significativi sono stati gli atti di solidarietà, parecchie le mani tese e altrettanto numerosi gli ordini trasgrediti o i regolamenti blandamente applicati da chi quel campo lo aveva in custodia.  

A noi, cultori della memoria, piace celebrare l’ottantesimo anniversario di questa liberazione onorando la straordinaria vita dell’eccentrico Ernst Bernhard.

Spixana (Spezzano Albanese), 08/IX/2023

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)