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venerdì 25 agosto 2023

"MORIMONDO", EPOPEA DI ACQUA E DI CARTA

di

Mario Gaudio 

Ci sono viaggi che scuotono le esistenze anestetizzate dall’illusorio scintillio di un capitalismo divenuto sempre più inumano e incapace di contemplare al suo interno spazi riservati alla bellezza e al silenzio.

La tirannia dell’agenda quotidiana, la cancrenosa assuefazione alla superficialità, la malsana abitudine al consumo del non necessario, la diabolica catena della corsa all’iperproduzione ‒ ingannevole miraggio di un altrettanto chimerico benessere ‒ attoscano giorni che inesorabilmente si polverizzano, accorciando vite e riducendo le occasioni per godere di esperienze, persone e luoghi trascurati dalle nostre croniche disattenzioni.

Incapaci di evadere da gabbie senza sbarre impunemente battezzate col nome di “uffici” e stancamente arresi ad interminabili giornate dal sapore di tabacco e caffè, ci arrivano in provvidenziale soccorso alcuni testi in grado di scalfire le artificiose sicurezze, squarciando ingannevoli fondali di scena e aprendo sipari su insospettabili e affascinanti nuove realtà.

Morimondo, partorito dalla prolifica penna di Paolo Rumiz, appartiene a siffatta categoria di libri ed ha la forza ‒ o forse il coraggio ‒ di pronunciare un sacrosanto j’accuse contro l’odierna società acritica e distratta, raccontando di un microcosmo umano carico di valori che vive ‒ o comunque si sforza di farlo con suprema dignità ‒ lungo le rive del Po. 

L’autore, giornalista di carriera e instancabile viaggiatore, narra storie, riti e miti dell’italico fiume da un’inedita prospettiva acquatica, compiendo un’avventurosa navigazione da Staffarda ‒ poco sotto le sorgenti del Monviso ‒ sino all’Adriatico, punto di confluenza tra le acque fluviali e marine ed inizio di un nuovo itinerario.

La discesa verso il Delta è affrontata in compagnia di un gruppo di amici entusiasti e diventa occasione di contatto con l’antica cultura rivierasca custodita da gente semplice e tenace, abituata a vivere in simbiosi con il Grande Fiume e ad ascoltarne con sacro riguardo la voce. 

Tra le vaporose nebbie mattutine, l’ipnotica danza delle lucciole in mezzo ai canneti e le variopinte livree delle libellule si celano scricchiolanti moli che conducono ad accoglienti osterie immerse in atmosfere dei secoli andati. Attorno ai tavoli siedono uomini e donne del popolo del fiume che, tra un bicchiere di Bonarda e un’anguilla marinata, rievocano gli antichi racconti dei padri impregnati di gratitudine verso il Po, fonte primaria di sostentamento, e di paure ataviche provocate dalle rovinose piene, segno drammatico e tangibile dell’indiscutibile signoria della Natura.

Rumiz raccoglie questi umori, li miscela, li agita, li distilla attraverso gli alambicchi della scrittura, ricavandone una preziosa essenza che profuma di vite logorate dalla fatica, ma ritemprate e rese felici da un corso d’acqua che si trasforma in compagno di viaggio e inesauribile miniera di validi insegnamenti e mai tramontati valori di laboriosità e mutua assistenza.

Il fluire della corrente si trasmuta per Rumiz e compagni in un progressivo processo di liberazione interiore reso possibile dal consolidarsi del contrasto tra la terra ‒ la quale è manifestamente «norma, regola, legge, religione, solco dell’aratro, perimetro del tempio» ‒ e l’acqua che, al contrario, si configura come «spazio sacro ingovernabile, superficie senza recinti né frontiere».

Ne vien fuori un metaforico percorso dalla sorgente alla foce che, a ben pensarci, è, per questi novelli Argonauti e per noi appassionati lettori, una sorta di efficace «riassunto dell’esistenza».

La narrazione di Rumiz ha il potere di coinvolgere tutti i sensi. Priva di infiorettature retoriche, in essa convivono felicemente ‒ brillante amplesso liquido tra inchiostro e acqua di fiume ‒ la facilità dei tratti rettilinei e l’intrico dei passaggi più complessi che conducono a gustose digressioni antropologiche ed ampie parentesi riservate ai succulenti piatti della gastronomia padana, ai sanguigni vini locali e alle espressioni caratteristiche di arcaici dialetti ormai in via di estinzione. 

Non mancano incursioni nelle sconfinate regioni del mito che si concretizzano nella riproposizione di vetuste leggende di storioni parlanti, mostruose entità fluviali ‒ tra cui primeggiano il serpentiforme Tarantasio e l’infida Borda, maligna divinità preposta a risucchiare nelle tenebre i malcapitati che sostavano ai limiti dei pozzi ‒ e creature dalle delicate sembianze femminili apparse misteriosamente tra le onde per soccorrere pescatori e battellieri in procinto di annegare.

La sensibilità dell’autore si concentra altresì su pratiche di culto a cui i rivieraschi continuano ad essere particolarmente legati. Tra queste vanno obbligatoriamente menzionate le rogazioni, processioni celebrate per chiedere la salubrità del clima e l’abbondanza e per impetrare protezione divina contro le devastanti piene. 

Tuttavia, sotto i campanili che costeggiano gli argini del Grande Fiume non mancano le tracce di antiche forme di devozione popolare nate nella nebulosa epoca in cui residui di paganesimo continuavano a sussistere, nelle aree geografiche più isolate, accanto ad un Cristianesimo non ancora pienamente affermato. Rumiz riporta in proposito due significativi esempi relativi alla notte di san Giovanni: l’accensione di grandi fuochi a Crissolo ‒ allo scopo di allontanare gli spiriti del male ‒ e la consuetudine, diffusa in ampie aree della Padania, di far passare le mucche sulla cenere per stornare dalle stalle e dalla terra gli influssi venefici.

Emerge con chiarezza l’animo del popolo del fiume che ha saputo, nonostante lo scorrere implacabile del tempo, serbare uno stile di vita legato all’eredità culturale degli avi e all’incondizionato rispetto nei confronti del Po. Tutto ciò non può che stupire se si considera che il piccolo mondo celebrato da Rumiz palpita nel bel mezzo dei distretti più produttivi e sviluppati del Paese.

La modernità ‒ o presunta tale ‒ allunga comunque le sue ombre tentacolari su questa battagliera enclave della tradizione rivierasca, manifestandosi attraverso imponenti aborti cementizi che violentano la venerabile sacralità del fiume e ne alterano il corso. Ne è scandaloso modello l’insieme dei resti di una centrale idroelettrica nei pressi di Casalgrasso, opera ingegneristica mai portata a termine, paradigma dello scarso interesse nazionale in materia di tutela delle acque interne.

Se ciò deturpa inequivocabilmente i paesaggi delle terre del Po, non bisogna dimenticare che crimini ancor peggiori continuano ad essere impunemente perpetrati da cavatori abusivi, contrabbandieri, ladri di motori e pescatori di frodo che scorrazzano liberamente a fari spenti nelle fredde notti padane, provocando gravi danni all’economia locale e mutando i delicati equilibri naturali creati dal Grande Fiume nel corso dei secoli.

Al di là di tali incresciose situazioni, il fascinoso viaggio di Rumiz, dopo un indimenticabile incontro con il bardo Francesco Guccini, volge al termine oltrepassando l’agognato Delta e giungendo sull’isola di Sansego, di fronte alle coste istriane.

È da qui che lo scrittore lancia un messaggio di profonda comunione che apparenta fiumi e uomini, epoche ed eventi, concludendo, di fatto, un’epopea di acqua e di carta che val la pena assaporare.

Spixana (Spezzano Albanese), 25/VIII/2023

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)


sabato 19 agosto 2023

MEDAGLIE E PRISMI

di

Ettore Marino 

Mai avevo concorso a un premio letterario. Mi son rifatto nel giro di poche settimane: col “Francesco Graziano” a Cosenza (15 VI 2023) e con l’“Agostino Ribecco” a Spezzano Albanese (2 VIII 2023). Il “Graziano” contemplava quattro sezioni: singola lirica, singolo racconto, raccolta di liriche, romanzo. Come usa alle Olimpiadi, al Tour de France, e in cento altre manifestazioni sportive, un podio tripartito (oro, argento, bronzo) gratificava i vincitori, sezione per sezione. Oltre ai premiati, c’erano pure i menzionati, sì che dire di tutti è impossibile. Mi limito dunque a riportare, con il permesso della Casa Editrice ilfilorosso, madre ubertosa del Concorso, il brano d’apertura del poemetto che, nella sezione della lirica solinga, fu premiato con l’oro. Di Andrea Napoli, dunque, Dall’entroterra: “Sebbene si dicano molte cose, i morti rassomigliano ai morti; / meno ai cingolati, alle orchidee o alle macchie nere / che compaiono al sole. Sopra le città invernali / un ritaglio di cielo bluastro precipita sul balcone dei presenti, / la dea della balalaika annuncia lo scoppio della guerra, / poi si scopre che la guerra è già avvenuta ed avviene tuttavia. / Adesso che anche la regalità è senza garanzie, / salvo il fatto che più in là è una casa nuova ed è un quartiere / buio e non sappiamo se è reale, approfittiamo. / Se non avessimo percorso km di strade dove nessuno passa, / penseremmo che neanche noi ci siamo, / come il ragazzo che chiudendo gli occhi è convinto di sparire. / Il sesso ha scelto per noi un nome dal calendario, / un giro solubile di soluzioni, un terzo piano senza ascensore / ed un letto scigato che gli sia d’accanto, / tra la notte e il giorno. Ciascuno ha almeno un occhio buono, / come tu stessa puoi notare, e al riparo aspetta / di adagiarsi in consolanti fossati d’abitudine, o che il plotone / che ha mirato starnutisca, nel frattempo. / Ripetiamo, in conclusione e con estrema onestà: / per masticare meglio ci vogliono i denti, anche se fanno male. [...]” 

In equa compagnia con Serena Cavallini, autrice di Lunedì di Pasqua, fu fregiato d’argento Ettore Marino, che concorreva (buffo è dire di sé alla terza persona!) con Dopo di te: lirica breve, che riporterò tutta: “La cosa è sempre troppo oltre. L’io / è un al di qua, gattino / che invidia le zampe sue stesse. / Non fu mai glabro / il mondo: è lama di rasoio / lungo una guancia ispida. / La rosa che declina / troverà grazia in braccio al suolo, tu / nell’eco di un sorriso. Idolo mai / rese felice l’idolatra. / Cosa fa un re nel cuore della notte? / Quale sogno lo sogna? / È sempre l’ora che precede l’ultima, / sempre l’istante prima dell’istante / che dimenticherai. / Il nubifragio d’ogni vanità / incorona il buffone / di corte, il re si desta / nel sogno del buffone, la liana / cui t’abbrancasti è appesa in cielo, un picchio / vi dà di becco, il tuo fratello è troppo / ligio alla legge, e non ti pagherà / nessuna multa, lei che ami ama / Santa Romana Chiesa più di quanto / non ami te.”

Le liriche e i racconti che più piacquero sono comunque raccolti in un volume avente a titolo Sogni di terre perse dentro l’acqua. Su due soli racconti zampetterò qualche nota. Sono i soli che lessi, ammaliato dai titoli. Il primo è Una perfetta proporzione matematica, di Ilina Sancineti, secondo nella sua sezione ex aequo con Legittima difesa, di Lella Buzzacchi; l’altro, che ebbe mera menzione, s’intitola Caporal Tabacco, e venne fuori dal calamo di Salvatore La Moglie. Una perfetta proporzione matematica mette sul foglio un mulìebre io narrante, uno stanco consorte, un gatto rosso, un tarchiato saccente edicolante. Nell’io che narra montano l’ansia e il vuoto: ora enunciati, ora riverberati per brevi e sapidi correlativi oggettivi. Ogni attimo è sospeso. L’io ha un nome: Iris. Lo sapremo da Marco, invocato e salvifico amico della remota infanzia. La lingua è eletta, le immagini dense, la reticenza è magistrale. Caporal Tabacco si situa sul versante opposto. Nasce da un parlato che l’autore, volontariamente, non sublima tutto nello scritto. Una pacifica cornice d’altri dì chiude l’andare d’una fiaba: una fiaba paurosa, che avvenne e non avvenne in un un tempo remoto, in un borgo lontano. Dramatis personae: la donna-mostro e il valentissimo caporal Tabacco. Prevarrà il Bene? Prevarrà il Male? Non molesta, benché troppo apertamente enunciata, la morale che manda i bimbi a letto.

Altra cosa il “Ribecco”. Potevano concorrervi solo liriche brevi in lingua albanica. Tre i premiati anche qui, ma nessun podio. L’insieme delle liriche divenne infatti un solo raggio luminoso che il prisma degli esaminatori franse in tre bande cromatiche. Ogni banda incarnava una precisa virtù scrittoria, rappresa in questo o quel componimento. Nessun componimento poteva aspirare a un doppio e men che meno al triplo premio. Tre i vincitori, dunque: parigrado, e per virtù diverse - e cioè per: A) Competenza linguistica; B) Contenuto; C) Comunicazione. Per competenza linguistica vinse Ike (Fuggisti), di Ettore Marino (ancora io...); per contenuto fu premiata Jam (Sono), di Tommaso Campera; per comunicazione, Vatra (Il focolare), di Cosimo Scaravaglione. Con il permesso degli autori e degli organizzatori, riporto non già i testi, bensì le traduzioni che gli autori stessi dovettero fornire nell’atto di iscriversi al concorso; e ciò, sia per tirannide di spazio, sia perché il testo albanico costringerebbe la maggior parte degli arbëreshë cui questo scritto capitasse in mano a fingere di aver capito ciò che avrebbero finto di aver letto. 

E dunque: di Ettore Marino, Ike (Fuggisti): “Senza parola colpevole, / senza sguardo falso, / sparisti, ti smarristi / come foglia dall’albero; / se abbraccio te / abbraccio vento; / donna, in questo petto / edificasti solitudine. // Chi sappia perché il gatto e il cane sono nemici; / chi sappia ove si cela il vento quando non soffia; / e perché il sogno nidifica nel sonno; / e perché la nube si fa pioggia e la pioggia rivolo: / egli solo sa perché fuggisti. / Giacché fuggisti, donna: / fuggisti, fuggisti come la luce che con rabbia / s’avventa sugli oggetti, li mostra, e vi rimane. // Fuggisti, e sei luce, / luce spalmata ovunque, come un velo; / sei la pelle del mondo, e la mia morte. / Sei la mia morte, donna: / io, che ti volli, e volli per me solo.” 

Di Tommaso Campera, Jam (Sono): “Io sono il vento / che dal monte soffia in primavera / e sono la tenebra della notte in cielo / dove danza e splende la stella. // Sono le pietre / che lentamente costruirono le mura / e sono la quiete giù in cantina / dove sta bevendo e ride il paesano. // Sono la falce di ferro / che per un pezzo di pane taglia il grano / sono il falco che nel cielo vola: / ‘Chi sei tu, che laggiù passi?’ // Sono il tempo eterno / che predice la vita gioiosa / e sono il passato ed il ieri: / sono il futuro, sono il domani. // Sono colui che venne dalla Morea / che qui costruì una nuova vita / su di un legno... mi portò il destino: / parlando la lingua del padre. // Colui che venne in terra straniera sono / ma i sogni non li ho spenti / ho ricamato le speranze estirpando rovi; / con i pantaloni, sulle ginocchia, lacerati. // Io sono il giovane cinquecentenario / tra due patrie l’anima divisa / sono l’uomo che viene dal tempo passato / un arbëresh, che il tempo, non ha dimenticato.” 

Di Cosimo Scaravaglione, Vatra (Il focolare): “Se qualche volta dovrò trovare riposo da questa vita così dura / che mi toglie il respiro e mi lascia come morto / verrò a fermarmi nella tua casa / dove grande e maestoso mi si apre... il Focolare!!! // Davanti al fuoco caldo come il sole / sdraiato sopra una sedia rotta / voglio diventare cenere e brace / per bruciare come paglia questa solitudine! // Perché il focolare è una favola antica / che ci raccontava la nonna quando (fuori) pioveva / e che ti riempiva di dolcezza / quando avevi il cuore triste e malato... // E il focolare è come un padre / che ti protegge dalla cattiveria / che entra dentro casa / quando sei solo senza compagnia! // E il focolare... È come il tempo passato / la radice che ti viene a salvare / quando più forte la vita ti colpisce / e tu non sai più da dove vieni!”

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 19/VIII/2023