Visualizzazioni totali

giovedì 19 gennaio 2023

VIAGGIO TRA BORGHI E BELLEZZE NEL LIBRO DI NUCCIO PROVENZANO

di 
Mario Gaudio

Leggendo le fascinose pagine del libro di Nuccio Provenzano, si palesano alla mente le parole ‒ quasi profetiche ‒ di un eroe contemporaneo barbaramente assassinato dalla criminalità organizzata. Mi riferisco a Peppino Impastato (1948-1978) che, nella sua breve ma intensa vita, indicò nella bellezza un potente antidoto per combattere inciviltà e malaffare.

Il giovane attivista siciliano, negativamente colpito dalla cementificazione senza criterio consumatasi attorno alla sua cittadina, esprimeva dissenso e concentrava speranza in questi termini: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà».

La bellezza diviene pertanto efficace strumento di una vera e propria terapia sociale, il cui scopo è quello di mantener viva la fiamma della curiosità e dello stupore in una società capitalista ‒ iperconnessa e distratta allo stesso tempo ‒ che tende a massificare interessi, gusti, mode, linguaggi e pensieri.

Riscoprire la bellezza è atto rivoluzionario e, come tale, capace di generare fermenti utili alla costruzione di un consorzio umano equo e, al contempo, armonioso nella diversità.

Il volume di Nuccio Provenzano si inserisce a pieno titolo in questa logica e offre all’attenzione del lettore sprazzi di bellezza catturati, nonostante l’ineluttabile fluire del tempo, tra alcuni silenti borghi calabresi.

Tutto ciò sortisce un effetto di profonda elevazione spirituale che consente all’autore di trasformare i sei itinerari storico-artistici da lui presentati in veri e proprio percorsi su cui temprare i valori dell’umanità e della conoscenza. 

Partendo dalla sua Altomonte, cittadina antica e dal nobile passato, Provenzano ricostruisce, con attenzione e dettagliata documentazione storica, le peculiarità di paesi disseminati tra la valle dell’Esaro e il massiccio del Pollino, consentendoci di riscoprire ‒ attraverso un approccio felicemente multidisciplinare ‒ isole di bellezza troppo spesso ingiustamente dimenticate.

Ne emerge un quadro complesso di microstorie che a gran voce invocano la necessità di esser conosciute e adeguatamente valorizzate.

Il lettore è condotto innanzitutto tra le antiche vestigia riesumate e raccontate dall’archeologia. Riaffiorano dalle nebbie del tempo e dal grembo protettivo della terra preziose testimonianze quali i pavimenti a mosaico di una villa di epoca ellenistico-romana rinvenuti nel sito di Santa Margherita a Firmo, i reperti riemersi nell’area di torre Mordillo a Spezzano Albanese e la splendida e misteriosa croce reliquiario custodita in una tomba monumentale a Pauciuri, importante zona archeologica del comune di Malvito. Quest’ultimo oggetto, stando a recenti studi di Giovanni Cristofalo, potrebbe essere addirittura collegato alla figura dell’abate Ursus che, secondo la tradizione, fu, assieme ad altri otto confratelli calabresi, uno degli artefici della prima crociata in Terra Santa.

Non mancano dettagliati riferimenti anche ad ulteriori luoghi di scavo quali la protostorica Grotta della Monaca a Sant’Agata d’Esaro, il sito di Sassòne localizzato tra Morano Calabro e San Basile e le pendici del monte Mula ‒ nei pressi di San Sosti ‒ dove, nel 1846, fu recuperata una vetusta ascia in bronzo con dedica alla dea Hera, oggi custodita presso il British Museum di Londra.

Altro interessantissimo percorso del libro risulta essere quello dei luoghi di culto. Provenzano ricostruisce e racconta le vicende di cattedrali, chiese, conventi e modeste cappelle rurali, emblema di secoli di fede e devozione delle genti di Calabria, ma anche scrigno di preziose opere d’arte concepite per magnificare la potenza dei committenti e, allo stesso tempo, per offrire in forma figurata messaggi evangelici alle semplici ed incolte classi popolari.

Tra le pagine del volume, grazie ad una sapiente descrizione corroborata da un ottimo apparato fotografico, risaltano in particolare: la chiesa di Santa Maria della Consolazione di Altomonte, rilevante testimonianza del gotico angioino; la sfarzosa cattedrale di San Nicola di Mira, a Lungro, ponte tra Occidente ed Oriente, luminoso esempio di tradizione liturgica e spirituale preservata attraverso varie epoche e generazioni; la chiesa di San Giovanni Battista, ad Acquaformosa, nota per i suoi pregevoli mosaici; i numerosi edifici sacri disseminati sul territorio di Morano Calabro, famosi per la gran quantità di tele, affreschi, sculture e oggetti sacri di antica datazione e ricercata fattura.

Accanto ai simboli del potere spirituale, i borghi descritti da Nuccio Provenzano conservano tuttora i segni del potere temporale. Lo sguardo si sofferma estasiato su una pletora di castelli, torri diroccate, ruderi di fortificazioni e antichi palazzi di famiglie ricche e potenti che governarono sui feudi calabresi.

Di particolare interesse per la loro invariata bellezza risultano essere le torri normanne di Altomonte e San Marco Argentano (entrambe risalenti all’XI secolo), i castelli feudali di San Donato di Ninea e Terranova da Sibari, il castello aragonese di Castrovillari, il maniero di San Lorenzo del Vallo ‒ fatto erigere nel 1623 dal marchese di Rende Andrea Alarcón Mendoza ‒, le torri Mordillo e Scribla ricadenti nel territorio di Spezzano Albanese.

Una particolare attenzione è riservata dall’autore ad alcuni paesi dell’Arbëria, modello di perfetta integrazione tra genti e culture differenti e tangibile manifestazione di attaccamento a tradizioni avite.

Uomini e donne provenienti dai Balcani, giunti attraverso molteplici ondate migratorie a partire dalla fine del XV secolo, hanno ripopolato casali abbandonati e territori impervi, riqualificandoli e rendendoli luoghi di gelosa custodia di antichi riti religiosi e altrettanto venerabili parlate.

Ben amalgamati nei secoli alle popolazioni locali, i discendenti di quei primi migranti hanno dato prova di profonda devozione nei confronti delle terre ospitanti, partecipando eroicamente ai movimenti di liberazione e unificazione nazionale e distinguendosi nei più svariati campi del sapere.

Ancora oggi, nonostante un tragico calo demografico e l’indifferenza generalizzata verso il passato, sopravvivono, pur tra mille difficoltà, gradevoli borghi nelle cui chiese risuonano le incantevoli melodie di lode del rito greco-bizantino e nei cui vicoli si odono ‒ purtroppo sempre meno ‒ le affascinanti parole della lingua arcaica.

Provenzano narra le storie di Acquaformosa, Civita, Firmo, Frascineto, Lungro, San Basile e Spezzano Albanese, comunità che hanno ereditato la bellezza di un glorioso passato e il fardello della responsabilità di tramandarlo alle nuove generazioni che, a conti fatti, si mostrano sempre meno interessate a causa di un deleterio processo di omologazione culturale, ideologica e spirituale.

I borghi racchiudono spesso memorie di sofferenza e generosità e, a tal proposito, è necessario citare almeno due esempi fondamentali: le saline di Lungro e il campo di internamento di Ferramonti di Tarsia. Nelle miniere di salgemma della cittadina arbëreshe, le durissime condizioni di lavoro hanno cementato le classi più umili, favorendo forme di mutua assistenza e solidarietà; nel campo di Ferramonti ‒ monito perenne per i tempi venturi ‒ le brutture della prigionia sono state alleviate dalle cure e dall’umanità della popolazione locale.

Una nota a parte meritano infine i percorsi naturalistici e sensoriali riportati nel libro di Provenzano, che consentono di tracciare una mappa delle tipicità su cui far consolidare le esperienze turistiche dirette verso la nostra regione. Accanto al ricchissimo patrimonio enogastronomico ‒ cito a titolo esemplificativo i liquori Moliterno di Altomonte, il passito di Saracena, le ricette della tradizione culinaria locale ‒, campeggiano importantissime realtà naturali quali le gole del Raganello di Civita, la grotta di San Vito a San Donato di Ninea e il parco della lavanda sull’altopiano di Campotenese, nel comune di Morano Calabro.

Insomma, gli scenari variegati dei nostri borghi fanno emergere una enorme ricchezza potenziale che tutti noi, con medesima responsabilità, siamo chiamati a trasformare in concrete possibilità di crescita.

La bellezza delle nostre contrade stride dolorosamente contro il grigiore dei tanti giovani che si affollano, presso le stazioni ferroviarie, in un viaggio di ritorno verso i luoghi natii per un fugace soggiorno natalizio.

I borghi, per quanto fascinosi possano essere, diventano macerie, senza una adeguata valorizzazione di coloro che li abitano e, in tal senso, la politica accorta e la cultura disinteressata sono chiamate ad affrontare le sfide in grado di favorire la restanza.

Sic stantibus rebus, il libro di Nuccio Provenzano ‒ rigoroso nella ricerca e semplice nello stile ‒ si pone come utilissimo riferimento affinché noi stessi ‒ prima ancora che i numerosi vacanzieri italiani e stranieri ‒ possiamo riscoprire le bellezze della nostra splendida e martoriata regione.

Con l’auspicio di una rinnovata attenzione verso le nostre comunità, concludo le mie brevi considerazioni con una pregnante esortazione del critico d’arte Vittorio Sgarbi: «Se il viaggio è ritornare sui passi di altri in altri tempi in altre vite, rievocare, veder riemergere fantasmi, allora mettetevi in cammino, non siate pigri, perché dalla vostra meraviglia deriva la vita dell’arte, dei luoghi, del nostro paese; l’Italia delle meraviglie».[1]

Spixana (Spezzano Albanese), 19/I/2023


[1] Vittorio Sgarbi, L’Italia delle meraviglie, Bompiani, Milano, 2011 (2009), p. 8.

 

domenica 15 gennaio 2023

UN LUPO, PIÙ LUPI, LA BESTIA...

 di

Ettore Marino

Gévaudan: si chiamava così una provincia del Mezzogiorno della Francia: aspra ventosa fredda povera. La Rivoluzione ne rimpastò i confini ribattezzandola Lozère. Nessuno più ricorderebbe il vecchio nome, se un’ombra assassina non lo avesse marchiato per sempre. Creduta e non creduta, infatti, una voce s’era messa a vagare per tutta la Francia sudorientale; era l’autunno del 1763, e la voce diceva di donne e di ragazzi uccisi o scampati per prodigio agli assalti di un’orribile fiera. La voce si muta in evidenza quando è rinvenuto ciò che resta del corpo di Jeanne Boulet, pastora di quattordici anni. È il 30 Giugno del 1764.

Fu l’inizio di un sogno affannoso, di quelli che paiono ignari di risveglio. Silente astuto rapido, il mostro appare, si erge sulle zampe posteriori, azzanna, artiglia, uccide, si pasce delle vittime. Le decapita, a volte. Chi l’ha veduto lo descrive così: grande assai più d’un lupo, fulvo, dal petto bianco, e striato di nero sul dorso; ha coda molto lunga, robustissimi artigli, testa massiccia, mascelle pronunciate, ampia chiostra di denti. Attacca anche gli uomini adulti, che riescono spesso, però, a metterlo in fuga.

Al comando del capitano Duhamel, uno squadrone di dragoni prende a metà Settembre a battere la zona. Nessuno esce di casa se non armato di una rudimentale picca e, giacché la fiera predilige il sesso gentile, alcuni dei dragoni si travestono da donna. In Dicembre l’Assemblea degli Stati di Languedoc promette un premio di seimila livres a chi uccida la bête. Non la si chiama in altro modo: nella provincia e in tutto il regno. 

I contadini e i pastori del Gévaudan sono buoni cattolici impastati di paganesimo. Orgogliosi cultori del delitto d’onore, della vendetta, di una immota inconcussa omertà, guardano di mal occhio i dragoni di Duhamel, i quali s’industriano, sì, a stanare la fiera, ma fanno molto poco per rendersi simpatici alla popolazione. Si fa strage di lupi. La bestia, però, è ancora là: sparge morte e terrore, discredita una Francia che inglesi e prussiani hanno appena umiliato nella Guerra dei sette anni, riempie di furore Luigi XV, deriso con gioia sempre più crudele dai gazzettieri d’oltremanica. Alcuni atti di coraggio rifulgono nel buio. Un giorno del Gennaio del 1765 la bestia assale una frotta di ragazzi. Morde uno a una guancia, abbranca un altro per il braccio. I restanti, però, spronati dal non ancora tredicenne Jacques Portefaix, la mettono in fuga salvando il compagnetto. Saranno premiati per volere del re. Armata solo di cuore di madre, Jeanne Jouve, il 14 Marzo, sottrae alle male grinfie due dei propri figlioli. Uno morrà per le ferite. Premio del re anche a lei. L’11 Agosto si ricopre di gloria la ventenne Marie-Jeanne Vallet, che colpendo la bestia con la picca, salva sé e chi le si accompagna. Sarà chiamata la Pucelle du Gévaudan.  

Intanto, Jean Vaumesle d’Enneval, il più glorioso cacciatore di lupi dell’intero reame, affianca e poi sostituisce il capitano Duhamel (Febbraio - Aprile 1765). Brani di carne avvelenata sono sparsi pei boschi, nella speranza che la bête se ne cibi. Sono però i cani a morirne. Ogni volta che viene ferito, il prodigioso animale si rialza e fugge.

Nel Luglio dello stesso anno, Vaumesle d’Enneval, che pur non ha poltrito, si ritira. Così ha voluto il re che, provetto cacciatore, ha già inviato al suo posto il proprio portatore d’archibugio François Antoine: e con l’aiuto di un suo uomo, il 21 Settembre 1765, Antoine fredda la bestia. Dissezionata dagli esperti, la carcassa è condotta, impagliata, a Versailles, dove il monarca si compiace tra i battimani della corte. L’incubo si è dissolto. Più silente e guardinga di prima, però, la misteriosa creatura ritorna a dargli corpo: azzannando, mordendo, sbranando... Benché grosso e minace, quello ucciso da Antoine non era infatti che un lupo fra tanti. La Francia non può certo risolvere un problema che il re ha dichiarato risolto. Pensarci toccherà perciò alle sempre più affrante e atterrite genti di Gévaudan. Sarà un lungo penare.

Jean Chastel è un rude vecchio vigoroso. Vive con due dei suoi figli, fa vari mestieri, caccia con grande abilità, ed è sempre attorniato da una muta di molossi. È un miscredente, e lo si chiama “il figlio della strega”. Quando la bestia uccide una bimba che gli è cara, si riavvicina a Dio e alle pratiche di culto. Così almeno si narra; come si narra che abbia fuso alcune medagliette d’argento della Vergine ricavandone palle da schioppo che avrebbe fatto benedire da un sacerdote. Per certo, farà parte della squadra che il marchese d’Apcher arma nel Giugno del 1767. Il 19 di quel mese, Chastel uccide un lupo di gran mole, notomizzato poi in una dimora del marchese stesso. Alcuni giorni dopo, una lupa, che la voce del popolo predica compagna e complice d’antropofagia del lupo abbattuto da Chastel, viene freddata da un tale Jean Terrisse. A onta delle seimila livres spettanti a chi avesse ucciso la bestia, le autorità locali ricompensano i due con un donativo assai misero. Di Terrisse non si parlerà più. Chastel, invece, è ricordato ancora come il liberatore del Gévaudan. Fosse la bête il lupo ucciso dall’uno o la lupa uccisa dall’altro; lo fossero ambedue o lo fosse una terza creatura frattanto morta di morte naturale, cessò da allora ogni pericolo, l’incubo si mutò in ricordo, e gli aspri figli di quell’aspra terra tornarono a gustare l’obliqua dolcezza che l’alba reca in ogni landa del creato. 

Sulla natura della bestia, la ridda delle ipotesi, cioè delle immediate certezze personali spacciate ognuna per verità sola e ultima, prese ad accompagnare i fatti, e spumeggia oggi ancora: un lupo, due lupi, un branco intero; un animale esotico fuggito da un circo o dal serraglio di un annoiato gentiluomo; un lupo mannaro, un demonio, un flagello inviato da Dio a punire un popolo di pervicaci peccatori (era la tesi del vescovo di Mende); un rovinoso incrocio tra due fiere di specie diversa; un malato di mente che usava coprirsi di pellicce; un lupo addestrato sin da cucciolo a uccidere l’uomo per il perverso disegno di un pazzo, dei protestanti, di qualche senzadio, di emissari inviati dal re a spargere terrore tra gli stessi suoi sudditi...

Non mi si chieda la mia poiché, semplicemente, non ce l’ho. Mi forzassi a produrla, non fornirei che una facezia o una verità così casuale, da valere assai meno della facezia stessa. Narrando questa storia, avrei solo voluto fornire uno spunto a chi nel mio paese va organizzando, da un po’ di anni in qua, gustosissime cacce al tesoro. Disegno vano quanto pochi: i campi i boschi le vallate che incoronano il borgo sono infestati tutti da un mobilissimo e sempre più nutrito stuolo di bestie prive di mistero ma dal fare e dall’animo assai poco fraterni. E immaginare un archibugio che dai cinghiali ci liberi per sempre, è muovere lo spirito nel rugiadoso reame dei sogni troppo lieti e delle fiabe troppo belle perché divengano realtà.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 15/I/2023