I fenomeni migratori hanno da sempre caratterizzato la
storia dell’umanità consentendo, di fatto, la sopravvivenza di molti popoli e
la mistione di culture e tradizioni differenti. Tuttavia, ci furono momenti
storici e aree geografiche in cui gli spostamenti si verificarono con maggiore
intensità e riguardarono numeri alquanto significativi dal punto di vista
statistico.
Nel periodo preunitario, ad esempio, gli italiani −
notoriamente “santi, poeti e navigatori” − furono interessati da movimenti
migratori intensi che crebbero in misura esponenziale dopo l’unificazione
nazionale del 1861. In un primo momento, le rotte predilette furono quelle
mediterranee (non è un caso che «[…] sino al 1871, l’italiano era una delle
lingue usate ufficialmente dalle poste egiziane»)[1]
ma, ben presto, i nostri connazionali mutarono radicalmente indirizzo
preferendo le nazioni europee (in particolare la Francia) e, a partire dal
1880, le ambite terre di Argentina, Brasile e Stati Uniti.
Guida per gli emigranti italiani diretti in Brasile |
Se l’emigrazione fu, assieme alla colonizzazione delle
lontane terre d’Africa, una possente valvola di sfogo per il malumore serpeggiante
tra le masse contadine meridionali, essa rappresentò, allo stesso tempo, la
causa di gravissimi incidenti in cui persero la vita torme di malfamati in
cerca di un futuro migliore. Uno dei più catastrofici e poco conosciuti
sinistri marittimi si verificò nel 1880 nelle acque del golfo de La Spezia.
Nonostante le sommarie − e spesso fantasiose − versioni che
circolarono sin da principio,[2] la consultazione di
documenti originali dell’epoca ci consente una ricostruzione attendibile dei
fatti capace di far emergere tutta la drammaticità dell’evento.
Alle tre del mattino del 24 novembre, tra l’Isola del Tino e
quella di Palmaria, la prua del bastimento italiano Ortigia colpì violentemente
la fiancata della nave francese Oncle Joseph squarciandola in due tronconi e
provocandone l’affondamento in meno di otto minuti.
Subito dopo l’urto, la stiva fu invasa dall’acqua e
l’immenso vuoto, causato dall’inabissamento del piroscafo speronato, trascinò con
sé 229 passeggeri e 10 membri dell’equipaggio.[3]
La notizia della sciagura fu immediatamente annunziata da un
telegramma dell’Agenzia Stefani[4] suscitando profondo
cordoglio sull’intero territorio nazionale.
I primi soccorsi furono prestati dai marinai dell’Ortigia
che calarono in mare le scialuppe e lanciarono salvagenti rimanendo per diverse
ore sul luogo dell’incidente. A tal proposito, il capitano Stefano Paratore,
comandante del bastimento, ebbe modo di dichiarare: «Abbiamo salvato il maggior
numero di persone possibile, dopo un’ora non abbiamo sentito più gridare,
abbiamo continuato a remare per vedere se c’erano altri sopravvissuti. Siamo
rimasti sul posto per quattro ore. L’Ortigia aveva tutte le luci accese, mentre
l’Oncle Joseph aveva solo la sua luce bianca sull’albero».[5]
Subito dopo, il piroscafo italiano, alquanto malconcio, fece
rotta verso Livorno dove, immesso nel bacino di carenaggio del cantiere
Orlando, ricevette le opportune riparazioni.
Una rappresentazione della tragedia dell'Oncle Joseph |
L’inchiesta giudiziaria, che si aprì poche ore dopo
l’incidente, rese noti interessanti dettagli per la ricostruzione della
vicenda. Si accertò che l’Oncle Joseph, di proprietà della compagnia
transalpina Valery, aveva iniziato il suo viaggio da Napoli e, dopo brevi soste
in alcuni porti del settentrione, avrebbe dovuto far scalo a Genova, per poi oltrepassare
lo Stretto di Gibilterra e affrontare la traversata dell’Atlantico sino a
Buenos Aires. Il bastimento trasportava un carico di circa 800 tonnellate di
mercanzie, 264 passeggeri e 33 uomini d’equipaggio.[6]
I viaggiatori erano quasi tutti meridionali – in gran parte calabresi e
molisani – che avevano deciso di lasciare le terre natie in cerca di fortuna.
Al rovinoso incidente sopravvissero soltanto 35 emigranti e 23 marinai, mentre
tra le vittime ci furono anche il capitano Lacombe, alcuni uomini che erano
stati in servizio su un mercantile e che cercavano di raggiungere Genova per
recarsi da lì ai propri paesi, un gruppo di marinai austriaci che rimpatriavano
e 8 emigranti arbëreshë provenienti da Spezzano Albanese.[7]
La storia dell’Ortigia merita, invece, una trattazione
sicuramente più approfondita. La nave, battente bandiera italiana, apparteneva
alla compagnia di navigazione siciliana Florio[8] e, sin dal suo varo,
aveva provocato non pochi problemi. Costruita a Livorno, presso i cantieri di
Luigi Orlando, per conto della società “La Trinacria” di Palermo, fu completata
nel 1873 e, immediatamente, i committenti dichiararono bancarotta. Il piroscafo,
con le sue 1854 tonnellate di stazza, fu noleggiato pertanto dalla Florio e si
rese protagonista di tutta una serie di incidenti sia in fase di navigazione
che di manovra portuale.[9]
Il 24 novembre 1880 l’Ortigia, salpata da Genova e diretta a
Napoli con uno scalo intermedio a Livorno, incontrò tragicamente sulla propria
rotta l’Oncle Joseph provocando, sebbene le condizioni del mare fossero
abbastanza buone,[10] la fatale collisione.
Al comando del bastimento italiano vi era il capitano Stefano Paratore e con
lui viaggiavano 43 membri dell’equipaggio e 36 passeggeri rimasti tutti illesi
dopo l’incidente.
Tuttavia, il destino infausto dell’Ortigia si sarebbe
manifestato anche in altre drammatiche circostanze: nel 1885 la nave si scontrò
con il battello francese Martignan con un bilancio di 12 morti; nel 1890
l’incidente avvenne con un bastimento norvegese e i morti furono 5; il 21
luglio 1895, ancora una volta nel golfo de La Spezia, il piroscafo fece
affondare – in appena tre minuti – la Maria P. uccidendo 144 persone.[11]
Insomma, sebbene dopo ogni sinistro la compagnia Florio
provvedesse a cambiare il comandante e l’intero equipaggio, la scia dei morti
seminati in mare dall’Ortigia diventava sempre più consistente, tanto da far
circolare, tra i marinai più superstiziosi, l’idea che una oscura maledizione
gravasse sul bastimento.
Logo della Compagnia di Navigazione Florio - Rubattino |
La vicenda giudiziaria, relativa alle responsabilità
dell’affondamento dell’Oncle Joseph, si concretizzò in una serie di scontri tra
i tribunali italiani e quelli francesi circa la giurisdizione di competenza, dando
origine addirittura ad un apposito studio di giurisprudenza marittima
condensato nel volume di Giulio Cesare Buzzati intitolato L’urto di navi in
mare: studio di diritto internazionale privato.[12]
Senza inoltrarci nel ginepraio di sentenze, ricorsi, accuse
e risarcimenti si può cercare di sintetizzare l’accaduto attraverso le
testimonianze del capitano in seconda dell’Oncle Joseph (Felice Perricchi) e
del nostromo Renucci, entrambi sopravvissuti alla sciagura. Quest’ultimo, in
una intervista, «accusò la nave Ortigia di non aver segnalato con il colore
rosso delle luci convenzionali la posizione e il pericolo imminente, in
conformità dei regolamenti internazionali vigenti».[13]
Un caso molto singolare riguardò uno dei superstiti del
naufragio che fu ripescato in mare dopo circa 52 ore. Il piroscafo Marie Louise,
della compagnia Fraissinet, proveniente da Marsiglia, giunto nei pressi di Capo
Noli rinvenne una serie di oggetti che, trasportati dalla corrente,
galleggiavano sulle onde. Il capitano Parangue diede l’ordine di effettuare una
ricognizione e, aggrappato ad una tavola, fu notato un individuo di probabile
nazionalità polacca che, portato a bordo, raccontò di essere scampato
all’affondamento dell’Oncle Joseph.[14]
Il disastro marittimo impressionò particolarmente l’opinione
pubblica italiana che, forse anche a causa di queste morti, iniziò a prendere
coscienza del doloroso tema dell’emigrazione. Non a caso, a distanza di mesi, si
organizzarono iniziative a sostegno dei sopravvissuti e delle famiglie degli
annegati. Tra queste lodevoli manifestazioni meritano di essere ricordate
almeno la costituzione del comitato livornese (che raccolse e donò agli
sventurati dei sussidi dell’ordine di diverse migliaia di lire)[15] e una
rappresentazione di beneficenza del Trovatore − presso il teatro Costanzi di
Roma − a cui parteciparono il tenore Rossetti, il baritono Ciolli, il basso
Fagiuoli e l’orchestra del teatro Apollo.[16]
La sciagura marittima non lasciò indifferente neppure il
mondo della cultura e, in proposito, l’umanista e poligrafo don Ferdinando
Guaglianone (1843-1927), originario di Spezzano Albanese, ne fece motivo di
canto poetico in un componimento intitolato I naufraghi dell’Oncle Joseph,
pubblicato a Napoli nel 1881.
In 221 versi (endecasillabi e settenari), carichi di pathos
e di abilità metrica, il letterato condensa il sinistro marittimo – nel quale,
come accennavamo, trovarono la morte otto suoi compaesani – attraverso la
giustapposizione di una serie di piccoli quadri poetici. Il percorso inizia con
l’appello che l’autore rivolge ad un non meglio identificato amico, affinché non
si lasci corrompere dalla «funesta sete» dell’oro e dal desiderio di
espatriare. Seguono la descrizione delle speranze e dei desideri di fortuna e
di ritorno dei poveri emigranti e l’elogio di Napoli − «incantevol città delle
sirene» − che non riuscì a trattenere, con la bellezza dei paesaggi e la
mitezza del suo clima, quegli sventurati che di lì a breve si sarebbero
imbarcati per il loro ultimo viaggio.
Guaglianone prosegue riportando i reciproci giuramenti di
sostegno e amicizia tra i passeggeri e cantando la malinconia serale capace di
attanagliare il cuore, richiamare alla mente il tetto paterno e cancellare,
d’un tratto, la baldanza del giorno della partenza. Quasi con una sorta di climax
tematico, vibrante di tensione, si passa al racconto dell’urto fatale e del
conseguente affondamento.
Don Ferdinando Guaglianone (1843-1927) |
Il tutto è reso ancora più drammatico dalla vicenda di due
ragazzi, congiunti in matrimonio poco prima di salpare dalla città partenopea,
che trovarono la morte nelle acque liguri. Struggenti e delicati sono i versi
con cui il poeta canta lo sforzo titanico del giovane marito che tenta – invano
− di strappare alle onde la sua consorte: «[…] Né un astro benigno / Rischiarò
le tue lotte, / Avvolte già dalla funerea notte, / Onde, o sposo infelice, al
mar cercavi / Strappare al mar colei che un santo giuro / Di Dio presso
all’altare / Testé rendeati invidïata sposa. / Invan per lei, per te lottasti,
e il mare / Ambo inghiottì […]». [17]
È doveroso, a questo punto, formulare alcune considerazioni
critiche. In primis si può agilmente notare la struttura circolare del
componimento: Guaglianone inizia col distogliere l’amico dall’idea della
partenza e termina, praticamente, allo stesso modo. Compie quasi una sorta di
paesana Odissea tematica in chiave negativa: dal borgo natio (Spezzano
Albanese/Itaca) si prospettano le seduzioni e i pericoli del viaggio (una peregrinatio
mortale, a differenza di quella di Ulisse), affinché si eviti un’avventura
destinata a condurre allo stesso luogo della partenza (gli emigranti promettono
il ritorno al tetto paterno dopo essersi arricchiti e, del resto, anche
Odisseo, dopo venti lunghi anni di guerre e avventure, e dopo aver acquisito
molteplici esperienze, si ritrova sulla sua petrosa isola, nel luogo in cui
tutto ebbe inizio).
In secundis emerge con chiarezza la visione reazionaria che
accompagnò Guaglianone per tutta la vita. In effetti, lo scrittore non riesce a
giustificare il fenomeno migratorio come frutto della necessità e del
malessere, ma lo collega all’avidità e al desiderio insano di ricchezze. Ne
consegue anche una ristrettezza di mentalità – strana per un uomo vissuto per
diversi anni nella vivacità dell’ambiente napoletano − che impedisce all’autore
di comprendere i benefici di “ritorno” delle migrazioni, ovvero il flusso delle
rimesse, provenienti dall’estero, che favorirono efficacemente l’economia
nazionale.
In terzo luogo è da rilevare nei versi de I naufraghi
dell’Oncle Joseph un atteggiamento di querulo sentimentalismo – concentrato, in
particolar modo, su un attaccamento quasi patologico nei confronti della figura
materna − che troverà il suo apogeo nel pessimismo e nella tristezza delle
pagine di Cari e mesti ricordi!, opera licenziata nel 1890.
In ultima analisi, la tragedia di questo “Titanic dei
poveri” trovò giusta risonanza nei versi del Guaglianone, ma l’estrema
sensibilità dell’autore e il suo distacco dalla realtà impedirono al poemetto
di raggiungere mete indubbiamente più meritorie.
In memoria di coloro che perirono nel disastro dell’Oncle
Joseph…
[1] Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri
giorni, Longanesi – Il Giornale, Milano, 1998, p. 137.
[2] A tal proposito è bene ricordare
che non mancarono maldestre ipotesi – non suffragate da prove – che collocarono
l’affondamento dell’Oncle Joseph
presso il porto di Siracusa o, addirittura, al largo della costa argentina (in
quest’ultimo caso, l’incidente sarebbe stato provocato dallo speronamento di
una nave mercantile avvenuto il 24 agosto 1880).
[3] I numeri della sciagura sono
riportati in Gazzetta Ufficiale del Regno
d’Italia, n. 282, venerdì 26 novembre 1880, p. 5057.
[4] Il dispaccio dell’agenzia di
stampa è riportato in Gazzetta Ufficiale
del Regno d’Italia, n. 281, giovedì 25 novembre 1880, p. 5042.
[5] La testimonianza dell’ufficiale è
reperibile in Enzo Colozza, Il naufragio
della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita, in “Primo Piano
Molise”, XIX/63, 5 marzo 2018, p. 7.
[6] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, op. cit., p. 5057.
[7] A mo’ di postumo tributo della
memoria verso gli sventurati naufraghi dell’Oncle
Joseph, riportiamo un elenco (purtroppo incompleto) dei principali dati
relativi ai passeggeri sopravvissuti: Anastasio Raffaello, anni 30 (da
Casinone, Melia); D’Ambrogio Domenico, anni 25 (da Napoli); Del Vecchio Angelo,
anni 44 (da Castelnuovo, Salerno); Di Franco Ferdinando, anni 17 (da Laino,
Cosenza); Di Franco Saverio, anni 30 (da Laino, Cosenza); Di Lello Domenico,
anni 45 (da Villa Santa Maria, Chieti); Gersoma Maria Santa, anni 2 (da Laino,
Cosenza); Giacinto Gelsomino, anni 21 (da Campobasso); Mangini Sabatino (da
Pescala, Campobasso); Mariano Isidoro, anni 30 (da Ajello, Cosenza); Marsarano
Giovanni, anni 24 (da Isetto, Calabria);
Murano Vincenzo, anni 61 (da Castellabate, Potenza); Pescali Vincenzo,
anni 28 (da Pescolanciano, Campobasso); Ricci Giuseppe, anni 25 (da Civitanova,
Isernia); Rispoli Maria, anni 28 (da Trecina, Basilicata); Rosai Angelo, anni
24 (da Delsiano); Santa-Capita Raffaello, anni 22 (da Carpinone, Isernia);
Tirosano Bonaventura, anni 34, sacerdote (da Cava, Salerno); Verberaro Francesco,
anni 23 (da Laino, Cosenza); Verberaro Vincenzo, anni 21 (da Laino, Cosenza).
Le suddette informazioni, sebbene parziali, possono
essere consultate sulla Gazzetta
Ufficiale del Regno d’Italia, n. 283, sabato 27 novembre 1880, pp.
5087-5088.
[8] Indispensabile per ricostruire la
storia della potente famiglia Florio il volume di Orazio Cancila, I Florio. Storia di una dinastia
imprenditoriale siciliana, Bompiani, Milano, 2008.
[9] Per un approfondimento si
consiglia la lettura del saggio Ortigia
un vapore con la rogna di G. Mirto ed E. Cappelletti disponibile sul sito www.verdeisland.it [Ultima consultazione del
4/7/2018].
[10] La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, op. cit., p. 5058 riporta, in proposito, la seguente
considerazione: «Quando è avvenuta la collisione il mare era quasi calmo,
l’aria piuttosto fosca».
[11] Cfr. Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i
molisani che persero la vita, op.
cit., p. 7.
[12] Giulio Cesare Buzzati, L’urto di navi in mare: studio di diritto
internazionale privato, Drucker e Senigaglia, Padova, 1889.
[13]
Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita,
op. cit., p. 7.
[14] La vicenda del salvataggio è
raccontata, con toni concitati, sulle colonne della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 284, lunedì 29 novembre
1880, p. 5106.
[15] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 124, sabato 28 maggio
1881, p. 2217.
[16] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 304, giovedì 23 dicembre
1880, p. 5515.
[17] Ferdinando Guaglianone, I naufraghi dell’Oncle Joseph,
Tipografia dell’Accademia Reale delle Scienze, Napoli, 1881, p. 9.
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