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domenica 22 maggio 2022

DAL CORPO DI LUCREZIO

 di

Ettore Marino

Concepito a fugare ogni angoscia squadernando, illustrando, martellando la scienza che un greco aveva offerto agli uomini perché avessero pace, il poema di Lucrezio, per tutto il corpo dei suoi versi, lascia rincorrersi due voci, una di pena e una di vittoria, e tu non sai a quale hai da porgere orecchio. La scienza è quella di Epicuro. Nel vuoto, gli atomi vanno eternamente, secondo linea retta. Un inatteso scarto di questo o quell’atomo consente aggregazioni, e ne nascono i mondi. Perire, è il disgregarsi degli atomi. Perituro è ogni ente, ogni mondo. Immortali gli dèi, beati perché indifferenti; immortali, poiché indistruttibili, gli atomi stessi. L’uomo è corpo, è anima vegetativa emotiva senziente, è razionale animus. Corpo anima animus si disferanno insieme. Non c’è ragione di temere la morte, o l’ira degli dèi, o punizioni ultraterrene. L’uomo è nato debole e impaurito in un mondo ostile. La civiltà gli ha fornito alcune sicurezze. Ma è soltanto il sapersi mortale, e il saperne le cause, a liberarlo dal terrore. Generosa illusione: di Epicuro, e non già di Lucrezio, il trionfo sull’angoscia. Ogni tentata lettura razionale delle cose ci fa eminentemente uomini; ma se per essa leggi pena e certezza di morte, vi trovi o non vi trovi pace secondo il tipo umano cui appartieni: serenità crepuscolare in ogni frase di Epicuro, urlo (superbamente modulato) di felicità in Lucrezio: ma una felicità urlata è sorella, però, dell’aura che precede la crisi epilettica, e nel De rerum natura anche i momenti di gioia e di luce sono percorsi da un alto invisibile brivido. 

Poesia libererà il lettore. Migliaia e migliaia di esametri per una voce che non ha forse eguale in potenza. Immagini da immagini, concetti su concetti, cose che danno moto ad altre cose: alid ex alio, cioè “altro da altro”, giacché il poema intende dire l’universo e le cose: una dall’altra, appunto, più che una ad una... Spiacquero a molti i nessi prosastici, e non poche durezze. Spiacciano pure. Noi, amici, ridiamone: poiché solo Lucrezio ti sa abbacinare di quapropter, di quod superest, di praeterea, e tu hai gioia, alla fine, d’esser rimasto senza fiato. Poesia e non poesia: Lucrezio è poeta anche là dove non lo è. Se non sai il latino, piangi sui miei gheroni. Te ne offro tre soli. 

I, 1-43 Voluttà dei mortali, voluttà / degli dèi, madre dei romani, Venere / nutrice, sotto gli astri che trascorrono / il cielo, tu vivifichi le acque / che navi e navi solcano e la terra / generosa di frutti: grazie a te / si forma ciò che vive, e sboccia, e vede / luce di sole. Te fuggono i venti, / te le nubi del cielo, a te la terra / industriosa dà fiori, a te sorridono / l’acque del mare e splende di diffusa / luce pacato il cielo. Quando appare / primavera tra i giorni, quando erompe / favonio e spira e cresce a dare vita, / colpiti in cuore dalla tua potenza / ti annunziano gli uccelli, dea. Le fiere / e gli armenti percuotono i fecondi / campi, s’avventano sui fiumi: ognuno / prigioniero di te, te segue ovunque / tu voglia. E per l’amore che nei petti / infondi dolce ad ogni creatura, / sui monti, in mare, per i rapinosi / flutti dei fiumi, pei campi verdissimi, / tra le frondose case degli uccelli, / imponi che le stirpi riproducano / se stesse in terra. Governi tu sola / le cose, e nulla senza te si leva / ai campi della luce, e nulla è bello / e nulla è lieto senza te. Aiutami. / Sulla natura delle cose intendo / scrivere versi al diletto rampollo / dei Memmi, cui tu fosti sempre prodiga / di doni, e vuoi che in tutto eccella. Infondi / eterna grazia a ciò che detto. Placa / per le terre pei mari ogni feroce / moto dell’armi. Tu sola ai mortali / puoi dare pace. Marte armato spiega / guerra, ed è guerra. Pure, nel tuo grembo / si rifugia, trafitto dall’eterna / lancia d’amore, piega indietro il nobile / collo, disseta in te gli occhi riarsi / d’amore, e la tua bocca gli è respiro. / E quando posa sul tuo santo corpo, / quando lo cingi, sussurragli miti / parole, impètra, o gloriosa, pace / per i romani. Giorni orrendi, i nostri. / Scrivere mi dà pena, né potrà / la chiara stirpe di Memmio sottrarsi / al compito, che è suo, di una salvezza.

II, 352-366 Spesso dinanzi agli stupendi templi / degli dèi, immolato, accanto all’are / fumanti incenso, cade un vitellino / in un fiume di sangue che gli sgorga / caldo dal petto. E va la madre, orbata,  / per balze verdi, scruta il suolo in cerca / d’orme bisulche, figge in ogni dove / gli occhi, vuole il giovenco che ha perduto. / Si ferma. Colma di lamenti il bosco / frondifero, mai cessa di tornare / alle stalle, trafitta dall’amaro / desiderio del figlio. E non i teneri / salci, non l’erbe vive di rugiada, / non l’acque che per clivi inarrivati / cadono le consolano la pena, / le addolciscono il cuore, né la vista / d’altri vitelli pei campi fecondi / la distrae, le può smorzar l’affanno. / Un che di suo, soltanto suo, lei cerca.

III, 634-669 Per tutto il corpo è senso, anima, vita. / Se una qualsiasi forza lo divide / rapida in due tronconi, scinderà / pure l’anima. E ciò che frangi in brani / come pretende d’essere immortale? / Si narra che roventi di confusa / strage i carri falcati fanno a pezzi / umane membra tutt’a un tratto sì / che vedi in terra tremolare ciò / che reciso è caduto, e la sorpresa / allontana il dolore dalla mente / del guerriero che, avido di strage, / cerca ancora battaglia, e non sa ancora / che la sinistra che ha perduto con / lo scudo, tra i cavalli, le rapaci / falci e le ruote portan via. Un altro / salta sul carro, e incalza, e gli è caduta / la destra. Un altro tenta di levarsi / sulla gamba che ha perso, e lì sul suolo / il piede muore agitando le dita. / Anche un capo reciso serba a terra / vivido volto, occhi di luce, e muore / quando ha perduto ogni resto di anima. / Ora, considera un serpente. Vibra / la lingua sua, l’immane corpo termina / in una coda minacciosa. Se / l’hai fatto a brani col ferro, ogni brano / si torce, insozza di putrido sangue / il suolo, pel dolore che lo brucia / s’avventa il capo ad addentare il brano / vicino. E chi direbbe mai che in ogni / troncone vi sia un’anima? Sarebbero / tante, così, le anime in un solo / corpo. Così non è. Ciò ch’era uno / col corpo fu diviso, ed è perito,  / proprio perché diviso, insieme al corpo.

Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 22/V/2022 


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