di
Ettore Marino
Se il foglio che ti ospita non coltiva la prassi di alterarti o forzarti a alterare il tuo dettato per la fifa malsana che possa allontanare chi dello scritto tuo non si sarebbe curato comunque; se il foglio che ti ospita non reputa il lettore sciocco al punto da doverglisi ammannire soltanto quello che sa già, scrivere acquista un senso. O meglio, lo mantiene. Rispetto pieno di me autore, della pagina mia, e del lettore insieme ad essi, incontrai, nei mesi trascorsi, presso Le nuove ere e presso L’eco dello Jonio. Medesimo rispetto mi promette quest’oggi Mario Gaudio, sapiente e cortesissimo fondatore di Terre letterarie. Vi scriverò di varie cose: pensate tutte quanto più intensamente e quanto più lealmente mi sarà riuscito, tutte scritte secondo il mio estro, e perciò come meglio avrò potuto. A prevenire, e pure un poco a soddisfare, chi di me si chiedesse, di me dirò nel pezzo odierno: per quel poco che occorre e che sarà bastevole. Delle mie ore e dei miei giorni, infatti, nulla ha da importare ad alcuno. Chi legge sappia perciò che, arbëresh di Vaccarizzo Albanese, nacqui a Cosenza nel 1966; che ho collaborato e collaboro con varie gazzette cartacee e digitali; che nel 2018, per Donzelli editore, è uscita la mia Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri; che nel 2021 è diventata libro, per le edizioni ilfilorosso, una mia raccolta di liriche intitolata Patibolo; che appena pochi giorni addietro Rubbettino mi ha edito Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi; che da un po’ di anni in qua mi diletto a partecipare come autore di testi al Festival della canzone arbëreshe che si tiene ogni Agosto in San Demetrio Corone; che ho scritto molte altre cose che forse rimarranno sempre inedite; che l’immagine apposta all’articolo odierno è quella che ho scelto per la mia lapide; che, come a ognuno di noi, la pandemia m’ha rotto il cazzo.
E in
vari snodi della stessa, secondando ora bizzosi ora bizzarri ora affettuosi
umori, intrattenevo amiche e amici inviando loro per WhatsApp quando un’Ottava,
quando un’Odicina. Ripropongo al lettore di Terre letterarie le meno
impresentabili.
1 A chi mi chiede in dono rime nuove; / a chi né rime o
altro mai mi chiese; / a chi d’affetto mi diè mille prove; / a chi con me fu
appena un po’ cortese, / dico che sordo o stronzo è il sommo Giove / che i
preghi nostri alla rovescia intese. / Che valse mai gioir se ci fu festa? / I giorni
se ne vanno, il morbo resta!
2 Il
mondo era arancione e adesso è giallo. / Fu azzurro, lo ricordo, e verde, e
viola; / tornerà presto rosso e, senza fallo, / seguiterà l’isterica caròla /
di mutar tinta a ogni cantar di gallo / per chi piange o ridendo si consola. /
Viviamo in un perenne arcobaleno: / ma quando il cielo tornerà sereno?
3
Benché ci assalgano / da mille lati / virus terribili / sempre più irati; //
benché impossibile / torni capire / se vaccinandoci / si va a morire; // benché
il pandemico / morbo funesto / non mostri animo / d’andar via presto; // benché
le scatole / (mi perdonate?) / per spasmi ed ansimi / sian frantumate; // a
tutti io auguro / oltre ogni pena / una domenica / lieta e serena!
4
Saette e fulmini, / tuoni e procelle! / I nervi fremono / a fior di pelle; /
giungono a torcersi / pure le ossa: / l’Italia è rossa! // Non è politica, /
non è il conato / d’un ecumenico / più giusto stato. / È cosa semplice, /
banale e dura: / è una rottura! // Sempre tra maschere, / sempre coi guanti, /
sempre un isterico / fuggir gli astanti / correndo a chiuderci / per
prevenzione: / è una prigione! // Ma un dono timido, / tremulo e fioco, /
giunge via etere / a voi per gioco. / Non domandatevi / che cosa sia: / è una
poesia…
5 Mi vaccinai. Tal fu il dovere mio. / Ma ancora, amici, non
mi sono accorto / (e in ansia atroce lo domando a Dio) / se il mio naviglio
tocca o lascia il porto, / se sono un altro o sono sempre io, / se sono ancora
vivo o son già morto. / Proprio per questo è detto in un poema: / “Ettore o non
Ettore è il problema!”
6 Ho dormito come un ghiro, / sono uscito a fare un giro: /
una lunga passeggiata / lieta maschia indiavolata. / Nutro tutti i desideri /
che nutrivo ancora ieri. / Torno a casa. Dallo specchio / mi sorride un brutto
vecchio. / Guardo attento: sono io stesso, / folle prima e matto adesso, / e a
voi tutti scrivo che / vaccinato sto da re!
7 Ho
fatto la mia dose di richiamo, / e sento il gatto conversare in greco / con un
pesce che, sceso giù dal ramo, / rulla una sigaretta e la offre a un geco. /
Urlo a me stesso dallo specchio: “Io t’amo!”, / ma mi trilla all’orecchio un
grillo bieco / che dice: “Assai giocasti a fare il pazzo; / ora lo sei, mio
povero ragazzo!”
8
Corron voci striscianti appiccicose / nauseabonde arcisteriche villane /
metalliche arroganti minacciose / più d’un ringhio famelico di cane. / Dicono:
“Ci sarà una terza dose…” / Quadrare il cerchio o inverginar puttane? /
chiedere al cieco qual è mai la via? / morir di morbo ovver di terapia?
9 E
venne l’ora della terza dose. / I medici, saputi, l’hanno detto. / Sogno
ruscelli, sogno caste rose, / brezze sul volto, amori immani in petto. / Sogno,
sogno, e mi destano le odiose / punture al braccio, come un reo dispetto. / E
anelando con l’anima all’Eterno, / di dose in dose rotolo all’inferno.
10 Un
raffreddore timido e vigliacco; / una tossetta stizzosuccia e fioca; / un
sentor d’ossa rotte e corpo fiacco; / una voce stagnante e vana e roca… /
Penso: “Ho la peste anch’io, perdincibacco!” / Lo penso, e la mia pelle si fa
d’oca. / E a fugare la nera fantasia / a perdifiato corro in Farmacia. //
Entro. Racconto tutto. Su pel naso / mi conficcano un tùbulo sapiente. / Temo
di sangue un infernal travaso; / temo di venir meno immantinente; / temo che il
sole mio tocchi l’occaso; / temo di evaporare nel mio Niente. / Ma con volto
materno, pio, giulivo, / la farmacista esclama: “Negativo!” // Negativo! - e
ritorna ogni vigore; / negativo! - e vaniscono i pensieri / d’un sangue che per
sempre lasci il cuore; / negativo! - e seimila desideri / mi corrono le membra
in lieto ardore. / Vivo e felice oggi come ieri, / e domani ancor più. Ciò
voglio e spero: / per me, per te, per l’Universo intero!
E con
la speranza di una universale felicità, nonché con quella assai più piccina ma
non meno intensa di averti segnato sul volto un sia pur pallido sorriso, ti
saluto, o lettore, e ti rimando alla prossima.
Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 8/V/2022
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