di
Mario Gaudio
La tendenza ad idealizzare la campagna ha attraversato, da
tempo immemorabile, la storia della letteratura, raggiungendo il suo culmine o
toccando il baratro ‒ è questione di punti di vista ‒ con l’Accademia
dell’Arcadia (1690) che, pur avendo il pregio di ricollegarsi alle idealità
classiche, commise l’infausto errore di contrapporsi al ridondante Barocco
attraverso fatue pastorellerie che ebbero il demerito di offrire l’immagine di
una natura idilliaca ma palesemente aliena dalle reali condizione esistenziali.
Ben più accorti dei letterati furono certamente i pittori
che, probabilmente esercitati nella pratica dell’osservazione della
quotidianità, avevano già denunciato la proverbiale nudità del re, mostrando
come la levità della Natura fosse minacciata continuamente dalla corruzione
della morte.
Tanto il Guercino (1591-1666) quanto il francese Nicolas Poussin (1594-1665) distrussero l’idea di una campagna primigenia popolata da ninfe e rustiche divinità, dando vita ad emblematici dipinti ‒ intitolati Et in Arcadia ego ‒ in cui la semplicità dei pastori è sconvolta dall’incontro con l’implacabile comune destino rappresentato sotto forma di teschio e di pietra tombale.
Senza scomodare gli scritti di Erwin Panofsky ‒ ai quali il
paziente lettore potrà ricorrere sua sponte per vagliare le varie
interpretazioni delle opere d’arte citate ‒, constatiamo il netto ritardo della
letteratura italiana ‒ salvo sporadiche eccezioni ‒ nell’accettare e nel
raccontare il vero volto della campagna e della vita agreste.
Occorrerà attendere il Verismo ottocentesco ‒ consanguinea
espressione del Naturalismo transalpino ‒ per avere un quadro sufficientemente
chiaro della reale vita nei campi e, benché in netto ritardo rispetto alle
convenzionali scansioni temporali, lo stesso Ritorno alla Piana di Eduardo Apa
può oggettivamente essere considerato romanzo verista.
Il lettore dal palato fine potrebbe obiettare la nostra
affermazione, agitando il vessillo del Neorealismo, ma è bene far chiarezza, negando
questo fregio all’opera dello scrittore terranovese che, a conti fatti, si concentra
sulla narrazione di vicende e spazi senza diventare portavoce di istanze
politiche o sociali di qualsivoglia colore ideologico.
Apa si presenta dunque nei panni di un verista fuori tempo,
ma sicuramente non meno valido rispetto ai nomi d’eccezione che fecero la
fortuna di tale corrente letteraria. È necessario anzi evidenziare il punto di
forza del nostro autore che può esser fatto coincidere con la lettura della
vita rurale secondo una prospettiva borghese e, pertanto, diversa e distante da
quella aristocratica del siciliano Verga e da quella proletaria del calabrese
Saverio Strati.
Apa delinea una campagna smitizzata, lontana da fasti, riti
e miti dell’antichità e caratterizzata da sacrificio, delusione e duro lavoro.
La piana di Apollinara non è più gaudente terra della Magna Grecia e il
sibaritismo esistenziale dei tempi passati è divenuto pericolosa mistura di
dramma e lotta per la sopravvivenza.
Gli stessi protagonisti del romanzo sono inconsapevoli
latori di un inevitabile genetico degrado dal quale tentano di fuggire
imboccando strade divergenti e inconciliabili: Michele sprofonda nella
rassegnazione ‒ forse retaggio di una superficiale formazione cristiana
ricevuta nell’infanzia ‒, mentre sua moglie Rosa precipita nel pericoloso mondo
dell’illusione. Entrambi si allontanano comunque dalla realtà e innescano quel
processo che li condurrà ‒ attraverso incomprensioni, silenzi e conflitti
interni ed esteriori ‒ ad una frattura che si ricomporrà solo con
l’approssimarsi della morte.
Tra i biondi campi di grano di Apollinara si consuma
l’agreste bovarismo della giovane Rosa che, moglie e madre, non riesce ad
accettare la propria condizione, ma si logora dinanzi all’arrendevolezza e «al
fare di cane bastonato» del consorte sino al punto di concedersi anima e corpo
all’unica novità che rompe la monotonia della contrada: il giovane ingegnere
comasco giunto per dirigere i lavori di costruzione della nascente strada.
L’apparente quiete rurale cela dunque gli incontrollati moti
della passione amorosa che vien declinata nelle sue differenti forme: il
rapporto tradizionale ‒ tipico di passate stagioni patriarcali ‒ di Michele, la
relazione adulterina di sua moglie, il corteggiamento ciarliero e inconcludente
del cugino Gregorio e quello volgare e istintivo di Nicola.
Lo scenario che ne consegue contempla la fuga della donna fedifraga
e la necessità di placare i pettegolezzi del vicino paese di Terranova per
mezzo di una improvvisata e temporanea emigrazione in Svizzera del marito
tradito.
Solo alla fine delle peripezie in terra straniera, ci sarà la riconciliazione tra i due sposi, momento di elevazione del romanzo favorito dalla sostanziale remissività caratteriale di Michele e dalla grave malattia di Rosa.
Il ritorno ad Apollinara potrebbe sembrare la conclusione di
un ciclo, ma l’intervento della morte ne impedisce la realizzazione e il
protagonista, rimasto vedovo, si avvia a compiere un profondo lavorìo interiore
che ‒ per rimorso o semplicemente per incoscienza ‒ lo indurrà ad assumersi il
pesante fardello della colpa e ad assolvere la defunta consorte adultera. Ne è
testimonianza l’affermazione finale con cui l’uomo risponde alla curiosità
della giovane nipote che domanda informazioni sulla nonna: «Rosa era un angelo,
noi non la meritavamo e Dio se l’è presa».
L’intera vicenda costruita da Eduardo Apa richiama ‒ con le
dovute differenze stilistiche e strutturali ‒ i fatti raccontati da un altro
Eduardo ‒ De Filippo all’anagrafe ‒ in Chi è cchiù felice ‘e me!, commedia datata
1929 in cui l’apparente serenità familiare di un piccolo possidente (Vincenzo)
è distrutta da un fuggiasco (Riccardo) capitato lì per caso e divenuto amante
della giovane moglie Margherita.
Una nota a parte merita il personaggio di Biagio, vicino di
casa e fedelissimo amico del protagonista, che, a ben vedere, risulta essere
l’unico vero soggetto positivo della storia. Egli incarna l’emigrato ritornato
in patria con nuove idee e con l’esperienza di un lungo e sofferto lavoro. Sarà
proprio lui a far fruttare le terre incolte di una masseria confinante e a
tracciare, nella tragedia del tradimento, l’unica via di fuga per salvare
l’onore di una famiglia dalle bramose chiacchiere paesane.
In conclusione: Apa demitizza la campagna ‒ «gli allor ne
sfronda» ‒ e mostra come, al di là degli interessanti risvolti
etnoantropologici, tra i filari delle vigne, le messi e gli ulivi albergano
sentimenti talvolta ferini che contrastano con la patinata placidità del
paesaggio.
Ritorno alla Piana è un viaggio alla ricerca della verità e,
in tempi tristi e bui come quelli attuali, mettersi in cammino non può far che bene.
Spezzano Albanese (Spixana), 16/01/2022
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