di
Mario Gaudio
Nonostante il ministro Cingolani ‒ degno erede, su questo
tema, del famigerato collega Poletti ‒ dia lustro al suo dicastero abbandonandosi
a sproloqui che demoliscono imprudentemente la già fragile cultura umanistica
nazionale e benché in gran parte degli atenei italiani ‒ salvo rare e valide
eccezioni ‒ si presti il fianco a tali critiche, riducendo lo studio della
letteratura a sequela di futili e pedanti questioni filologiche, noi, disinteressandoci
altamente delle situazioni poc’anzi elencate, abbiam deciso di scrivere una
noterella sul Manzoni che, senza pretesa alcuna, si propone di far focalizzare
l’attenzione del benevolo lettore su personaggi e casi rimasti lontani, o
comunque marginalizzati, dagli studi principali e imprescindibili sull’esegesi dei
Promessi sposi.
La critica militante ‒ oggi sempre più latitante dal
dibattito culturale del Paese e trasformata, molto spesso e semplicisticamente,
in dotta discussione tra soggetti interessati e disillusi ‒ ha giustamente
concentrato i suoi forzi sui vari Renzo, Lucia, don Rodrigo, don Abbondio e
fra’ Cristoforo, estromettendo da un’analisi completa e complessa quella parte
di folla o popolo ‒ scegliete voi il termine che più v’aggrada, secondando il
vostro concetto di “politicamente corretto” ‒ identificabile con la gioventù.
Tanti sono i bambini, gli adolescenti e i giovani che vivono, soffrono e muoiono nel capolavoro manzoniano, assimilando nelle proprie esistenze le stravaganze del destino e gli oscuri e contorti sentieri della Storia e rientrando, pertanto, in quel vasto, provvidenziale e imperscrutabile disegno divino che l’autore fa brillantemente apparire, in filigrana, dietro le vicende narrate.
Lì dove non esiste un diritto all’infanzia ‒ siamo nella
Lombardia spagnola del Seicento ‒, la sopravvivenza dell’individuo è legata
alla crescita forzata e subitanea e, di conseguenza, alla compartecipazione ai
sacrifici e alle privazioni degli adulti di un contado povero e analfabeta,
costantemente angariato da prepotenti tirannelli di provincia e falcidiato
dalla fame e dalla malattia.
Già nel quarto capitolo, Manzoni inquadra lo spettacolo
pietoso che si para davanti agli occhi di un mattiniero fra’ Cristoforo e che
fa da triste contrappunto alla dolcezza del paesaggio autunnale inondato da
splendidi colori. Sebbene non si parli ancora di carestia, appaiono qua e là
gli indizi di un raccolto scarso che innesca una ancestrale volontà di
sopravvivenza e la conseguente istintiva competizione tra i singoli e tra le
specie: «La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella
magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo
della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli
uomini potevan vivere»[1].
Poco oltre, la scena si ripete, ma in un ambiente
prettamente domestico che rende ancor più drammatica la lotta ‒ tacita o
effettiva, simbolica o reale ‒ finalizzata a riempire lo stomaco. Siamo in casa
di Tonio, giovane contadino scelto da Renzo come testimone per il suo tentativo
di matrimonio a sorpresa. Il Manzoni coglie la miseria del contesto nella magra
polenta «bigia, di gran saraceno» ‒ e pertanto di scarso valore nutritivo ‒ che
vien cotta nel paiolo e, in misura più significativa, nello sguardo quasi
famelico con cui i bimbi attendono il sospirato pasto.[2]
Ma, l’azione determinante, capace di far comprendere l’astuzia che la fame
induce a sviluppare pur nell’età dell’innocenza, si svolge nel momento in cui
il capofamiglia è invitato dal promesso sposo a sbocconcellar qualcosa
all’osteria. L’inaspettata assenza del commensale acuisce il senso di
competizione di cui si accennava in precedenza e l’autore, con fare bonario,
rileva come «[…] le donne, e anche i bambini (giacché, su questa materia,
principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla
polenta un concorrente e il più formidabile».[3]
L’infanzia manzoniana è impaludata in una società violenta
che, inevitabilmente, imprime le proprie stimmate nella fisionomia stessa dei
soggetti. È il caso dei figli dei coloni che custodiscono e lavorano le terre
adiacenti al palazzotto di don Rodrigo. Nel villaggio abitato da «omacci
tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una
reticella» e «donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute» non
mancano neppure strani bambini, il cui aspetto inquieta e interroga, dal
momento che, pur nella banalità del gioco di strada, nelle loro mosse si
intravede «un non so che di petulante e di provocativo».[4]
Nel capitolo settimo, compare un’altra rappresentanza della
prole contadina che mostra tratti sicuramente più gentili, ma che vive comunque
nelle medesime condizioni di stenti e rinunce. Manzoni pone davanti ai nostri
occhi una nidiata di bambini per i quali il tempo dello svago e dei giochi è
sostituito da quello del lavoro agricolo. Sul far del tramonto, con malinconiche
movenze impresse su tela da diversi artisti ottocenteschi, intere famiglie
rientrano al villaggio e, allo scoccar del vespro, nonostante la fatica, non si
tralascia la recita di antiche e salutari orazioni: «Le donne venivan dal
campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i più grandini, ai
quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe,
e con le zappe sulle spalle».[5]
Da quanto detto, occorre trarre tuttavia una doverosa precisazione:
sarebbe ingenuo credere che le gioie della fanciullezza vengano annichilite
soltanto dalle dure necessità di vita della società rurale. Anche i rampolli
delle case altolocate sono condannati a non godere, in tutto o in parte, i frutti
dell’innocenza: la vicenda della piccola Gertrude ‒ la futura monaca di Monza ‒
ne è lampante esempio. Figlia cadetta di nobilissima famiglia, il suo destino
claustrale è già stato tracciato prima di venire al mondo («La nostra infelice
era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già
irrevocabilmente stabilita»[6]) e fin dai primissimi
mesi ‒ seppur ancora lontana dall’età del giudizio ‒ le si impongono
attenzioni, gesti e parole che richiamano palesemente il chiostro e la vita
religiosa: «Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero
in mano; poi santini che rappresentavan monache»;[7]
e ancora: «Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’
maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della
fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non
con le parole: “che madre badessa!”».[8]
Tale coercizione fa di Gertrude una vittima e costituisce, al
cospetto del tribunale della critica, una minima attenuante utile a comprendere
‒ non certamente a giustificare ‒ la genesi degli scellerati delitti di cui si
macchierà in età adulta.
L’infanzia violata dagli uomini e dagli eventi diventa
occasione per praticare la carità, cardine del cristianesimo manzoniano,
soccorso insperato per i poveri e strumento di manifestazione della Provvidenza
nel tempo e nella Storia. È fondamentale citare, a tal proposito, due scene di
dolore che si stagliano nitide tra i capitoli del romanzo: la prima si
concentra sulle madri che «[…] alzavano e facevan vedere da lontano i bambini
piangenti, mal rivoltati nelle fasce cenciose e ripiegati per languore nelle
loro mani»[9] ai bordi delle strade milanesi
rese spettrali dalla paura e dalla pestilenza; la seconda costituisce quasi una
sorta di commovente quadro plastico che da un lato induce Renzo, da poco
arrivato in terra bergamasca, a dare in elemosina gli ultimi spiccioli rimasti
in tasca, dall’altro ispira all’autore un frammento di rara bellezza narrativa
che non guasta rammentare: «Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi
v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata,
un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l’una e
l’altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto,
vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora
vedere i segni d’un’antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio.
Tutt’e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con
l’aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?».[10]
Tuttavia, se l’inedia aggiunge mali su mali alla già
travagliata fanciullezza, la peste le darà il colpo di grazia, facendo
indiscriminata strage di creature inermi o privandole di affetti e risorse.
La mente del lettore corre immediatamente alla sublime pagina manzoniana in cui si racconta la triste vicenda di Cecilia, giovinetta di circa nove anni uccisa dal terribile morbo, il cui corpicino vestito con l’abito della festa è deposto dall’afflitta madre ‒ a sua volta appestata ‒ sul carro dei monatti con un misto di premura e tenerezza che non può non richiamare il medesimo sentimento fissato eternamente nel marmo da Michelangelo nella sua maestosa Pietà. Ma, ancor più dolorose son le marce forzate che conducono i fanciulli malati verso il lazzaretto e che prefigurano, quasi profeticamente, altre tragiche sfilate di esseri umani condotti a ben più ignobili ghetti dal torpore della ragione verificatosi in pieno Novecento.
Manzoni descrive con cura questi episodi, costruendoli con
la freschezza di un dipinto che tuttora indigna o interroga, ma non lascia in
alcun modo indifferenti: «Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto;
alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan
morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e
ai comandi de’ monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza
mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co’ bambini in
collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia,
più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la
madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che
credevano d’aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s’era buttata,
sorpresa tutt’a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per essere
portata sur un carro al lazzaretto, o alla fossa, se il carro veniva più tardi».[11]
In questo clima di caos, malattia e follia generalizzata,
per molti fanciulli la strada diventa spietatamente tomba («Moriva, per
esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri
di peste»)[12], ma per altri ‒ i più
fortunati, se così possiam dire, viste le circostanze ‒ si spalancano le porte
della carità, solerte braccio operativo della Provvidenza, e si ravvivano
vigorose fiammelle di vita ch’eran state, sino a qualche istante prima,
fumiganti e prossime alla fine: «Qua e là eran sedute balie con bambini al
petto; alcune in tal atto d’amore, da far nascere dubbio nel riguardante, se
fossero state attirate in quel luogo dalla paga, o da quella carità spontanea
che va in cerca de’ bisogni e de’ dolori».[13]
Si evince con chiarezza che per il Manzoni la gioventù
diventa strumento privilegiato per far leva sulla compassione e sugli
affettuosi sentimenti del lettore, ma anche e soprattutto luogo deputato
all’azione di forze divine che, servendosi del buon cuore umano, agiscono nella
Storia per tutelare i germogli della società e garantirne, in un certo qual
modo, la futura esistenza.
È evidente, inoltre, che l’autore faccia uso di personaggi
adolescenti per dare una svolta alla narrazione, investendoli del ruolo di
messaggeri di notizie essenziali: è il caso di Bettina, a cui Renzo affida il
compito di avvisar Lucia dopo il tumultuoso colloquio con don Abbondio, e di
Menico, «ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte», che, inviato
al convento di Pescarenico per ricevere informazioni da padre Cristoforo,
sfugge casualmente dalle mani dei bravi di don Rodrigo e intima ai promessi
sposi di non far ritorno a casa dopo la “notte degli imbrogli” per non
incappare nella squadraccia di malfattori capeggiata dal temibile Griso.
La giovinezza ispira anche ad un saggio vegliardo del
calibro del Manzoni l’occasione per incappare in un veniale abbandono alla
vanità, dacché, nel capitolo XI, lo scrittore milanese non resiste alla
tentazione di inserire una breve descrizione del suo amatissimo figlio Enrico:
«Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del
bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho
visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo
gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in
un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era
fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva
per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni
parte. Dimodoché, dopo essersi un po' impazientito, s’adattava al loro genio,
spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender
gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien
fare co’ nostri personaggi […]».[14]
Tirando le fila del discorso, possiam dire che gli esempi
elencati dimostrano con precisione che il vecchio don Lisander Manzoni ha
costruito l’architettura del suo romanzo attingendo ampiamente alla categoria
paradossale e ossimorica del puer senex: il bambino manzoniano, pur giovane
anagraficamente, sperimenta le vicissitudini dell’esperienza precoce e fuori
tempo, inizia a confrontarsi ben presto con le angosce, i dolori e le
improvvisazioni dell’esistenza.
Tutto ciò potrebbe indurci erroneamente a pensare che si
tratti di espedienti e situazioni ormai lontane e prive di riflesso sulla
nostra contraddittoria società in cui è di moda il puer aeternus con il suo
carico di superficialità, ma il buon senso ci risveglia e indirizza la nostra
attenzione sulla retta via interpretativa che, lontana tanto dalle affermazioni
culturalmente asfittiche d’un Cingolani quanto dal «sibaritismo intellettuale»
di certi ambienti accademici autoreferenziali, ci consente di recuperare quel
senso di profonda umanità che il Manzoni ha inteso trasmetterci attraverso i
suoi innocenti personaggi.
Spezzano
Albanese (Spixana), 20/XII/2021
[1] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, a cura di Vittorio Spinazzola, Garzanti, Milano, 2004 (1966), cap.
IV, p. 47.
Da questo momento, citeremo,
per comodità, soltanto capitolo e pagina dell’edizione di riferimento.
[2] «[…] tre o quattro ragazzetti,
ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che
venisse il momento di scodellare» (cap. VI, p. 81).
[3] Cap. VI, p. 82.
[4] Cap. V, p. 62.
[5] Cap. VII, p. 98.
[6] Cap. IX, p. 126.
[7] Ibidem.
[8] Cap. IX, pp. 126-127.
[9] Cap. XXVIII, p. 391.
[10] Cap. XVII, p. 242.
[11] Cap. XXXIV, p. 482.
[12] Cap. XXXII, pp. 446-447. Ancor più
efficaci le parole del Ripamonti riportate dallo stesso Manzoni al cap. XXVIII,
p. 390: «Vidi io, nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna… Le
usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi
un atto di sforzo rabbioso… Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le
fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa… Ed erano
sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di
terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno».
[13] Cap. XXXV, p. 491.
[14] Cap. XI, p. 163.
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