di
Ettore Marino
Gévaudan: si chiamava così una
provincia del Mezzogiorno della Francia: aspra ventosa fredda povera. La
Rivoluzione ne rimpastò i confini ribattezzandola Lozère. Nessuno più
ricorderebbe il vecchio nome, se un’ombra assassina non lo avesse marchiato per
sempre. Creduta e non creduta, infatti, una voce s’era messa a vagare per tutta
la Francia sudorientale; era l’autunno del 1763, e la voce diceva di donne e di
ragazzi uccisi o scampati per prodigio agli assalti di un’orribile fiera. La
voce si muta in evidenza quando è rinvenuto ciò che resta del corpo di Jeanne
Boulet, pastora di quattordici anni. È il 30 Giugno del 1764.
Fu l’inizio di un sogno
affannoso, di quelli che paiono ignari di risveglio. Silente astuto rapido, il
mostro appare, si erge sulle zampe posteriori, azzanna, artiglia, uccide, si
pasce delle vittime. Le decapita, a volte. Chi l’ha veduto lo descrive così:
grande assai più d’un lupo, fulvo, dal petto bianco, e striato di nero sul
dorso; ha coda molto lunga, robustissimi artigli, testa massiccia, mascelle
pronunciate, ampia chiostra di denti. Attacca anche gli uomini adulti, che
riescono spesso, però, a metterlo in fuga.
Al comando del capitano Duhamel, uno squadrone di dragoni prende a metà Settembre a battere la zona. Nessuno esce di casa se non armato di una rudimentale picca e, giacché la fiera predilige il sesso gentile, alcuni dei dragoni si travestono da donna. In Dicembre l’Assemblea degli Stati di Languedoc promette un premio di seimila livres a chi uccida la bête. Non la si chiama in altro modo: nella provincia e in tutto il regno.
I contadini e i pastori del
Gévaudan sono buoni cattolici impastati di paganesimo. Orgogliosi cultori del
delitto d’onore, della vendetta, di una immota inconcussa omertà, guardano di
mal occhio i dragoni di Duhamel, i quali s’industriano, sì, a stanare la fiera,
ma fanno molto poco per rendersi simpatici alla popolazione. Si fa strage di
lupi. La bestia, però, è ancora là: sparge morte e terrore, discredita una
Francia che inglesi e prussiani hanno appena umiliato nella Guerra dei sette
anni, riempie di furore Luigi XV, deriso con gioia sempre più crudele dai
gazzettieri d’oltremanica. Alcuni atti di coraggio rifulgono nel buio. Un
giorno del Gennaio del 1765 la bestia assale una frotta di ragazzi. Morde uno a
una guancia, abbranca un altro per il braccio. I restanti, però, spronati dal
non ancora tredicenne Jacques Portefaix, la mettono in fuga salvando il
compagnetto. Saranno premiati per volere del re. Armata solo di cuore di madre,
Jeanne Jouve, il 14 Marzo, sottrae alle male grinfie due dei propri figlioli.
Uno morrà per le ferite. Premio del re anche a lei. L’11 Agosto si ricopre di
gloria la ventenne Marie-Jeanne Vallet, che colpendo la bestia con la picca,
salva sé e chi le si accompagna. Sarà chiamata la Pucelle du Gévaudan.
Intanto, Jean Vaumesle
d’Enneval, il più glorioso cacciatore di lupi dell’intero reame, affianca e poi
sostituisce il capitano Duhamel (Febbraio - Aprile 1765). Brani di carne
avvelenata sono sparsi pei boschi, nella speranza che la bête se ne cibi. Sono
però i cani a morirne. Ogni volta che viene ferito, il prodigioso animale si
rialza e fugge.
Nel Luglio dello stesso anno,
Vaumesle d’Enneval, che pur non ha poltrito, si ritira. Così ha voluto il re
che, provetto cacciatore, ha già inviato al suo posto il proprio portatore
d’archibugio François Antoine: e con l’aiuto di un suo uomo, il 21 Settembre
1765, Antoine fredda la bestia. Dissezionata dagli esperti, la carcassa è
condotta, impagliata, a Versailles, dove il monarca si compiace tra i battimani
della corte. L’incubo si è dissolto. Più silente e guardinga di prima, però, la
misteriosa creatura ritorna a dargli corpo: azzannando, mordendo, sbranando...
Benché grosso e minace, quello ucciso da Antoine non era infatti che un lupo
fra tanti. La Francia non può certo risolvere un problema che il re ha
dichiarato risolto. Pensarci toccherà perciò alle sempre più affrante e
atterrite genti di Gévaudan. Sarà un lungo penare.
Jean Chastel è un rude vecchio
vigoroso. Vive con due dei suoi figli, fa vari mestieri, caccia con grande
abilità, ed è sempre attorniato da una muta di molossi. È un miscredente, e lo
si chiama “il figlio della strega”. Quando la bestia uccide una bimba che gli è
cara, si riavvicina a Dio e alle pratiche di culto. Così almeno si narra; come
si narra che abbia fuso alcune medagliette d’argento della Vergine ricavandone
palle da schioppo che avrebbe fatto benedire da un sacerdote. Per certo, farà
parte della squadra che il marchese d’Apcher arma nel Giugno del 1767. Il 19 di
quel mese, Chastel uccide un lupo di gran mole, notomizzato poi in una dimora
del marchese stesso. Alcuni giorni dopo, una lupa, che la voce del popolo
predica compagna e complice d’antropofagia del lupo abbattuto da Chastel, viene
freddata da un tale Jean Terrisse. A onta delle seimila livres spettanti a chi
avesse ucciso la bestia, le autorità locali ricompensano i due con un donativo
assai misero. Di Terrisse non si parlerà più. Chastel, invece, è ricordato
ancora come il liberatore del Gévaudan. Fosse la bête il lupo ucciso dall’uno o
la lupa uccisa dall’altro; lo fossero ambedue o lo fosse una terza creatura
frattanto morta di morte naturale, cessò da allora ogni pericolo, l’incubo si
mutò in ricordo, e gli aspri figli di quell’aspra terra tornarono a gustare
l’obliqua dolcezza che l’alba reca in ogni landa del creato.
Sulla natura della
bestia, la ridda delle ipotesi, cioè delle immediate certezze personali
spacciate ognuna per verità sola e ultima, prese ad accompagnare i fatti, e
spumeggia oggi ancora: un lupo, due lupi, un branco intero; un animale esotico
fuggito da un circo o dal serraglio di un annoiato gentiluomo; un lupo mannaro,
un demonio, un flagello inviato da Dio a punire un popolo di pervicaci
peccatori (era la tesi del vescovo di Mende); un rovinoso incrocio tra due
fiere di specie diversa; un malato di mente che usava coprirsi di pellicce; un
lupo addestrato sin da cucciolo a uccidere l’uomo per il perverso disegno di un
pazzo, dei protestanti, di qualche senzadio, di emissari inviati dal re a
spargere terrore tra gli stessi suoi sudditi...
Non mi si chieda la mia poiché,
semplicemente, non ce l’ho. Mi forzassi a produrla, non fornirei che una
facezia o una verità così casuale, da valere assai meno della facezia stessa.
Narrando questa storia, avrei solo voluto fornire uno spunto a chi nel mio
paese va organizzando, da un po’ di anni in qua, gustosissime cacce al tesoro.
Disegno vano quanto pochi: i campi i boschi le vallate che incoronano il borgo
sono infestati tutti da un mobilissimo e sempre più nutrito stuolo di bestie
prive di mistero ma dal fare e dall’animo assai poco fraterni. E immaginare un
archibugio che dai cinghiali ci liberi per sempre, è muovere lo spirito nel
rugiadoso reame dei sogni troppo lieti e delle fiabe troppo belle perché
divengano realtà.
Vaccarizzo Albanese
(Vakaric), 15/I/2023
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