di
Ettore Marino
Cesare stringe in pugno il discorso di ognuno. La voce sua è piombo fuso in ogni altra gola. A Cesare sia dato sempre ciò che gli è dovuto. L’ultimo Cesare d’Italia si chiamava Benito da Predappio. Che sia stato zittito da quasi otto decenni è una felicità cui sono troppo avvezzo per poterla avvertire come goduria attuale, né appartengo alla schiera di chi detta goduria rinnova in ogni salotto fingendo quasi di avere combattuto di persona una lotta cui l’anagrafe lo danna ad aver solo letto o sentito narrare. Bene è che i partiti siano due, e due infatti essi sono: il nostro, che per definizione dice il vero, decide giusto, fu è e sarà onesto nella persona d’ogni suo iscritto e votante; e l’altro, che è sempre pura tenebra. Ringrazio d’esser nato in una democrazia (che in nessun modo contribuii a istituire) poiché la paranoicità della bifonia trovo seimila volte preferibile al piombo della voce sola.
Benito da
Predappio fu l’ultimo a voler insegnare agli italiani in maniera coatta come
dovessero parlare; più propriamente, pretese d’insegnare loro come parlare non
dovessero. Un’Italia italiana era nei voti suoi, e fu guerra alle voci
straniere e alle voci nostrane affette da aura estera o che, suonando femminee
borghesi servili, urticassero troppo il virilismo littorio. Italianizzare le
minoranze occitana, francoprovenzale, tedesca, slava e ladina; diserbare i
forestierismi; riverginare il lessico con copiosi lavacri in Arno e pure un
poco (v’è un solo Impero, ed è romano) in Tevere – furono i punti del
programma. Ci torneremo presto.
Rari i
momenti in cui un editto abbia deciso, e fino a un certo segno, d’una lingua.
Un po’ di esempi. Regno di Francia. Con l’ordinanza di Villers-Cotterêts
(1539), Francesco I impone che i documenti di giustizia e polizia, né essi
soli, vengano “pronunciati, redatti e consegnati alle parti in lingua materna
francese, e non in altro modo”. Fu un duro colpo, per la lingua occitana. La si
continuò però a parlare, e con così spontanea fluidità che quando, circa 120
anni dopo, Jean Racine soggiornerà in Occitania (segnatamente, a Uzès), gli
piaceranno il bel cielo e le ragazze, ma farsi comprendere da queste gli
tornerà assai arduo. Andiamo in Albania. È indipendente dal Novembre del 1912.
Due le aree linguistiche: la ghega a Settentrione, la tosca a Mezzogiorno.
Quattro anni dopo, un’apposita Commissione (Komisija letrare shqipe) sceglie
come lingua nazionale il ghego di Elbasan, prossimo al tosco, buono ad
accontentare tutti. Millenovecentocinquanta: sia per tagliare i ponti col
passato, sia perché i vertici del Partito sono occupati da meridionali,
l’Albania già da un po’ comunista controimpone il tosco. Ciò che però una
lingua è in sé, nessun editto può mutare. Ogni lingua è un coagulo, un coagulo
in moto perenne, liquido nel parlato, rappreso ma liquido in essenza se
scritto. Evitando perfino di sondare la vastità dell’argomento, torniamo alle
imposizioni mussolìniche.
L’assorbimento delle sopraelencate minoranze fu tentato
dotando quelle aree solo di scuole monolingui, e italianizzando toponimi e
cognomi. La Riforma Gentile contemplava, per le Elementari, l’uso del dialetto
come via di transito al possesso della lingua nazionale; fu questo uno dei
punti in cui fu ritoccata e stravolta. Divertenti a narrarsi sono molto di più
gli interventi sul lessico. Purismo e rilassata tolleranza si combattono sempre
quando è questione di lingua. Ami o odi una lingua per sé stessa, ovvero la ami
o la odi perché rappresenta qualcosa. Puoi odiare l’inglese se, nostalgico del
manganello, hai in uggia la perfida Albione; e puoi odiarlo, specie nella
variante d’Oltreoceano, se hai nostalgia della Siberia. Indipendentemente dal
Fascismo, fiorì in seno alla Crusca la corrente neopuristica. Bruno Migliorini
e poi Arrigo Castellani ne furono i campioni, benché non essi soli. In epoca
littoria, Migliorini caldeggiò ‘autista’ per chauffeur, foggiò ‘regista’ per régisseur,
e il Regime li impose ai parlanti. Fu un caso fortunato, poiché i due lemmi
hanno suono gradevole e poiché gli italiani li adottarono senza penare troppo.
Già dai primissimi anni Trenta, scrittori e giornalisti s’industriarono a
ripulire la lingua; quindi ne fu incaricata la stessa Accademia d’Italia. La
proibizione assoluta d’ogni forestierismo fu sancita per legge il 23 Dicembre
del 1940. Alle voci soppresse se ne sostituì di nuove, e cocktail divenne
‘arlecchino’, e swing divenne ‘slancio’, dribbling ‘scarto’, mannequin
‘indossatrice’, claque ‘clacche’, tabarin ‘tabarino’, mentre robe à paillettes
rifiorì in ‘vestito allucciolato’ e passepartout in ‘chiave comune’. Per
l’impudente sua idiozia, restò nella memoria la guerra dichiarata al pronome
allocutivo ‘Lei’, che si tentò di soffocare in pro del ‘Voi’. Il ‘Lei’ parve
servile, poco italico, femmineo. Fu, assai stranamente, il fiorentino Bruno
Cicognani a proporre la cosa, e Mussolini e Starace ne furono entusiasti.
Giacché il ‘Lei’ non cedeva, le pareti di non pochi uffici furono ornate d’un
distico che consiglio di leggere col più ducescamente romagnolo degli accenti:
“A chi ti dà del Lei ancora adesso, / tu non dare del Tu: dagli del fesso!” La
rivista femminile Lei dovette mutar nome, e divenne Annabella. Totò portò la
cosa nel cielo della surrealtà quando, in uno spettacolo teatrale, comparve
nelle vesti di Galileo Galivoi. Patì denuncia. Fu Mussolini stesso a
scagionarlo appieno dando del fesso a chi lo aveva denunciato… Arrigo
Castellani, che morirà carico d’anni nel 2004, seguiterà a proporre calchi
italiani per voci straniere in uso, ovvero l’utilizzo di voci nostre già
esistenti al posto di forestierismi vittoriosi. È il caso di ‘chiassone’,
proposto a far zittire clacson. Quanto ai suoi calchi, ve n’è di goffi:
‘guisco’ per whisky, ‘coccotaglio’ per cocktail; ve n’è di arcisimpatici: se smog
è il risultato della crasi tra smo(ke) e (fo)g, ‘fubbia’ lo sarà tra ‘fu(mo)’ e
‘(ne)bbia’. Ogni proposta castellànica cadde, è ovvio, nel vuoto. Due tra esse,
però, leggiadre, elegantissime, meriterebbero sorte trionfale. Parlo di
‘abbuio’ e ‘velopattino’, da usarsi al posto di black out e windsurf. Mai però
‘velopattino’ troverà un’onda amica né mai un’interrotta erogazione di energia
elettrica darà luogo a un ‘abbuio’. Cesare, infatti, mutò gusti e natura; s’è
tramutato in aria: è intorno a noi, è addosso a noi; è noi ed è laggiù, e si fa
beffa grande del ferro che gli ruppe il petto un dì di Marzo di tanto e tanto
tempo fa. Si protesta goloso di frutta selvatica, e non ne addenta che
innestata; smania e pretende che tu smanii contro l’appiattimento, e schiaccia
a terra ogni fiore che aneli all’azzurro; tutela la diversità disciogliendo il
diverso nell’acido lago dell’uguale; accetta, a farla breve, ‘abbuio’ e
‘velopattino’ solo se sente o se legge black out, solo se sente o se legge windsurf.
Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 03/VII/2022
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