di
Mario Gaudio
Tentare di circoscrivere nel breve spazio di qualche pagina
l’universo letterario e teatrale creato da Eduardo De Filippo (1900-1984)
sarebbe un atto irriguardoso tanto nei confronti dell’autore quanto in quelli
del lettore che verrebbe falsamente condotto attraverso il pericoloso sentiero
della semplificazione che certamente non si addice al nostro drammaturgo.
Per questo motivo cercheremo di limitare l’indagine a due
elementi essenziali del teatro eduardiano ‒ il realismo e il potere del
linguaggio ‒, ritenendo che essi possano costituire un valido grimaldello per
mezzo del quale forzare le porte del testo e penetrare nel sancta sanctorum del
pensiero dell’autore napoletano.
Partiamo dal presupposto, riscontrabile dall’analisi delle
situazioni portate in scena, che il realismo di Eduardo non si limita a
descrivere e rappresentare i costumi a lui contemporanei ‒ sebbene i suoi personaggi
siano brillantemente incardinati nell’ambientazione temporale dei drammi ‒, ma
assume un dinamismo tale da appuntare l’attenzione sugli eterni vizi e le
altrettanto durevoli virtù che connotano l’Uomo di ogni epoca e latitudine.
Ne consegue l’universalità dei caratteri eduardiani che inchiodano il lettore/spettatore ad una necessaria identificazione con quanto scorre davanti ai propri occhi: chiunque assiste alla messinscena non riesce ad esimersi dalla gioiosa e giocosa operazione di riconoscersi in almeno un esponente di quella complessa e variegata umanità che si agita e si sbraccia sulle scricchiolanti tavole del palcoscenico.
Consapevole di questo irresistibile magnetismo, De Filippo
coglie l’occasione per raccontare storie senza disincanti: non tutto finisce
bene ‒ l’esistenza ce lo insegna ‒ e la vita quotidiana scorre impietosamente
immersa nella fatica, ma è solo attraverso questa che si gustano i particolari
attimi che Paolo Sorrentino definì magistralmente come «incostanti sprazzi di
Bellezza».
Tuttavia, è bene precisare, a scanso di equivoci, che in
nessun modo Eduardo può essere tacciato di pessimismo, dal momento che, spesso
e volentieri, l’ambiguità finale dei suoi drammi apre interessanti spiragli di
speranza. Un esempio per tutti è condensato nella notissima battuta conclusiva
di Napoli milionaria! (1945) pronunciata dal protagonista Gennaro Jovine che,
dopo le peripezie della guerra e i travagli familiari dovuti all’attività di
borsa nera condotta da sua moglie, si ritrova ad attendere gli effetti di un
farmaco, reperito quasi miracolosamente in una città devastata materialmente e
moralmente, sul corpicino febbricitante della figlia Rituccia. In questa
logorante e ansiosa atmosfera le aspettative dell’affranto cinquantenne si
risolvono in una sorta di atto di fede la cui professione si esterna in poche e
lapidarie parole: «Adda passà ‘a nuttata». È necessario che la notte trascorra
perché soltanto così la luce può tornare a splendere ritemprando le forze
necessarie per ricominciare l’infinita lotta dell’umanità.
Il realismo spinge De Filippo a rappresentare le
sfaccettature più impensabili della vita penetrando disastri familiari (Filumena
Marturano e Mia famiglia), superstizioni e credenze popolari (Non ti pago), incurabili
follie (Ditegli sempre di sì), insospettabili saggezze (I morti non fanno paura)
e istrioniche capacità di tirare a campare (La grande magia, Il contratto e Il
cilindro).
Non si contano i personaggi partoriti dalla fantasia
eduardiana, ma un’analisi attenta sembra far prevalere tra i protagonisti la
figura dell’uomo di mezza età disilluso e incompreso: tali sono il capocomico
Gennaro De Sia, anima della sgangherata compagnia itinerante di Uomo e
Galantuomo (1922), il già citato Gennaro Jovine, tranviere disoccupato di Napoli
milionaria!, Pasquale Lojacono, ingenuo o rassegnato proprietario
dell’appartamento infestato di Questi fantasmi! (1946), e Alberto Stigliano,
padre e marito imperfetto e frainteso di Mia famiglia (1955).
Eduardo dispone dunque la realtà sul tavolo anatomico e la
seziona con il bisturi affilato della parola: ne fa fuoriuscire gli umori, ne
tocca i nervi, ne esamina scrupolosamente le giunture. Compie questa operazione
con l’irreprensibile perizia del chirurgo, ma senza dimenticare un profondo
senso di compartecipazione ‒ di simpatia, diremmo in maniera classicheggiante ‒
derivante dalla consapevolezza di condividere in toto l’essenza di quella
natura ‒ corporea e sociale ‒ che palpa tra le mani.
La parola diventa l’unico strumento attraverso il quale
indagare e conoscere cose, persone e sensazioni, ma anche il solo mezzo per
farsi sentire e avere la meglio contro una realtà che tende a zittire chi non è
uniformato o chi, nel prevalere delle apparenze, non può avere un ruolo a causa
delle umili origini o delle sventurate circostanze esistenziali in cui è
rimasto intrappolato. Tale è, ad esempio, la figura di Vincenzo, il maldestro
ladruncolo protagonista di De Pretore Vincenzo (1957), che, nel momento estremo,
ammette davanti al Padreterno la sua inconsistenza, dacché nella società «[…] le
parole só assaie, sono a milioni…quelle che servono per persuadere chi ti sta a
sentire. Tu, più parole sai, più sei sicuro di vincere».
È comunque indispensabile che i termini del discorso siano
chiari e adatti al contesto, giacché un loro fraintendimento potrebbe spogliare
la parola della sua natura creatrice facendola divenire strumento di caos e
distruzione. In virtù di questa logica, il matto Michele Murri, figura chiave del
già citato dramma Ditegli sempre di sì (1927), ammonisce il linguaggio
improvvisato e scombinato del suo interlocutore asserendo tra il serio e il
faceto: «[…] C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare? Parliamo co’
‘e parole juste ca si no m’imbroglio» (Atto II).
Tuttavia, la parola pronunciata implica la necessaria
presenza di un ascoltatore, ma quando questi viene a mancare o è l’intero
consorzio umano a far deliberatamente orecchie da mercante, l’unica strada
percorribile è quella di una volontaria e sofferta afasia. Il vecchio Zì Nicola
«Sparavierze» di Le voci di dentro (1948) comunica soltanto facendo
scoppiettare dei fuochi d’artificio il cui significato è decodificato, di volta
in volta, dai nipoti che spiegano il bizzarro atteggiamento del vegliardo in
questi termini: «[Egli] Dice che parlare è inutile. Che siccome l’umanità è
sorda, lui può essere pure muto» (Atto II).
Alla stessa maniera reagisce Alberto Stigliano che, per
denunciare la perdita della centralità della figura paterna nel moderno
contesto familiare, finge, nel dramma Mia famiglia, la perdita della voce,
indispensabile strumento per un uomo che guadagna denaro e dignità ricoprendo
la mansione di speaker radiofonico presso l’Eiar.
L’afasia eduardiana si sviluppa sino alle estreme conseguenze in Gli esami non finiscono mai (1973) in cui il protagonista, Guglielmo Speranza, risponde a gesti alle domande della moglie Gigliola e, in preda ad un misterioso male, preferisce farsi curare dal veterinario Sampiero piuttosto che da un medico, sostenendo ostinatamente che «[…] il veterinario visita gli ammalati e li cura senza interrogarli…» (Atto III).
De Filippo, da maestro indiscusso nell’uso della parola, diventa
artista dell’afasia utilizzando questa metamorfosi per raccontare e condannare
l’incomunicabilità tra gli esseri umani, particolarmente all’interno dei
contesti più intimi.
Ne consegue un accorato appello ad aprire i cuori e far
sgorgare liberamente impressioni e sentimenti per mantenere vive speranza e
solidarietà. È probabilmente questo il messaggio più incisivo del dramma Questi
fantasmi! (1946) in cui Pasquale Lojacono, dinanzi alla perdurante freddezza
della giovane moglie Maria, si abbandona ad un’amara considerazione: «E, forse,
ci portiamo un cuore gonfio di amarezza, di tristezze, di tenerezze, che, se
solamente per un attimo riuscissimo ad aprire l’uno con l’altro… Ma niente… Ha
da sta’ chiuso, rebazzato… A un certo punto se perde ‘a chiave e va t’ ‘a
pesca! Avimmo perza ‘a chiave, Marì!» (Atto III).
Ciononostante, sul finale del terzo atto, l’ingenuo o
sottilmente astuto protagonista ‒ a seconda della prospettiva con cui si
interpreta l’opera ‒ avvia una vera e propria catarsi della sua anima
rivolgendosi al finto spettro Alfredo in tal modo: «Con un altro uomo, cu’
n’ommo comm’a me, nun avarría parlato: ma cu’ te sí, cu’ te pozzo parlà, tu sí
n’ata cosa. Tu sei al disopra di tutti i sentimenti che ci condannano a non
aprire i nostri cuori l’uno con l’altro: orgoglio, invidia, superiorità,
finzione, egoismo, doppiezze… Con te non ne sento. Parlanno cu’ te me sento
vicino a Dio, me sento piccirillo piccirillo… me sento niente… e me fa piacere
di sentirmi niente, così posso liberarmi del peso del mio essere che mi
opprime!...».
De Filippo dipinge una realtà senza infingimenti e lo fa
generando una strana mistura né comica né tragica che potremmo figurativamente
rappresentare con la furtiva e peregrina lacrima che riga il cerone di un
attore di razza capace di creare la magica atmosfera che collega il
palcoscenico alla vita.
Lo scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec sostenne che «[…]
molte cose non vennero ad esistenza per l’impossibilità di dare ad esse un
nome»; Eduardo visse a pieno il potere della parola creando microcosmi
universali.
Spezzano Albanese
(Spixana), 26/IV/ 2021
In memoria del compianto maestro Pino Chimenti…
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