di
Mario Gaudio
Prendendo liberamente in prestito un felice gioco di parole
di Winston Churchill e adattandolo al nostro contesto, possiamo tentare di
cristallizzare la figura di Pitagora nell’immagine di «un enigma avvolto in un
mistero».
Anche agli occhi dei più attenti studiosi il filosofo di Samo appare sfuggente quanto l’antico dio Proteo e difficilmente inquadrabile in uno stereotipo o, peggio ancora, nei vuoti ed autoreferenziali schematismi della ricerca filosofica. Tutto ciò è dovuto essenzialmente a tre motivi facilmente individuabili: in primis la mancanza di scritti: Pitagora, al pari di Socrate, Confucio e Cristo, ha affidato i suoi insegnamenti all’oralità evitando di imprigionare parole tra gli angusti confini di una pagina; in secundis il carattere esoterico della filosofia pitagorica che, come sappiamo, veniva trasmessa sotto forma di sentenze a comunità ristrette di discepoli vincolati da un rigidissimo voto di segretezza; in terzo luogo la contraddittorietà delle testimonianze dei primi commentatori.
Nonostante questo scenario sfumato e visibilmente
indefinibile, Giovanni Sole si è imbarcato nella coraggiosa impresa di
raccontare i motivi di un curioso tabù imposto dal filosofo greco ai suoi
sodali: l’astensione dalle fave.
Occorre premettere che la vita di un seguace di Pitagora era
rigorosamente regolamentata da tutta una serie di prescrizioni ‒ divieto di
spezzare il pane o attizzare il fuoco con il metallo, di indossare panni di
lana o anelli, di raccogliere ciò che era caduto in terra ‒ ed era scandita
dallo studio della matematica e delle scienze naturali. In un quadro del
genere, il tabù delle fave appare profondamente fuori luogo o comunque dettato
da motivazioni non facilmente desumibili attraverso le categorie di pensiero della
moderna società.
Pertanto, per provare a dare una spiegazione, occorre indagare
sul ruolo della fava nell’alimentazione e nei culti dell’antichità.
Numerosi scrittori evidenziano la centralità delle fave in
alcune importanti festività della Roma pagana: durante i Parilia, il 21 aprile,
i pastori erano soliti bruciarle per produrre fumigazioni beneauguranti per la
prosperità del bestiame; in occasione delle celebrazioni in onore della dea
Flora (Floralia), fave e lupini venivano lanciati contro le donne in quanto
simbolo di fertilità; il 1° giugno (calendae fabariae) si onorava Carna,
antichissima divinità di origine etrusca, e si preparava la cosiddetta puls
fabata, una pietanza di farro e fave che, mangiata insieme al lardo, avrebbe
reso immuni dai dolori viscerali; nelle cerimonie dedicate al dio Marte i
fedeli si dipingevano il volto con succo di fave che, in questo caso, diventava
sostitutivo del sangue.
Tuttavia, il prezioso legume, lungi dall’essere soltanto impiegato
in contesti religiosi, era protagonista di alcune raffinate ricette di Apicio
ed elemento essenziale della dieta forzatamente povera delle classi popolari.
Se l’associazione tra la fava, l’organo riproduttore
maschile e la forza generativa appare fin troppo scontata, non può dirsi
altrettanto del rapporto col mondo dei defunti e le tradizioni funerarie.
Rievocando nuovamente le festività di Roma arcaica, si
incontrano due celebrazioni religiose in cui le fave avevano un ruolo di primo
piano: in occasione dell’ultimo giorno dei Parentalia (21 febbraio) ‒ in cui si
commemoravano pubblicamente i morti ‒ e durante i Lemuria (9, 11, 13 maggio),
circostanza nella quale il pater familias le utilizzava per placare ed
esorcizzare gli spiriti dei trapassati che, immancabilmente, tornavano a
visitare i luoghi nei quali erano vissuti.
Ad ulteriore conferma del legame con le realtà oltremondane,
diversi scavi archeologici hanno rilevato l’abitudine di gettar fave nelle
tombe e di consumarle durante i banchetti funebri.
Del resto, la fama sinistra di questo legume è testimoniata
da un’ancestrale credenza secondo cui il lungo stelo delle piante serviva da
canale di comunicazione per i defunti che, attraverso esso, risalivano dalle
profondità della terra alla luce del sole attendendo la reincarnazione proprio
nei campi seminati a fave che, tra l’altro, erano gli unici a non essere
frequentati dalle api (insetti ritenuti tradizionalmente sacri).
Ancora oggi sussiste un retaggio culinario che rimanda a
riti e tempi andati: in qualche regione italiana (Emilia Romagna, Marche,
Umbria, Veneto) si è soliti preparare e distribuire, nel giorno della
commemorazione dei defunti, dei tipici dolcetti alle mandorle chiamati non a
caso «fave dei morti».
Riassumendo: le fave erano associate, sin da tempi
remotissimi, all’abbondanza e alla vita ultraterrena, tuttavia esse potevano
essere collegate anche ad idee politiche democratiche ‒ dal momento che erano
impiegate nel sorteggio dei pubblici amministratori ‒ e ad una malattia tanto
insidiosa quanto letale conosciuta come favismo.
Il concetto di impurità ‒ derivante sia dalla reminiscenza del membro virile sia dal contatto col regno dei morti ‒, il monito contro una patologia misteriosa e fatale, una visione aristocratica della società e della vita civile e il fatto che l’astensione fosse un elemento di aggregazione tra gli appartenenti alle comunità filosofiche potrebbero essere alcune delle motivazioni che indussero Pitagora a formulare l’inusuale divieto.
Non esiste una risposta certa in proposito e, del resto,
Giovanni Sole, da accorto studioso, mette in guardia il lettore dai pericoli
delle soluzioni semplicistiche poiché «[…] Sarebbe ingenuo attribuire un solo
significato al tabù, e ancora più ingenuo pensare di trovare la sua origine».
Ciò che resta della avvincente lettura de Il tabù delle fave
è condensato in una considerazione preliminare che l’autore stesso ci offre
nelle pagine iniziali: «Un tabù è uno dei prodotti culturali più difficili da
comprendere. Esso, come il mito, per sua natura è bizzarro e illogico, tende
all’occultamento e alla mistificazione del reale, non risponde a delle domande
e non dà spiegazioni».
Ben presto, i floridi campi del Mediterraneo furono inondati di bionde spighe, segno di un mutamento tangibile delle abitudini alimentari e della prevalenza della luminosità solare sul violaceo e mortifero colore della fioritura delle fabacee ma, a ben vedere, i miti e i riti della campagna sopravvivono ai secoli e l’apollineo grano continua a crescere accanto alla dionisiaca fava.
Spezzano Albanese (Spixana), 31/III/ 2021
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