di
Mario Gaudio
Dottissimo, visionario, incrollabilmente fiducioso nell’azione di una Provvidenza ‒ solo in parte cristiana ‒ figlia spuria di un sincretismo che miscela credenze, avvicina epoche, abbraccia Oriente e Occidente, amalgama saggezze e vite di uomini profondamente diversi tra loro nello spazio e nel tempo, Ernst Bernhard (1896-1965) trasmuta la costrizione della condizione di internato in un itinerario di analisi dei meandri più riposti della propria psiche.
La straordinaria avventura di questo intellettuale sui generis è oggi raccontata attraverso puntuali testimonianze raccolte in un pregevole volumetto curato dall’instancabile Teresina Ciliberti, direttrice del Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia, e stampato per i tipi di Edizioni Expressiva.
Ricostruire la vicenda storica di Bernhard significa partire dal suo essere ebreo in un’epoca che degli ebrei aveva deciso di fare a meno. La professione medica, la vasta cultura e la fama di brillante psicoterapeuta ‒ si segnala in proposito la collaborazione a Zurigo con Carl Gustav Jung ‒ non lo immunizzano dalla persecuzione. Dopo aver lasciato la Germania nazista e vanamente sperato in un asilo inglese, egli giunge a Roma dove, benché cittadino rispettabile, è arrestato secondo le prescrizioni delle vergognose leggi razziali. Tradotto a Regina Coeli, ne viene deciso un celere trasferimento presso il campo di Ferramonti di Tarsia e qui, tra le generosità della campagna calabrese, inizia il processo di progressivo disvelamento della complessa personalità di Bernhard.
Approdato tra le baracche della prigionia ‒ che, ricordiamo per correttezza storica, fu praticata in Ferramonti senza mai perdere una certa dose di umanità ‒, sceglie di vivere in maniera «consapevole» la «situazione eccezionale» in cui è precipitato, cercando di metabolizzare quell’esperienza per mezzo di una scrittura terapeutica indirizzata contemporaneamente tanto a se stesso (diario) quanto al mondo esterno (epistolario).
La razionalità della penna convive costantemente con le molteplici incursioni che Bernhard compie nell’universo dell’illogico a cui accede tramite la consultazione del libro de I Ching, testo dell’antica sapienza oracolare cinese che lo accompagna nel periodo della restrizione e che sarà utilizzato come strumento di elaborazione delle sue metodologie di indagine psicoterapeutica anche negli anni successivi.
Ne emerge la figura di un uomo proteiforme nel sapere, ma votato alla riflessione e tenacemente religioso nel senso antico del termine. Egli ha fiducia nell’avvenire e tale atteggiamento è ricompensato da una inaspettata combinazione che, nell’aprile 1941, si trasforma in occasione di libertà.
Il Caso ‒ o una delle tante divinità a cui il pensiero eterogeneo di Bernhard fa riferimento, essendo attento studioso di ebraismo, protestantesimo, tradizioni orientali, meditazione e astrologia ‒ assume le sembianze di Giuseppe Tucci, archeologo e amico del Nostro, che, affratellato dall’amore per la conoscenza, intercede direttamente con la sua influenza presso il Duce, consentendo un’inaspettata liberazione proprio pochi giorni prima di una programmata ‒ e probabilmente fatale ‒ deportazione in Polonia.
Vasta è la riflessione filosofico-psicologica sviluppata negli anni ma, in proporzione, esigua risulta essere la produzione scritta dell’intellettuale tedesco che, a ben vedere, eccettuato un interessantissimo saggio intitolato Il complesso della Grande Madre, si riassume nell’unico volume della Mitobiografia, la cui pubblicazione è dovuta alla fedele allieva Hélène Erba-Tissot.
Di notevole importanza è sicuramente il carteggio Bernhard-Jung, dalla cui lettura si evince un complicato rapporto tra due individui accomunati dallo studio della mente, ma anche e soprattutto dall’alternarsi di amabili cortesie e inspiegabili freddezze.
Ferramonti è per Bernhard una dura palestra esistenziale. Nel campo, tra le vicissitudini di genti diverse, letture e conferenze di pedagogia, egli avverte il peso della Storia e si incarica di sostenerlo ‒ novello Atlante ‒ sfruttando il tempo per penetrare i segreti dell’animo e ricercare gli invisibili legami simpatetici tra le cose.
La segnante esperienza si traduce, nel dopoguerra, in una tecnica di analisi non più asettica (come da prassi freudiana), ma divenuta un affabile «colloquio psicologico» incentrato sulla relazione umana tra analista e paziente. Ne sperimenta l’efficacia persino il regista Federico Fellini (1920-1993) che, in un momento di aridità creativa, ricorre al coinvolgente dialogo risanatore con Bernhard.
Nel settembre 1943, le avanguardie militari britanniche liberano Ferramonti, restituendo totale dignità a quanti vi hanno forzatamente soggiornato.
Significativi sono stati gli atti di solidarietà, parecchie le mani tese e altrettanto numerosi gli ordini trasgrediti o i regolamenti blandamente applicati da chi quel campo lo aveva in custodia.
A noi, cultori della memoria, piace celebrare l’ottantesimo anniversario di questa liberazione onorando la straordinaria vita dell’eccentrico Ernst Bernhard.
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