di
Mario Gaudio
Nel gennaio 2020, quando ancora le consolidate abitudini
sociali si consumavano ignare dell’imminente minaccia pandemica che di lì a
qualche mese avrebbe sconvolto le nostre esistenze, durante uno dei miei brevi
soggiorni romani, decisi di ritornare ad ammirare i capolavori dei Musei
Vaticani.
Tra le sale gremite di opere d’arte e l’immancabile cicaleccio di sottofondo che accompagnava più o meno organizzate frotte di visitatori, mi accorsi della presenza di un cartoncino ingiallito su cui una mano raffinata e nervosa aveva impresso a sanguigna le sconvolte espressioni di alcuni cadaveri ai quali «sorella Morte» non era riuscita a restituir la pace.
Rimasi temporaneamente interdetto dinanzi a quello
spettacolo drammatico e possente, cercando di coglierne qualche altro
particolare e ignorando totalmente l’identità dell’autore dell’insolito
disegno, sebbene il mio astigmatismo ne avesse identificato una poco leggibile
firma.
Indugiai quasi preda di una strana voluttà, prima di fissare
lo sguardo su una didascalia che, stampata su un orribile sfondo nero, svelava
l’arcano, riportando il nome dell’artista ‒ Anton Zoran Mušič ‒ e la seguente
citazione: «Disegnavo tutto il tempo, non appena potevo. Avevo trovato dei
pezzi di carta nell’ufficio degli architetti e mi sono chiuso dentro
l’infermeria, la baracca dove si stipavano i malati, durante un’epidemia di
tifo. Le SS avevano paura di entrare e quindi ho potuto disegnare liberamente
per la prima volta».
Non conoscendo affatto le vicende dello sventurato
disegnatore, ma carpendone da quelle poche righe l’immane sofferenza, mi
limitai a scattare una malferma foto con l’inseparabile smartphone, in barba ai
cartelli di divieto ‒ fossero sol queste le uniche illegalità italiane! ‒,
proponendomi di far le debite ricerche una volta ritornato tra le accoglienti
mura del bed and breakfast che mi ospitava.
Quella sera stessa, scoprii che Mušič era stato artista
sloveno e che l’opera su cui il mio interesse si era soffermato aveva titolo Dachau.
Tuttavia, soddisfatta l’iniziale curiositas, un pungolo
insistente continuava a picchiettare i miei pensieri, benché non riuscissi a
focalizzare con precisione la causa di quella sgradevole sensazione.
Soltanto riguardando la scadente fotografia furtivamente
scattata al mattino, mi accorsi che l’autore del disegno aveva assaporato la
libertà grazie all’arte, pur essendo all’interno di un campo di concentramento
e in balìa delle sadiche Schutzstaffel.
Ebbi una momentanea epifania, riuscendo, per il breve lasso
di un istante, ad intravedere la luce di speranza che consentì a Mušič di
restare in vita tra le tenebre di una delle pagine più vergognose della Storia.
Ne scaturì una sensazione di profonda riconoscenza nei confronti dei valori
universali trasmessi dalle arti e dalle lettere alle generazioni umane di ogni
tempo e latitudine.
La medesima impressione mi si è riproposta al termine della lettura del volumetto dedicato alla figura di Michel Fingesten curato da Teresina Ciliberti, direttrice del Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia, per le Edizioni Expressiva.
Con ampia documentazione e gradevolissimo apparato
iconografico, ci viene offerto un florilegio di testi ‒ differenti nella sostanza
e nella sensibilità, ma coerenti nella struttura generale dell’opera ‒ che
ricostruiscono la vicenda biografica e artistica di un uomo poliedrico che, pur
nelle ristrettezze dei tempi e negli inevitabili disagi del regime
concentrazionario al quale era sottoposto, riuscì a costruire un proprio
universo artistico, lasciando una significativa testimonianza di cultura e spiritualità.
Nato nella Slesia austroungarica, dopo un lungo e
avventuroso peregrinare per il mondo, Fingesten maturò in Germania visioni e capacità
tecniche che lo condussero ben presto a far parte del gotha artistico degli
anni Trenta del Novecento.
Costretto ad emigrare a causa delle sue origini ebraiche, si
trasferì a Milano (1935) iniziando un percorso creativo particolarmente
prolifico che approderà alla produzione di ex libris ‒ ricercatissimi dai
collezionisti ‒ a cui Fingesten riuscì a conferire dignità e autonomia artistica.
La molteplicità dei temi e la duttilità delle forme sfociarono
nel fantasioso mondo del grottesco e ciò innescò l’azione della mannaia
censoria fascista che ricadde pesantemente sul capo di Fingesten sotto forma di
bizzarra accusa di «arte degenerata». Ne conseguì l’arresto e l’internamento a
Civitella del Tronto (9 ottobre 1940) e a Ferramonti di Tarsia (13 novembre
1941).
Proprio durante la prigionia calabrese ‒ lontana e diversa
dalle mostruosità della Dachau di Mušič ‒, l’artista visse uno dei periodi più
fecondi, compensando la mancanza di libertà con la fedele devozione verso il
disegno e i colori e rinvigorendo lo spirito con affollate lezioni di pittura e
un senile quanto commovente invaghimento nei confronti di una giovane internata
ungherese.
La morte lo colse l’8 ottobre 1943 in seguito ad una infezione postoperatoria. Il suo corpo fu affidato alla terra nel cimitero di Cerisano, in quella Calabria più volte magnificata dall’artista e scelta come dimora per i venturi tempi di pace.
Come Mušič, anche Fingesten trovò nella produzione artistica
la via maestra per costruire la libertà dietro le sbarre, in un contesto in cui
persino i piccoli oggetti quotidiani divennero faticosa conquista per tentare
di immaginare un domani migliore e soddisfare, al contempo, un imperioso
desiderio di memoria e comunicazione. Il pittore sloveno provò in cuor suo
segreto diletto nell’aver trovato frammenti di vietatissima carta nell’inferno
di Dachau. Ci piace immaginare che la stessa ebbrezza animò Fingesten quando
affidò ad un milite le poche lire in suo possesso, affinché acquistasse per lui
qualche tubetto di colore.
La scarsità dei mezzi ‒ o forse la semplice sciatteria del
soldato ‒ si tradusse in un pigmento verdognolo con cui l’artista dipinse due
vigorosi cavalli impegnati nel gioco, simbolo di un’energia scalpitante
liberata dalle speranze di un vecchio carico di esperienze e ancor fiducioso
nel futuro.
Può darsi che l’arte abbia in sé qualche seme divino o,
molto più banalmente, è probabile che uomini posti in simili condizioni
reagiscano con medesime emozioni. Ciò non è dato sapere, ma storie come quelle
di Fingesten e Mušič son degne di esser rivissute, affinché la memoria indirizzi
il nostro agire verso strade meno errate.
Spixana (Spezzano Albanese), 28/03/2023
(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)
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