di
Ettore Marino
Con la turbinosa ironia che lo contraddistingue, il grande Opàli irruppe nel bar del non meno grande Pippo, mi squadrò, mi sbatté in petto un libro, e tuonò senza appello: “Ricavaci un articolo!” Il libro era La strage dei pettinai, di Paolo De Luca, Rubbettino Editore, 1986; l’articolo è quello che segue.
Innanzitutto i fatti, per come appresi dal De Luca. San Giorgio in Calabria Citra (l’identificativo “Albanese” entrerà in uso assai più tardi), venerdì 26 Maggio 1848. Due pettinai e un merciaiolo di Scigliano, Giuseppe Sacco, Fedele Mancino, Francesco Maria Mancuso, conosciuti in San Giorgio per esserci stati altre volte, vi giungono da Vaccarizzo (Albanese) a tentare di vendervi i loro piccoli utensìli e quell’arsenico che gli allevatori dei bachi da seta sogliono adoperare a sterminio dei topi. A San Giorgio corrono però voci di spargimento di veleno. Assetati dal cammino e per le grevi bisacce, i venditori si imbattono in una tale che si rivelerà chiamarsi Lucrezia Ascente, e le chiedono dove si trovino le fontane. La donna risponde in modo evasivo. Girando di casa in casa, i tre propongono “quel solito zucchero che serviva a distruggere i topi” (le citazioni, dai verbali riportati dal De Luca) pure a Giorgio Dramis: ciabattino poco amante del lavoro, beone, in fama di “rivoluzionario contro il legittimo sovrano”, più o meno strettamente legato alla banda del capobrigante Urtale. Il Dramis risponde di non averne bisogno. “Con mezz’ora di notte”, gli sciglianesi cercano ristoro nell’osteria di Angelo Chinigò. Si fanno portare del vino. Francesco Maria Mancuso ne offre un bicchiere a due avventori compaesani dell’oste, i quali rispondono “che lo avrebbero bevuto qualora egli lo avesse bevuto per primo. Ma questi, appena avuta da loro una tale risposta, aveva buttato a terra tale vino che si conteneva in detto bicchiere.” Giorgio Dramis, intanto, aveva convinto la piazza che i tre forestieri fossero venuti a spiantare San Giorgio avvelenando l’acqua, e Lucrezia Ascente, risovvenutasi della domanda che le avevano posto circa le fontane, aggiunse il proprio trillo al coro che già li predicava in possesso di arsenico per il più atroce degli scopi. La folla irrompe nell’osteria. Si chiede ai forestieri se mai portino arsenico. Negano. Perquisizione è presto fatta: se ne trova: sia in pietra sia già ridotto in polvere. La folla invoca morte. I tre, terrorizzati, tacciono. Sono condotti fuori, insultati, percossi. Li si finisce a colpi di martello e di scure. Dei cadaveri, arsi, “a un’ora di notte” non resta che la cenere.
Quando si esprime
con (pigra) buonafede, il discorso comune tende a dire impossibile perfino ciò
che è blandamente improbabile, e a convertire il possibile nel certo. Se un
interesse o una passione infila poi la coda nella sua rilassata pigrizia,
possono derivarne spiacevolezze, o addirittura orrori. La contingenza storica
dice la sua con prepotenza. Entriamo in essa. Il cholera morbus, detto anche morbus
Asiaticus, fu un’aspra novità per l’Europa del terzo e del quarto decennio del
XIX secolo. Temendone l’espandersi, il governo delle Due Sicilie prese sagge
misure per prevenirlo e per combatterlo, come assai chiaro mostra Gigi Di Fiore
in Pandemia 1836. La guerra dei Borbone contro il colera, UTET 2020.
Aggiungiamo en passant che della dinastia in parola, re Carlo a parte, l’antica
vulgata è riuscita a produrre una spropositata sintesi tra la figura del
tiranno e quella del re da Operetta, laddove una vulgata odierna va
schiccherando i Borbone napoletani siculi e bisìculi quale aureo composto di
buongoverno e di saggezza. La verità non sta nel mezzo. Sta, di volta in volta,
nella cosa e nel modo con cui la si guarda. Se cosa e sguardo coincidono per ogni
mente giudicante, è giardino di pace. Come che sia, il colera funestò le terre
del Reame tra il 1836 e l’anno successivo, risvegliando la fola che fosse
manufatto e sparso tra le genti per volontà di alcuni. Si prese a credere che
il mezzo più adoperato a spargerlo fosse la polvere di arsenico. Una legge ne
vietò il commercio, che pertanto avveniva con rischio per chi vendeva e per chi
acquistava. Inquinamenti di fontane ve ne fu: ora con coloranti, ora davvero
con veleni: da parte di pazzi, di buontemponi sadici, di terroristi. Assai più
spesso, mere voci. Codini e novatori, comunque, se ne rimbalzavano ogni volta
l’accusa. La strategia della tensione non è cosa nuova, e i complotti offrono
fili generosi alla trama delle umane vicende. Ma ciò che non produce prove
séguita a vagare nel dominio della chiacchiera. Si tentò una lettura
schiettamente politica anche dei fatti di San Giorgio. Per certo, in quel lembo
di Calabria albanese il Quarantotto s’era manifestato con occupazione di
latifondi. A San Demetrio, capitale culturale e centro propulsore d’Arbëria
(anacronismo lessicale), sei giorni prima della strage di San Giorgio, era
scoppiata una rivolta. Il busto di Ferdinando II (per non pochi liberali, primo
avvelenatore dei suoi stessi sudditi) era stato divelto e trascinato per le
vie. Tra speranzosa ansia e mute paure, il fermento sociale lievitava nei
petti. Che pei borghi vagassero avvelenatori, era cosa possibile, e perciò
stesso tenuta per certa. Il prius era quello. Qualcosa volle che coagulasse nel
gorgo infocato che incenerì i tre miti poveruomini. Ho scritto a bella posta
“qualcosa volle che”. Avrebbe l’orrore avuto atto se Lucrezia Ascente fosse
stata un po’ meno ciarliera, Giorgio Dramis assai meno stronzo, e se il Mancuso
avesse bevuto il vino che gettò in terra? Le più mature Scienze della Natura
trattano il nesso di causa con la più elastica cautela; cautela ancor maggiore
esige in merito il mondo umano. Si dibatterà sempre circa il libero arbitrio
del singolo; quando il singolo si fa (anche) folla, il problema diventa
vertigine.
A San Giorgio,
tentate insabbiature e impaurita omertà rabbuiarono tutto. Poi qualcuno non
resse. Prese a parlare, e parlarono in tanti. In tanti avevano provato a
placare la folla; in tanti comparvero a produrre nomi e cognomi, patronimici e
nomignoli. La comunità si sgravò della colpa, e giustizia fu in qualche modo
fatta.
Tra il rumore dei
giorni, un’eco dei tre sventurati vaga ancora per le vie dell’incantato borgo.
Consci di andare al massacro, gli ammutoliti forestieri maledissero in cuore
quel popolo, augurando che mai alcun sangiorgese, per quello e per ogni tempo a
venire, potesse arrivare alla vecchiaia! Sicché di ogni vegliardo, specie se
varca la soglia del secolo, sorridendo si dice che la maledizione dei pettinai
abbia voluto graziosamente risparmiarlo.
Vaccarizzo Albanese (Vakaric), 19/XI/2022
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