Sulla scorta di questo proverbiale buon senso, uno dei moniti che gli ultimi due secoli hanno offerto all’umanità riguarda il fallimento di tutti i piani finalizzati ad una conquista militare dell’immenso territorio russo.
Il primo a farne le spese fu l’abilissimo Napoleone
Bonaparte che, durante la campagna del 1812, vide la sua Grande Armata andare
incontro alla disfatta grazie alla strategia attendista del generale Kutuzov
che, forte della conoscenza del territorio, sfruttò l’estrema rigidità del
clima per sfiancare le truppe francesi.
Il secondo a capitolare sul suolo russo ‒ ormai divenuto
sovietico ‒ fu Adolf Hitler, la cui smisurata e folle ambizione trascinò nel
baratro anche l’esercito italiano.
Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1941, l’ambasciatore
tedesco a Roma, Otto Christian von Bismarck, riferì a Galeazzo Ciano la notizia
di un imminente attacco all’Urss e Mussolini, in vacanza a Riccione, fu
immediatamente raggiunto da un messaggio del führer nel quale si rimarcava la
necessità di aprire quel nuovo e fatale fronte di guerra.[1]
La Germania nazista si avventurò nell’iniziativa bellica con
170 divisioni (per un totale di circa 3 milioni di uomini) a cui si
contrapposero le 150 divisioni sovietiche che mettevano in campo 4 milioni e
700 mila soldati.[2]
I successi accumulati dalle armate germaniche alimentarono in maniera sconsiderata l’impressione di una blitzkrieg (una guerra lampo) e Mussolini, avvezzo a vivere «un’esistenza politica irreale e febbricitante»,[3] fu pervaso dall’idea di «far presto per sedersi, sia pure con carte truccate, al tavolo della grande partita».[4]
Nonostante gli inviti alla prudenza giunti da parte di
autorevoli generali, il Duce, galvanizzato dagli eventi, ordinò la costituzione
del Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) e, a partire dal 10 luglio,
furono trasferiti sul fronte orientale le divisioni di fanteria Pasubio e Torino
e la Celere Amedeo d’Aosta, per un totale di circa 62 mila uomini, cui si
affiancarono anche alcuni reparti del Genio e un battaglione chimico.[5]
Alle forze dell’Asse si unirono ben presto 23 divisioni di
finlandesi, slovacchi e rumeni e alcune brigate di cavalleria e da montagna,[6] ma le truppe italiane,
che di lì a qualche mese avrebbero dimostrato tutta la loro fragilità,
risultarono essere estremamente inadeguate a quel tipo di scenario bellico. È
emblematico, a tal proposito, un episodio ‒ raccontatoci dallo storico Antonio
Spinosa ‒ che fa emergere l’improvvisazione con cui furono allestiti i nostri
contingenti nazionali: «A Uman, in Ucraina, Mussolini e Hitler visitarono i
reparti italiani i cui autocarri ancora mostravano sotto una mano frettolosa di
vernice i nomi delle ditte alle quali erano stati requisiti, “Birra Peroni”,
“Fratelli Gondrand” […]».[7]
Tuttavia, la stagione estiva, l’imponente schieramento di
forze e la strategia dell’Armata Rossa ‒ che si ritirò gradualmente verso l’entroterra,
opponendo una blanda resistenza e confidando nell’aiuto della rigidità
dell’imminente inverno ‒ continuarono a nutrire le illusioni italo-tedesche di
una facile vittoria.
In realtà, qualche dubbio, dimostratosi in seguito più che fondato, serpeggiò tra i soldati dell’Asse di stanza nelle province baltiche quando le truppe corazzate del generale Reinhardt si scontrarono con alcune formazioni di giganteschi carri russi che furono bloccati soltanto sparando ad alzo zero con le pesanti artiglierie da campagna.[8]
Il fronte continuò a spostarsi con notevole velocità verso
l’interno, ma l’Italia, in estrema difficoltà nella regione balcanica,
costrinse la Germania ad intervenire, facendo perdere preziose settimane ai
tedeschi che, nel momento in cui ‒ nell’ottobre del 1941 ‒ ripresero le
operazioni di attacco verso Mosca, si ritrovarono inchiodati dalla resistenza
sovietica a quaranta chilometri dalla città e in balìa del gelo. Tale episodio
rappresentò una indiscutibile svolta: la guerra lampo si trasformò in una
tragica azione di logoramento.
Nel luglio del 1942, considerata la necessità di rafforzare
l’impegno sulla linea orientale, Mussolini fece confluire le truppe Csir nell’Armata
italiana in Russia (Armir), affiancando al contingente originario nuovi
reparti: le divisioni Sforzesca, Cosseria e Ravenna, le divisioni alpine Tridentina,
Julia e Cuneense, la divisione di fanteria Vicenza, il battaglione CC. NN. Tagliamento
e i raggruppamenti CC. NN. 3 gennaio e 23 marzo.[9]
In quegli stessi giorni, ebbe inizio la battaglia di Stalingrado che ribaltò drasticamente le sorti della guerra costringendo al ritiro le superstiti forze dell’Asse. Nei primi tre mesi, la difesa della città costò ai russi circa 600 mila morti, ma le divisioni tedesche furono praticamente annientate.
Il 16 dicembre del ’42, l’Armata Rossa travolse anche le
fanterie italiane schierate sul Don e il gruppo rumeno “Hollidt”, mentre nel
gennaio successivo furono attaccate le divisioni alpine che, rimaste prive di
indicazioni dai comandi, senza collegamenti radio, carenti di viveri e mezzi e
sfinite dai continui attacchi della cavalleria cosacca, ripiegarono
rovinosamente nella steppa.[10]
Cominciò da questo momento il lungo calvario delle truppe italiane che si ritirano disordinatamente nell’atmosfera surreale della disfatta e subirono i dolorosi morsi del clima russo a causa dell’inadeguatezza dell’equipaggiamento fornito loro dagli alti comandi.
Le scadenti divise autarchiche in Lanital[11] non consentivano di
fronteggiare le temperature della steppa che scendevano sino ai 40° sotto zero;
gli scarponi in Cuoital[12] si dissolvevano
letteralmente al contatto con la neve, mentre le suole chiodate scivolavano
facilmente sul ghiaccio; i fucili si inceppavano a causa del rigore climatico;
gli automezzi erano resi inutilizzabili dalla mancanza di liquido antigelo e le
razioni di viveri tardavano ad arrivare obbligando i soldati a nutrirsi di
carcasse di animali in decomposizione, del grasso solidificato degli autocarri
e delle tossiche scatolette di minestra “Chiarizia”[13]
che provocarono loro gravissimi problemi intestinali.
Durante le estenuanti marce si rischiava di continuo il
congelamento e, molto spesso, il possesso di un paio di valenki[14] sottratti ai russi o
di una ciacula[15] poteva determinare la
vita o la morte.
Gli unici reparti ben equipaggiati erano gli alpini sciatori
del battaglione Monte Cervino che avevano in dotazione giacche a vento e
scarponi con suole di gomma Vibram.[16]
Alle difficoltà della ritirata si aggiunsero i pessimi rapporti tra gli italiani e i loro alleati. Secondo diverse testimonianze «[…] i camion che avrebbero dovuto trasportare i feriti spesso erano occupati da tedeschi sani, che con il calcio del fucile impedivano agli italiani di salire».[17]
Gli unici momenti di ristoro in questa tremenda avventura
furono i contatti con le popolazioni locali che, sebbene attanagliate dalla carestia,
non lesinarono nel distribuire un tozzo di pane ai soldati in rotta che si
presentavano alla porta delle loro isbe, probabilmente in segno di solidarietà
dovuta alla comune miseria e in ricordo del diverso atteggiamento assunto, nei
mesi precedenti, da italiani e tedeschi nei confronti dei civili. A riguardo,
lo storico Giorgio Bocca rilevò che le SS, in preda «all’utopia fondata sul
sangue», sterminarono ebrei, ufficiali, commissari politici, intellettuali
«credendo di colpire “la base biologica” [dei] nemici», mentre la divisione Torino
si prodigò ad aprire «ambulatori gratuiti […], una casa di ricovero per vecchi,
una clinica per gestanti».[18]
Il lungo cammino verso la salvezza fu altresì funestato dai
continui assalti delle bande sovietiche verso cui i militari sbandati risposero
coraggiosamente, nonostante la disparità delle armi in dotazione: mentre l’Asse
si serviva di fucili a ripetizione manuale (6 colpi per il mod. 91 italiano e 5
per i Mauser K98 tedeschi), i soldati russi possedevano il famigerato PPSH41,
un moschetto automatico, calibro 7,62 mm, con un caricatore da ben 71 colpi. Inoltre,
i membri dell’Armata Rossa potevano contare sui rumorosi lanciarazzi multipli
“Katjuscia” che, montati su autocarri, erano in grado di colpire da lontano le
colonne in marcia sparando contemporaneamente 16 razzi.
L’ultima reazione del nazismo fu violentissima e si consumò il 5 luglio del 1943. L’Operation Zitadelle aveva l’obiettivo di vendicare l’onta della sconfitta di Stalingrado: i tedeschi ammassarono nella pianura di Kursk il meglio della loro tecnologia. Furono messi in campo «i nuovissimi carri Panther e Ferdinand, appena collaudati nelle officine di San Valentin in Austria»,[19] ma le truppe comandate dai feldmarescialli Günther von Kluge e Erich von Manstein furono polverizzate dai già citati carri T-34 sovietici posizionati strategicamente dal generale Georgij Konstaninovich Zhukov.
Questo episodio fu realmente l’ultimo atto seguito, di lì a
qualche giorno (10 luglio ’43), dal contemporaneo sgretolamento del lontano
fronte occidentale determinato dallo sbarco in Sicilia degli anglo-americani.
Numerosissimi furono i prigionieri italo-tedeschi che finirono
nei campi di concentramento russi di Tambov, Miciurinsk, Nekrilovo e Krinovaja
e l’odissea del ritorno dei reduci durò per molti anni dopo la fine della
guerra: gli ultimi undici rientrarono in Italia solo tra il gennaio e il
febbraio del 1954.
L’operazione “Barbarossa” ‒ così i nazisti avevano denominato l’occupazione dell’Urss ‒ si concluse con una immane carneficina e l’esercito italiano, carente sotto molti aspetti, pagò un enorme tributo di sangue. Non mancarono, tuttavia, episodi di vero eroismo d’altri tempi come l’attacco sferrato a colpi di sciabola e bombe a mano dal reggimento Savoia Cavalleria ‒ comandato dal colonnello Alessandro Bettoni ‒ contro due battaglioni dell’812° reggimento di fanteria sovietico (24 agosto 1942, pianura di Isbushenskij). Fu una delle ultime cariche di cavalleria della storia militare e una delle pagine più gloriose dell’esercito nazionale.[20]
La campagna di Russia è stata al centro della narrazione di
importanti scrittori italiani quali Giulio Bedeschi (1915-1990)[21], Nuto Revelli
(1919-2004)[22] e Mario Rigoni Stern
(1921-2008)[23] che vissero
personalmente la disastrosa esperienza della ritirata e ne fecero il tema
principale della loro produzione letteraria.
La cinematografia del dopoguerra fu particolarmente
sensibile alla vicenda in questione raccontandola in una miriade di film di cui
è d’obbligo ricordare almeno Carica eroica (regia di Francesco De Robertis,
1952), Italiani, brava gente (regia di Giuseppe De Santis, 1964) e I girasoli (regia
di Vittorio De Sica, 1970).
Anche Spezzano Albanese pagò amaramente il suo tributo di
giovani vite travolte dalla furia bellica. Di seguito pubblichiamo le
informazioni relative ai nostri soldati deceduti sui campi sovietici con
l’intento di volerne fare memoria e con spirito di commossa gratitudine nei
confronti del loro sacrificio.[24]
* Angelo De Rosis (anni 24), nato a Spezzano A. il
06/09/1918 e deceduto il 30/09/1942 in località non nota [Bersagliere del 3°
Reggimento Bersaglieri inquadrato nella 3a Divisione Celere Principe Amedeo
duca d’Aosta].
* Emilio Diodati (di Decio Diodati e Adelina Nicoletti, anni
26), nato a Spezzano A. il 14/02/1915 e deceduto il 18/11/1941 a Jenakijevo
(Rikovo), C.M. Italiano [Sergente maggiore dell’81° Reggimento Fanteria Torino
inquadrato nella 52a Divisione Autotrasportabile Torino]. Fu insignito di una medaglia
di bronzo al valore militare.
* Alfredo Dorsa (di Angelo Dorsa e Angiolina Peluso, anni 27),
nato a Spezzano A. il 13/01/1916 e deceduto il 14/04/1943 presso l’Osp. 2989 –
Kameskovo [Bersagliere del 3° Reggimento Bersaglieri inquadrato nella 3a
Divisione Celere Principe Amedeo duca D’Aosta].
* Ferdinando Greco (di Antonio Greco e Rosina Laurito, anni 21),
nato a Spezzano A. il
06/07/1921 e deceduto il 09/01/1943 presso il Campo 188 Tambov [Artigliere del 121°
Reggimento Artiglieria da campagna assegnato alla 3a Divisione Fanteria Ravenna].
* Ernesto Grisolia (di Francesco Grisolia e Annunziata
Maltese, anni 25), nato a Spezzano A. il 26/06/1917 e deceduto il 04/05/1943
presso il Campo 188 Tambov [Sergente del 9° Raggruppamento Artiglieria d’Armata
direttamente dipendente dall’8a Armata Italiana in Russia].
* Giuseppe Pisano (di Francesco Pisano e Carmela Taranto,
anni 25), nato a Spezzano A. il 10/02/1917 e deceduto il 26/01/1943 presso il
Campo 188 Tambov [Fante dell’82° Reggimento fanteria Torino inquadrato nella 52a
Divisione Autotrasportabile Torino].
* Michele Sciamarella (anni 30), nato a Spezzano A. il
03/06/1912 e deceduto il 20/12/1942 in località non nota [Mitragliere del 104°
Battaglione Mitraglieri alle dipendenze del 35° Corpo d’Armata].
Spixana (Spezzano
Albanese), 09/XI/2020
[1] Cfr. Giorgio
Bocca, Storia
d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, Mondadori, Milano,
2008 (1996), p. 323.
[2] Per le cifre relative alle forze
in campo cfr. Viola Calabrese, Anatomia di una
disfatta, in “Focus storia”, n. 26, dicembre
2008, pp. 44-51.
[3] Sergio Romano, Storia d’Italia
dal Risorgimento ai nostri giorni, Il Giornale, Milano, 1998, p. 286.
[4] Ibidem.
[5] In Giorgio Bocca, Storia
d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, op. cit., p. 326 troviamo
la precisa contabilità dello schieramento e dei mezzi italiani: 2900 ufficiali,
58 mila soldati, 4000 quadrupedi, 5500 automezzi, 51 aerei da caccia, 22 da
ricognizione e 10 da trasporto.
[6] Cfr. Indro
Montanelli, L’Italia della disfatta, in Id., Storia d’Italia, Rcs –
Corriere della Sera, Milano, 2003, vol. VIII, p. 428.
[7] Antonio Spinosa, Mussolini. Il fascino di un dittatore, Mondadori, Milano, 2005 (1989), p. 410.
[8] L’episodio è raccontato in Giorgio
Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, op. cit.,
p. 325. I carri
sovietici in questione erano i mastodontici T-34 che saranno indiscussi
protagonisti della cruenta battaglia di Kursk (1943).
[9] Cfr. Indro Montanelli, L’Italia
della disfatta, op. cit., p. 476. In Giorgio Bocca, Storia
d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, op. cit., p. 443 troviamo
tutti i numeri relativi all’Armir: 7000 ufficiali, 220 mila uomini di truppa,
25 mila quadrupedi, 16700 automezzi, 130 trattori, 1400 mitragliatrici, 860
mortai, 380 pezzi anticarro e 960 cannoni di vario calibro.
[10] Cfr. Viola Calabrese, Anatomia
di una disfatta, op. cit., p. 49.
[11] Il Lanital era una fibra
autarchica ricavata dalla caseina, la proteina del latte. Fu prodotto dalla
SNIA Viscosa. Per altre informazioni cfr. L’autarchia e i surrogati in https://www.bibliotecasalaborsa.it/
[Consultazione del 7/11/2020].
[12] Il Cuoital era il surrogato
autarchico del cuoio che veniva prodotto con una miscela di cartone pressato,
cascami di cuoio sfibrato e gomma vulcanizzata. Materiali simili erano il Sapsa
(cascami di cuoio e lattice di gomma) prodotto dalla Pirelli e il Coriacel
(cascami di cuoio, fibre vegetali e collanti). Per approfondimenti cfr. Cuoital in https://moda.mam-e.it/ [Consultazione del 7/11/2020].
[13] Questo tipo di minestrone di
verdure amaro e disgustoso fu inscatolato per la prima volta dal colonnello
Ettore Chiarizia nel 1929. Cfr. in proposito Anita Rubini, Ritorno sul Don,
in “Focus storia”, n. 26, dicembre 2008, pp. 54-64.
[14] I valenki erano stivali di
feltro che i russi riempivano di paglia per trattenere più a lungo il calore.
[15] La ciacula era un colbacco
di pelo d’animale. Nel novembre del 1941, il generale Giovanni Messe ne
acquistò una certa quantità in Romania, ma fu l’unico e ultimo rifornimento
invernale per una parte delle truppe. Sull’episodio cfr. Stefano Rossi, Partirono
così, in “Focus storia”, n. 26, dicembre 2008, pp.
52-53.
[16] La gomma Vibram fu un altro
prodotto autarchico inventato dall’alpinista Vitale Bramani nel 1936.
[17] Cfr. Anita Rubini, Ritorno sul
Don, op. cit., p. 62.
[18] Cfr. Giorgio Bocca, Storia
d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, op. cit., pp. 333-334.
[19] Roberto Genovesi, Nella tela
del ragno, in “Focus storia wars”, n. 1, inverno 2010, pp. 50-55.
[20] Stefano Rossi, I diavoli
bianchi, in “Focus storia”, n. 26, dicembre 2008, pp. 68-72.
[21] Bedeschi raccolse le sue memorie
nel romanzo Centomila gavette di ghiaccio edito da Mursia nel 1963 e vincitore
del Premio Bancarella 1964.
[22] Nuto Revelli è noto
particolarmente per Mai tardi. Diario di un alpino in Russia (1946) e La
strada del Davai (1966).
[23] Rigoni Stern depositò i suoi
ricordi nello splendido romanzo Il sergente della neve (1953) e in Ritorno sul Don (1973).
[24] Rivolgo un sentito ringraziamento all’UNIRR
(Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia) a cui si devono diverse
informazioni sui caduti spezzanesi.
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