di
Mario Gaudio
La lettura delle Lettere sulla follia di Democrito,
egregiamente curate da Amneris Roselli, ci restituisce un quadro confortante su
quello che fu ‒ e, ahimè, non è più, ma potrebbe e dovrebbe tornare ad essere ‒
il rapporto fecondo tra l’intellettuale e il suo ambiente.
È evidente che lo scritto, databile con buona approssimazione al I secolo a. C., è figlio di tempi remoti e solidali in cui le città amavano i loro sapienti e ne erano riamate, ma è altrettanto palese il fatto che la problematica di fondo sia di estrema attualità in relazione alla nostra società consumistica ed ipertecnocratica, ma fondamentalmente regredita in termini di valori culturali e di tutela delle arti e dei loro rispettivi rappresentanti.
Se a ciò si aggiungono il dilagante disinteresse da parte
delle giovani generazioni, la riduzione ai minimi termini della gloriosa
attività della critica militante, l’utilizzo improprio da parte della politica
di manifestazioni culturali ‒ colpevolmente degradate e volutamente ridotte a
mera vetrina autoreferenziale ‒ e, non ultime, le dolorose quanto necessarie
restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19, lo scenario che ne affiora è
oggettivamente catastrofico.
Lungi dal voler alimentare polemiche e a debita distanza
dalle querule quanto sterili geremiadi dei presunti intellettuali da tastiera,
la presente recensione si condensa in un invito lapidario e pressante: tornare
a leggere e ad attualizzare i classici della letteratura e della filosofia.
L’insegnamento ultimo delle Lettere consiste proprio nella
costruzione di una visione del mondo alternativa basata sulla presa di
coscienza delle contraddizioni dell’essere umano.
L’epistolario di Ippocrate può essere idealmente suddiviso
in tre sezioni razionalmente legate dal fil rouge della costante attenzione nei
confronti dell’Uomo e dalla volontà di comprenderne sino in fondo la natura.
Nella prima parte (Epistole 1-9) è raccontato l’antefatto
che proietta una luce chiarificatrice sulla figura di Ippocrate e sul rapporto
con i suoi concittadini di Cos.
Il re persiano Artaserse, il cui esercito è flagellato da
una mortale e misteriosa epidemia,[1] chiede, promettendo in
cambio immense ricchezze, l’intervento del medico greco che, preceduto dalla
fama e da una presunta discendenza divina che lo collegherebbe addirittura ad Asclepio,[2] non fa tuttavia
tardare il suo diniego giustificandosi col rispondere: «[…] non mi è lecito
godere delle ricchezze dei Persiani né porre fine alle malattie di barbari che
sono nemici dei Greci».[3]
Alla minaccia del sovrano straniero, i Coi rispondono
coraggiosamente che «[…] non consegneranno Ippocrate, neppure se dovessero
morire della morte peggiore»,[4] facendo affiorare un
leale e profondo attaccamento verso il loro illustre conterraneo.
Ancora una volta viene chiesto aiuto ad Ippocrate che, quasi
commosso dalle concitate suppliche degli Abderiti e confortato da un presagio
positivo ricevuto in sogno,[7] cede all’invito
recandosi a far visita al sapiente filosofo.
Nell’epistola 17 è descritto con palpitante e pittorico
realismo il momento dell’incontro tra i due intellettuali: «Democrito sedeva
sotto un platano basso e dalla grande chioma; vestiva una tunica spessa, da
solo, scalzo era seduto su di un sedile di pietra, pallido ed emaciato, con la
barba lunga. Vicino a lui, alla sua destra, cantava tranquillo un piccolo rivo
d’acqua che scendeva lungo il pendio della collina. Sulla collina c’era un
santuario, a quel che si poteva arguire dedicato alle Ninfe, ricoperto di vite
selvatica. Egli, in atteggiamento di grande compostezza, teneva un libro sulle
ginocchia mentre altri erano sparsi a terra attorno a lui; c’erano anche
ammucchiati molti animali che erano stati completamente sezionati. Egli ora si
piegava concentrato nella scrittura, ora restava a lungo immobile pensando e riflettendo
tra sé; poi dopo un po’ si alzava, si aggirava osservando le viscere degli
animali, le riponeva e tornava a sedersi».[8]
Il presagio favorevole, la placidità del locus amoenus e il
lucidissimo ragionamento democriteo, che giustifica il riso come risultato
della riflessione sulla banalità degli affanni dell’Uomo,[9]
trasformano Ippocrate costringendolo a smettere i panni del medico-guaritore
per indossare quelli del guarito.
Non c’è più dubbio alcuno sulla sanità mentale del sapiente
abderita e sulla incomprensione ‒ benché giustificata dalla buona fede e mitigata
dal profondo affetto ‒ dei suoi concittadini.
Nella terza ed ultima sezione (Epistole 22-24) sono contenute
una sintesi delle conoscenze mediche dell’antichità ‒ con particolare
riferimento alle varie sedi anatomiche umane ‒ e una serie di consigli per
condurre un regime di vita salutare.
L’impianto dell’intera opera si basa, come accennato in precedenza, sulla attenta analisi delle contraddizioni dell’esistenza e sul loro necessario superamento.
Tuttavia, al di là delle questioni prettamente filosofiche,
l’epistolario di Ippocrate veicola a gran voce l’urgenza di ristabilire legami
ed equilibri tra la figura del sapiente e la comunità di appartenenza, così
come il riso democriteo, assolutamente privo di forza sovversiva o spirito
carnevalesco come vorrebbe erroneamente Bachtin,[10]
ha come palese obiettivo quello di superare banalità e radicate ipocrisie per
un ritorno all’essenziale che, di conseguenza, indurrebbe a riscrivere in
chiave positiva i rapporti sociali.
Possano questi antichi e savi auspici guidarci nella
costruzione delle relazioni post-Covid!
[1] «Senza combattere veniamo vinti,
il nostro nemico è una fiera che fa scempio delle greggi; molti ne ha feriti ed
è difficile curarli; scaglia su di noi amare frecce su frecce» (Epistola 1).
[2] Divinità protettrice dell’arte
medica.
[3] Epistola 5a.
[4] Epistola 9.
[5] Epistola 10.
[6] «Dimentico di tutto, e in primo
luogo di se stesso, veglia giorno e notte ridendo di tutto, delle piccole cose
e delle grandi, e pensa che la vita non sia nulla» (Epistola 10).
[7] Nell’Epistola 15 si descrive la
visione onirica nella quale Asclepio, accompagnato da serpenti («rettili enormi
[…] che incalzavano con grandi sibili») e da un seguito di personaggi che
recavano «ceste di farmaci ben chiuse», rassicura il suo discendente con tali
parole: «In questa circostanza non hai nessun bisogno di me, ma ora questa dea
[la Verità, n.d.a.], comune agli immortali e ai mortali, ti guiderà».
[8] Epistola 17.
[9] Democrito spiega le motivazioni
del proprio riso in questi termini: «Ma io rido solo dell’uomo, pieno di
stoltezza, vuoto di azioni rette, infantile in tutte le sue aspirazioni, che
dura le peggiori fatiche per non ricavarne alcun vantaggio, che con i suoi
desideri smisurati percorre la terra fino ai suoi confini e penetra nelle sue immense
cavità, fonde l’argento e l’oro e non smette di accumularne, si affanna ad
avere sempre di più per essere sempre più piccolo. Non si vergogna di essere
ritenuto felice perché scava le profondità della terra con le mani di uomini
incatenati: di essi alcuni muoiono sotto crolli di terra, altri, in lunghissima
servitù, vivono in quella prigione come nella loro patria; cercano argento e
oro, frugando tra polvere e detriti, spostano mucchi di sabbia, aprono le vene
della terra per arricchirsi, fanno a pezzi la madre terra. Ed è un’unica terra,
quella stessa che percorrono pieni di ammirazione! C’è davvero da ridere; amano
la terra nascosta, che affatica, ed oltraggiano quella che possono vedere!
Alcuni comprano cani, altri cavalli, altri, ponendo i confini, segnano come
loro un grande territorio e mentre vogliono essere padroni di molta terra non
lo sono neppure di se stessi» (Epistola 17).
[10] Cfr. in proposito Michail Bachtin,
L’opera di Rabelais e la cultura
popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 2001 (1979).
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