di
Mario Gaudio
Mentre negli anni 1953/1955 l’etnologo danese Holger
Rasmussen conduceva approfondite ricerche tra Calabria e Basilicata (Sartano,
San Martino di Finita e Matera), il suo collega italiano Ernesto De Martino
(1908-1965) esplorava a più riprese, nell’arco temporale 1950/1957, diverse
località della Lucania constatando l’estrema arretratezza economica e sociale
del territorio e raccogliendo preziosissimo materiale documentario su riti e
tradizioni ancestrali che continuavano a sopravvivere in quell’angolo di mondo
senza tempo.
Sud e magia è il frutto di tale paziente e approfondita
inchiesta che, sebbene immeritatamente confinata nell’angusto spazio riservato
ai pochi cultori della materia, ci fornisce interessantissime informazioni sui
modi di vivere il quotidiano e di concepire il sacro in un contesto dominato
dalla miseria e dall’isolamento geografico e morale.
De Martino riporta con intelligenza quell’insieme di
pratiche che accompagnavano il ciclo della vita nei suoi momenti salienti
(gravidanza, nascita, infanzia, innamoramento, matrimonio e malattia), senza
dimenticare il ruolo della natura e i tentativi di addomesticarne i fenomeni ‒
per esempio le tempeste ‒ al fine di preservare i frutti del lavoro dei campi,
la cui distruzione avrebbe segnato inesorabilmente il destino di intere famiglie.
Ne emerge un comune denominatore: la necessità di
scongiurare la fascinazione ‒ erede agreste della baskania greca e del fascinum
latino ‒ e di ricorrere all’opera di figure depositarie di una particolare
“virtù” e di un sapere popolare la cui origine si perde nei meandri della
Storia.
Ecco, pertanto, che a Gròttole il mal di testa può avere
un’origine fisiologica oppure magica, ma per stabilirne la causa occorre
mettere in pratica un antico rituale versando una goccia di olio in un
recipiente colmo d’acqua: nell’eventualità di un’espansione dell’olio, si ha la
certezza di una influenza negativa a cui si deve porre rimedio gettando «[…]
l’acqua per la strada, proprio davanti a persona che si trovi a passare, nella
persuasione che il passante, calpestando il bagnato, prenda su di sé la fascinatura
e ne liberi la vittima».
La difficoltà di un momento cruciale come il parto è,
invece, scongiurata nella cultura contadina lucana scucendo alcuni punti del
materasso su cui la gestante è distesa, in modo da propiziare una facile espulsione
del bambino; la medesima operazione è compiuta al termine della vita,
sull’ultimo giaciglio del moribondo, allo scopo di favorire l’uscita
dell’anima.
Le precarie condizioni igienico-sanitarie, causa primaria di
un altissimo tasso di mortalità infantile, hanno indotto a sviluppare una serie
di pratiche finalizzate a corroborare la delicata esistenza del nascituro. In
quest’ottica si inseriscono la tradizione dell’immersione del neonato in una
mistura di acqua e vino, l’uso di incipriarlo con polvere ricavata dalla trave lignea
principale dell’abitazione ‒ simbolo di forza e stabilità ‒ e una strana
consuetudine che prevede di condurre l’infante davanti alla bocca di un forno
ancora tiepido, affinché assimili le virtù del fuoco.
Tuttavia, la fragile vita del bambino urge altresì di una
protezione spirituale garantita dal battesimo e rafforzata, in un curioso
«sincretismo pagano-cattolico», da due interessanti riti: il primo si svolge
attorno alla culla lì dove «[…] i familiari dispongono […] sette sedie, una
bacinella e un asciugamano […]», dal momento che «a mezzanotte in punto
verranno sette fate, benediranno naca (culla, n.d.a.), bambino e corredino,
attingendo acqua lustrale alla bacinella e asciugandosi poi all’asciugamano»;
il secondo si cristallizza in una sorta di talismano denominato “abitino” che,
battezzato assieme al pargolo, è costituito da un sacchetto contenente diversi
oggetti che, pur nel variare delle tradizioni locali, possono essere
parzialmente elencati: un pezzetto di ferro di cavallo, chicchi di grano, grani
di sale, figurine di santi, crocette di paglia, un pizzico di cenere, un dente
di volpe, un pelo di cane nero e due aghi legati in croce.
Non mancano altri amuleti che la complessa cultura contadina
della Lucania ha inteso assurgere a strumenti di tutela della vita appena
sbocciata contro invidie e fascinazioni. Si ricordano, a tal proposito, le
forbici nascoste dentro le fasce dell’infante (documentate a Tricarico) e
alcuni oggetti posti nelle immediate vicinanze della culla: «un ramoscello di
sabina (Juniperus sabina, n.d.a.), una chiave, un piccolo pugnale, due pezzi di
ferro in croce».
Come si evince da questi pochissimi esempi, il fine ultimo
delle vetuste pratiche della magia lucana è quello di tutelare integralmente
l’esistenza dell’essere umano dal concepimento alla dipartita.
Tutto ciò trova una sua valida giustificazione nelle
precarie condizioni sociali imperanti nelle comunità prese in esame e nel
fondamentale bisogno degli individui di creare forme di protezione in grado di
trasporre e risolvere su un piano metastorico le negatività della vita reale.
Tale operazione è resa possibile, secondo De Martino, ‒ che smette i panni
dell’etnografo per indossare quelli dell’etnologo nel tentativo di dare una
sistemazione organica ai dati raccolti ‒ dalla convivenza tra «il mito in
quanto exemplum risolutore dell’accadere e il rito in quanto iterazione del
mito».
Ovviamente, un simile ragionamento può essere esteso anche
alla mitologia e alla religione che, secondo la giusta osservazione di Umberto
Galimberti, diventano i luoghi adatti ad affrontare le incertezze del
quotidiano.
Insomma, l’intero impianto etnologico demartiniano ‒
comprese le sciatte pagine in cui l’autore ricostruisce la storia della jettatura
‒ diventa tentativo costante di ricomposizione delle fratture sociali ed
economiche con conseguente ricerca di un equilibrio in grado di far guardare
con fiducia al futuro.
Sud e magia ci insegna a comprendere un mondo dominato
dall’incertezza ma, soprattutto, l’intima lotta dell’essere umano che, pur di
far prevalere costantemente la vita, non esita a ricorrere all’irrazionale.
Spezzano Albanese (Spixana), 15/09/2020