di
Ettore Marino
Valery Larbaud coniugò in sé sapienza varia e vera, amore del nuovo, ripiegamenti e nostalgie. Viaggiò e s’imbevve di spettacoli. Il treno era un mezzo fatato. Lo cantò come segue: “Dammi il vasto tuo strepito, il così dolce solenne tuo incedere, / il tuo scorrere a notte lungo l’Europa illuminata, / o treno di lusso!, e l’angosciante musica / che va frusciando lungo i tuoi corridoi di cuoio dorato / mentre, di là dalle laccate porte dai grevi chiavistelli in rame, / i milionari dormono. [...] La prima volta che sentii tutta intera la gioia di vivere / fu in una cabina del Nord-Express, tra Wirballen e Pskow.” Poi, nella medesima lirica, ritorna a sé: “Ah, occorre che gli strepiti e il moto suo stesso / entrino nei miei versi a dire / per me la mia vita indicibile, la vita mia / di bambino che nulla vuol sapere / e che spera in eterno le più indistinte cose.” (Ode. Mia ogni traduzione sparsa lungo il presente scritto.) Semplice e lieve, la vita quotidiana è là, col suo monotono brusio: “O splendore della vita comune, del tran tran ordinario!” (Alma perdida) La nostalgia dell’indistinto può a volte farsi ombra, vaghezza, sfumatura, però non si spappola mai in descrizione confusa: visivo più che visionario, i luoghi che visitò ritornano sul foglio con puntuale nitore pregno di echi, quasi con alta e nobile pedanteria: quella che, e non è che un esempio, usò in una lirica nominando la felce arborescente dell’Orto botanico di Napoli: quella pianta, quel luogo. Codesto nominare può giungere a sgranarsi in gaudiosi rosari: un luogo dopo l’altro, un nome accanto all’altro. Pericoloso affare! Il rischio della suggestione facile bracca osceno la penna. Immaginiamo, per meglio intendere la cosa, un cantautore che, a fugare la noia d’un troppo lento pomeriggio, accosti nomi di luoghi e di popoli d’Oriente in un nastro di accordi poco più che puerili - banalità in forma di canzone. Nemmeno occorre immaginarselo, giacché esiste di suo, ed è il Franco Battiato di Strade dell’Est. Fu, sì, notato che Larbaud ecceda in punti esclamativi; ma in battiatismi non si invilì giammai.
Bene. La principessa di Bassiano, che viveva a Parigi, aveva chiesto al Larbaud, in viaggio per l’Italia, une longue lettre (qui tradurre è superfluo). Perfetto cavaliere, Larbaud obbedì: la compose: a Bologna, nell’Agosto del 1924; la ripartì in capitoletti; la intitolò Lettre d’Italie; la fece pubblicare pochi mesi dopo. Di essa qui intendo parlare. Mi parrà di viaggiare lungo il suo corpo, da cui strapperò qualche brano.
Valery è felice di trovarsi in Italia, in compagnia di amici veri, di veri uomini di Lettere: Henry Festing Jones, Mario Puccini, Milan Begovic... Li affratella l’amore per la lingua italiana. Amica o no che sia l’anagrafe, spumeggia giovinezza lieta, si rapprende su un foglio che sembra grato di assorbire l’inchiostro le lettere le sillabe le parole le frasi... I luoghi visitati: la Bocca d’Arno, Firenze, Rimini, San Marino, Loreto; nòcciolo duro dichiarato, il borgo di Giacomo Leopardi.
Larbaud confessa con orgoglio di patire la fascinazione della lingua toscana e di chi la parla: “la sua pronuncia pura, le sue parole sempre giuste.” In una Firenze spopolata e assopita dall’estate rovente, non vede nulla, non incontra nessuno. Si reca solamente al Cimitero acattolico, a deporre un mazzetto di fiori sulla tomba di Walter Savage Landor. Soltanto la destinataria della Lettre conosce i motivi profondi di una tale “visita di rito, di tradizione.” Noi, che possiamo soltanto supporli, rispetteremo la pudìca reticenza.
Altra atmosfera in Bocca d’Arno. Cibi, vini, letture; danze di corpi seminudi - e la parola ritorna a fluire, felice delle “passeggiate nella pineta, secca e netta come un erbario, per magici sentieri all’ombra degli alti piumaggi di questi alberi divini quasi come gli olivi e i cipressi. Dune impreviste, valloni e deserti in miniatura, laghi ignoti ai geografi, e misteriose fonti di fiumi che tra le sabbie si perdevano [...]”
La visita a Loreto ritorna a imporre al viaggiatore la castità del silenzio. Pensa di già a Leopardi. Si sforza di guardare ogni cosa con gli occhi di lui, che giovinetto vi era stato in visita più volte. Ma poi erompe un grido. È la scritta latina gravata sull’altare della Santa Casa a strapparglielo: Hic Verbum caro factum est, “Il Verbo, qui, si è fatto carne” - e l’urlo è modulato col riportare un brano di un’ode di Jean-Baptiste Rousseau inneggiante alla Vergine: un’ode dall’“avvio sublime, su una nota elevata, simile all’improvviso esplodere di un canto di trionfo su un organo immenso: ‘Regna a sua volta Eva, trionfante sul dragone’.”
Avere visto e scriverne è però solo un modo di intendere il viaggio. Viaggiare può essere infatti anche andare a raggiungere ciò che si era sognato. Le prose e i versi di Leopardi, e la allora assai nota biografia che Giuseppe Chiarini gli aveva dedicato, avevano tracciato nell’anima di Valery Larbaud un quadro dell’archetipale borgo inabitabile. Recanati in realtà si palesa come vista leggiadra, tutta in gloria d’azzurri. Doverci vivere sempre e per forza: ecco la dannazione! Anche qui, Valery guarda con gli occhi di Giacomo: di Giacomo, di cui avverte la voce più propria in versi quali “ed alla tarda notte / un canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco, / già similmente mi stringeva il core.”; di Giacomo, che scopre l’essenza “del ricordo (‘il rimembrar delle passate cose’), la volontaria e cosciente riconquista del passato, la cui eco raggiunge anche noi.”
Ma Recanati era il conte Monaldo, e palazzo Leopardi era Adelaide Antici. Li ho sempre immaginati vecchi, dovendomi ogni volta costringere a pensare che quando Giacomo nacque Monaldo non aveva che ventidue anni, e venti ne aveva Adelaide. Lui timido, pauroso, convinto delle proprie idee. Il passato è certezza, l’avvenire dubbio. Letterato, pensatore, uomo della provincia papalina, serioso più che serio, sogna Giacomo vescovo, o addirittura papa. Il figlio arde di altra brama. Vuole essere amato. Vuole la gloria. La verità che si fa forma è in lui passione “cui s’abbandona come un dannato alla fiamma” - e ciò Monaldo non comprende. Adelaide, benché marchesa, è un’“aspra contadina brutale e illetterata.” Non era illetterata, e Monaldo era da più di quanto Larbaud dica. Intanto, tali entrambi per Giacomo, e per Paolina e Carlo, e per tutta la prole che ebbero: un padre colmo di paure, una madre tutta algori e durezze. Il borgo di vacui galantuomini e di zoticume ridacchiante, i genitori privi d’aria, le malattie, la povertà... Ma Giacomo trionfa. Ci nutre. Lo amiamo.
Larbaud quasi gioca a elencare le soglie che portano alla gloria, ma il suo discorso è serio. Meritare l’alloro non è di per sé conseguirlo. L’eroe letterario è come un santo laico. Occorre una voce autorevole che, vivente o morto, lo ponga sugli altari: pian piano lo vedranno e lo venereranno tutti. La gloria grande, la gloria sognata con insolente desiderio, Giacomo non gustò. Ma seppe in ogni istante di essere ciò che era. Scolpì sul foglio quasi fosse una roccia. Rimase, il segno. Qui non è più Larbaud a parlare. L’Editoria di allora, timorosa della censura e sparagnina sulla carta da imprimere, non si era ridotta a tremare di fronte a due irrealtà, a due astrazioni, a due buie fantasime per giunta incompatibili tra loro. Avrebbe mai Leopardi scritto quello che scrisse sotto il beffardo incubo d’un revisore che l’avrebbe ridotto a brodino per la bocca, congetturata senza denti, del Lettor Medio e del Signor Tutti? - le irrealtà cui alludevo. Se questa vita è marcescenza e la parola eternata riscatto, che cosa avrebbe fatto Giacomo di tutte le sue carte sapendo che, secondo prassi, le estreme e indelebili muffe le attendevano al varco editorio? Le avrebbe date al fuoco? O si sarebbe piegato a vedere L’infinito andare per il mondo col nome suo d’autore però violato da altra mano in “Ho sempre amato questa appartata collina”? Incubo proiettato indietro, questo; inverecondo affanno che a Giacomo Leopardi la vita risparmiò.